Dal Palazzo del Quirinale il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – Capodanno 31 dicembre 2011
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Beppe Grillo realizza per la TSI, Televisione della Svizzera Italiana, il documentario UN GRILLO PER LA TESTA – “Lo zaino ecologico” e il “punto di non ritorno”, vincitore del “Premio Gran Paradiso” al Canavese International Ecofilm Festival. Il documentario alterna gli interventi comici di Beppe Grillo con interviste ad esperti qualificati che descrivono il concetto di “zaino ecologico” e di “sviluppo sostenibile”. Il documentario non è ancora stato trasmesso in Italia ed è stato pubblicato in VHS dalla EMI, Editrice Missionaria Italiana.
Regia: Tiziano Gamboni, Gianluigi Quarti
Sceneggiatura: Beppe Grillo, Gabriele Fischer
Produttore: Enzo Pelli
Casa di produzione: R.T.S.I. TELEVISIONE SVIZZERA
La policía de India arrestó a varios trabajadores eventuales que demandaban el pago de salarios atrasados y el reconocimiento de 20 años de labores en el Departamento de Energía. Xinhua
Activistas, entre ellos el escritor Eduard Limonov, que trataban de manifestarse sin autorización en Moscú para reclamar la salida del primer ministro, Vladimir Putin, fueron detenidas. Reuters
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Proibito salutare il 2012 con spari e fuochi d’artificio in grandi città come Milano, Torino, Venezia e Bari e in tantissimi centri minori.Quasi quattro tonnellate di materiali esplodenti scoperte dalle forze dell’ordine nel Napoletano, due tonnellate a Padova
Il botto illegale “spread” (ansa)
ROMA – Quest’anno la guerra ai botti non l’hanno fatta solo le forze dell’ordine ma anche le amministrazioni locali. Sono infatti circa duemila i Comuni in cui sarà proibito salutare l’anno nuovo con spari e fuochi d’artificio. Dalle grandi città come Torino 1, Milano 2, Venezia e Bari 3 ai centri minori come Ercolano 4 e Seriate. E le multe arriveranno in alcuni casi a 500 euro. Chiaro l’intento dei sindaci che hanno optato per il divieto: evitare che il 2012 inizi con il tragico bollettino delle vittime che ha spesso funestato il Capodanno in passato. Ma c’è anche chi, come il primo cittadino di Torino Piero Fassino, ha motivato la sua scelta con la necessità di tutelare gli animali domestici che rischiano la morte per lo spavento. Ma c’è anche chi, come il sindaco di Roma Gianni Alemanno 5 e quello di Firenze
Matteo Renzi 6, ha giudicato inutile adottare un provvedimento di questo tipo.
L’Aidaa (Associazione italiana difesa animali e ambiente) definisce il numero dei Comuni che hanno vietato i botti “un record assoluto inimmaginabile fino a qualche giorno fa, che però rischia di restare sulla carta se questa sera le forze dell’ordine non effettueranno un ampio controllo del territorio per multare in maniera significativa chi trasgredirà le ordinanze (molto spesso emesse nelle ultime ore e quindi non da tutti conosciute) e sparerà lo stesso i botti”. Misure da prendere “sia a tutela delle migliaia di animali che rischiano la morte, ma anche e soprattutto per tutelare anziani e cardiopatici e bambini”.
Il vademecum degli esperti 7 – Video Lo spot contro i botti illegali 8
L’altro fronte è quello dei sequestri, anche quest’anno numerosissimi. Nel mirino delle forze dell’ordine soprattutto i botti illegali, non conformi alle normative e quindi più pericolosi. Come già in passato, anche per il Capodanno 2012 i nomi degli ordigni si ispirano all’attualità. Così il “pallone di Maradona” e la “bomba Bin Laden” hanno ceduto il posto a “spread” (le foto 9), un vero e proprio ordigno ad altissimo potenziale che prende il nome da un termine entrato nel lessico quotidiano con la crisi economica.
In provincia di Napoli sono state sequestrate 10 quasi quattro tonnellate di botti e fuochi illegali, una decina di persone sono state arrestate e almeno 12 denunciate. In alcuni casi i materiali esplodenti erano stipati in luoghi impensabili: a Melito un quintale e mezzo di “cipolle” erano sul pianerottolo di un’abitazione, a Terzigno 80 chilogrammi erano nascosti tra i banconi di una pescheria, a Mugnano un giovane incensurato teneva un quintale di fuochi e bengala in un armadio. A San Giuseppe Vesuviano un uomo di 62 anni teneva dentro e fuori la sua auto più di due tonnellate di botti, molti dei quali di produzione cinesi e vietati, pronti ad essere venduti. Il posto dove però nessuno avrebbe immaginato di trovare questo genere di cose è il circolo dei devoti della Madonna dell’Arco a Bagnoli: ce n’erano ben sei quintali (le foto 11).
A Bracciano, in provincia di Roma, un insospettabile padre di famiglia, cinquantenne con un lavoro regolare, arrotondava vendendo botti: è stato arrestato per detenzione illegale di circa sei quintali di materiale esplodente che teneva in una casa di sua proprietà.
Circa 150 chilogrammi di fuochi pirotecnici non conformi alle norme sono stati sequestrati dalla Guardia di finanza alla periferia di Notaresco (Teramo), in un casolare abbandonato che da qualche giorno era interessato da un insolito viavai.
Un altro quintale e mezzo di prodotti esplosivi classificati in IV e V categoria e di manufatti artigianali pericolosi sono stati sequestrati dalla polizia al titolare di una rivendita di fuochi d’artificio di Laterza(Taranto), che era sprovvisto di autorizzazioni e nascondeva la merce in un furgone e una Fiat Multipla. L’uomo è stato denunciato.
Due tonnellate di botti illegali per un valore di circa mezzo milione di euro sono stati sequestrati e tre persone sono state denunciate nell’operazione “Fuoco amico” condotta dalle Fiamme gialle di finanza diPadova.
I carabinieri di Verona hanno sequestrato 400 chilogrammi di fuochi artificiali e botti che un uomo di 62 anni teneva in cantina.
Regia: Igor Pardini
Sceneggiatura: Beppe Grillo
Produttore: Marangoni Spettacolo
Casa di produzione: CASALEGGIO ASSOCIATI
Distribuzione: CASALEGGIO ASSOCIATI
Musica: “Un grillo per la testa” – Leo Pari
“Il blog http://www.beppegrillo.it è nato il 26 gennaio 2005, in silenzio, piano piano. Io e il blog siamo cresciuti insieme, abbiamo imparato a conoscerci. Sono diventato il suo schiavo, pubblico un articolo al giorno, sia in tournée che in vacanza, e anche la domenica. Belìn. E leggo tutti i commenti, che sono tanti, centinaia, migliaia. Ogni tanto non ce la faccio, lo confesso. Credo di avere il blog più commentato del mondo. Ho conosciuto, attraverso le loro parole, persone che pensavo scomparse, persone pulite, che scrivono c…o con i puntini-puntini. Persone che ogni giorno lavorano, crescono i loro figli, combattono la loro battaglia con grande dignità con otto/novecento euro di stipendio al mese”.
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Con crimini di guerra italiani ci si riferisce a quegli atti di massima gravità contrari ai trattati e alle leggi penali internazionali, commessi dalle forze armate italiane dall’Unità d’Italia ad oggi. Nella voce vengono trattati fatti riguardanti le truppe italiane nelle guerre coloniali, in Etiopia e in Libia, durante la seconda guerra mondiale nei Balcani e in Grecia e nelle missioni di pace alla fine degli anni novanta in Somalia.
Guerra di Libia Africa
Guerra Italo-turca e sue conseguenze
Il 18 ottobre 1912, con la stipulazione del Trattato di Losanna, l’Impero Ottomano cedeva all’Italia (a titolo di “protettorato“) la Tripolitania e la Cirenaica, mantenendo una sovranità religiosa sulle popolazioni musulmane dei luoghi. Ma già il 18 dicembre 1913, il deputato socialista Filippo Turati, denunciava l’uso della forca e i giudizi sommari contro la popolazione locale[2].Il 23 ottobre 1911, nel corso della guerra per la conquista della Libia, due compagnie di bersaglieri furono accerchiate ed annientate nei pressi dell’oasi di Sciara Sciat. L’operazione si era conclusa con episodi di incredibile brutalità, da parte dei libici, che provocarono la morte di 21 ufficiali e 428 soldati italiani di truppa. In aggiunta alla rappresaglia, nel corso della quale furono uccisi almeno un migliaio di arabi (altre fonti europee e libiche ne contarono circa 4.000), si dispose la deportazione in Italia dei “rivoltosi” arrestati. L’operazione riguardò circa quattromila libici, che furono trasferiti nelle colonie penitenziarie delle Isole Tremiti, di Ustica, Gaeta, Ponza, Caserta e Favignana. Gli scarsi dati rimasti rilevano che, per le pessime condizioni igieniche e lo scarso cibo, alla data del 10 giugno 1912, alle Tremiti, erano già deceduti 437 reclusi, cioè il 31% del totale. A Ustica, nel solo 1911, ne morirono 69; a Gaeta e Ponza, nei primi sette mesi del 1912, altri 75. Nel corso del 1912, furono rimpatriati 917 libici, ma le deportazioni continuarono, con punte notevoli intorno al 1915[1].
La repressione italiana in Tripolitania ed in Cirenaica avvenne tramite i tribunali militari speciali, per cui i processi avvenivano spesso all’aperto ed in pubblico per confutare le notizie di esecuzioni sommarie. Gli imputati indigeni venivano il più delle volte condannati a morte e le sentenze immediatamente eseguite. Le accuse più diffuse erano quelle relative alla collaborazione offerta ai ribelli[3].
Il 24 maggio 1915, in base a un rapporto dell’8 ottobre successivo, indirizzato dal consigliere politico di Misurata Alessandro Pavoni al direttore per gli affari politici del Ministero delle colonie Giacomo Agnesa, risulta l’effettuazione di un barbaro massacro da parte dei carabinieri e di ufficiali del Genio civile italiano. Per motivazioni non del tutto accertate (sembra che i libici avessero preso a deridere i militari italiani o che fossero partiti alcuni spari dall’edificio in questione), sei soldati italiani scalarono il tetto di un piccolo albergo, sparando alcuni colpi di fucile nel cortile; poco dopo un capitano dei carabinieri ordinò che l’edificio fosse incendiato, operazione che fu eseguita dopo la devastazione e la rapina di tutto ciò che potesse essere utile ai devastatori. Le vittime, quasi tutte bruciate vive, furono almeno trentadue, di cui solo otto uomini adulti. L’inchiesta ministeriale si concluse con il proscioglimento degli accusati[4]. L’evento è ricordato da un piccolo monumento eretto alle spalle del municipio.
Un altro rapporto parla dell’uccisione di settantacinque arabi agricoltori nei pressi di Suani Ben Aden, a una quarantina di chilometri a sud-est di Tripoli, il 7 luglio 1915; il motivo: il rinvenimento di alcuni barilotti ed altri oggetti militari italiani nel dorso di alcuni cammelli appartenenti agli arabi uccisi. Anche in questo caso l’inchiesta ebbe il medesimo risultato[5].
Il 31 ottobre 1919, l’Italia approvò gli statuti della Tripolitania e alla Cirenaica, ove, pur attribuendo la nazionalità italiana alle due popolazioni, si concedeva alle stesse una parziale autonomia. Un analogo accordo veniva stipulato il 15 ottobre 1920 con Ahmed El Senussi, il quale riconosceva la sovranità italiana sull’interno della colonia, in cambio del riconoscimento del suo titolo di emiro e di una larga autonomia.
Operazioni militari per la “riconquista” (1923-32)
Con l’avvento del regime fascista, tutti i patti con la Senussia furono denunciati e, il 6 marzo 1923, il governatore della Cirenaica, Luigi Bongiovanni proclamò lo stato d’assedio. Iniziarono così le operazioni per la “riconquista” della colonia.
Il 31 luglio 1930 vennero bombardate le oasi di Taizerbo. Di tale operazione esiste un rapporto da parte del generale Rodolfo Graziani – divenuto vice governatore della Cirenaica – al Ministro delle Colonie. Da esso si apprende che il bombardamento fu effettuato da quattro apparecchi Ro armati con 24 bombe da 21 chili, 12 bombe da 12 chili e 320 bombe da 2 chili, tutte ad iprite. Graziani riferisce che: “Il bombardamento venne eseguito in fila indiana passando sull’oasi di Giululat e di El Uadi e poscia sulle tende, con risultato visibilmente efficace”[6]
Cufra, città santa per gli islamici considerata da Graziani “centro di raccolta di tutto il fuoriuscitismo libico” fu bombardata il 26 agosto e i ribelli inseguiti verso il confine con l’Egitto. Lo stesso Graziani parla di 100 ribelli uccisi, 14 ribelli passati per le armi e 250 fermati tra cui donne e bambini. Dopo una nuova insurrezione, il 20 gennaio 1931 la città è rioccupata dagli italiani; ne seguirono tre giorni di violenze ed atrocità impressionanti che provocarono la morte di circa 180-200 libici e innumerevoli altre vittime tra i sopravvissuti[7].
Il giornale di Gerusalemme “Al Jamia el Arabia” pubblica il 28 aprile 1931, un manifesto in cui si ricordano:
« …alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire: da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare ogni sorta di castigo … senza avere pietà dei bambini, né dei vecchi…[8] » |
Deportazioni dalla Cirenaica
Il 20 giugno 1930, il governatore unico della Tripolitania e della Cirenaica, maresciallo Pietro Badoglio, dispose l’evacuazione forzata della popolazione della Cirenaica, per la quale circa centomila persone furono costrette a lasciare tutti i propri beni portando con sé soltanto il bestiame[9].
Il motivo delle deportazioni viene da taluni ricollegato alla ripopolazione del Gebel da parte di coloni italiani[senza fonte], mentre Rodolfo Graziani le giustificava per porre termine alla ribellione senussita[10].
La massa dei deportati fu rinchiusa dalle truppe agli ordini di Graziani, in tredici campi di concentramento nella regione centrale della Libia, ove, in base alle cifre ufficiali furono reclusi 90.761 civili[11], dopo una marcia forzata di oltre mille chilometri nel deserto. Le persone furono falcidiate dalla sete e dalla fame.
Tra i vari episodi di crudeltà si cita l’abbandono di molti indigeni, tra cui donne e bambini, nel deserto privi di acqua a causa di vari dissidi; altri morti per fustigazioni e fatica. Fonti straniere, non censurate dal governo italiano e mostrate anche nel film “Il leone del deserto“, mostrano riprese aeree, fotogrammi e immagini di veri e propri campi di concentramento, in cui i deportati venivano internati senza alcuna assistenza o sussidio. Le esecuzioni sommarie erano all’ordine del giorno per chi si mostrava ostile o cercava di ribellarsi alla situazione[12]. Solo in sessantamila sopravvissero alla deportazione (1932-33)[13]. In pratica, due deportati su cinque persero la vita.
La popolazione della Cirenaica, che in base al censimento turco del 1911 contava 198.300 abitanti, scese a 142.000 secondo i dati del censimento del 21 aprile 1931. Il saldo negativo del 28,6% in soli vent’anni, assume i contorni del vero e proprio genocidio[14]. Il dato non terrebbe conto però delle “deportazioni” del 1929, che spostarono alcune decine di migliaia di persone verso le regioni centrali. Tuttavia, anche il quadro che emerge dalle incomplete cifre dei censimenti delle altre regioni è analogo: il censimento turco del 1911 – infatti – enumerava 523.000 abitanti nella sola Tripolitania; la stima italiana del 1921 faceva ascendere a 570.000 la popolazione araba della Tripolitania e del Fezzan che, il censimento del 1931 calcolava in soli 512.900 arabi[15]. Ciò significa che, al lordo degli spostamenti suddetti, in soli dieci anni, anche la popolazione delle altre due province era scesa di circa il 10% .
Guerra d’Etiopia
Le operazioni di guerra e l’uso delle armi chimiche
Pietro Badoglio in Africa orientale durante la Guerra d’Etiopia.
Per la conduzione della guerra coloniale in Etiopia, furono segretamente sbarcati in Eritrea 270 tonnellate di aggressivi chimici per l’impiego ravvicinato, 1000 tonnellate di bombe caricate ad iprite per l’aeronautica e 60.000 granate caricate ad arsine per l’artiglieria[16]. La prima autorizzazione al loro uso fu espressa da Mussolini al generale Graziani, comandante sul fronte somalo-etiope, il 27 ottobre 1935: “come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico o in caso di contrattacco”[17]. In tale occasione, peraltro, il loro uso non fu ritenuto necessario.
Il 28 novembre assunse il comando generale dell’offensiva in Etiopia il maresciallo Pietro Badoglio. Quest’ultimo, investito da una forte controffensiva etiopica nella notte tra il 14 e il 15 dicembre, richiese espressamente a Roma l’autorizzazione ad utilizzare gli aggressivi chimici[18]. I documenti pubblicati dimostrano che Mussolini in persona autorizzò espressamente Badoglio all’uso dei gas tra il 28 dicembre1935 e il 5 gennaio 1936 e tra il 19 gennaio e il 10 aprile .[17][19]. Un’ulteriore autorizzazione fu successivamente data per la repressione dei ribelli. Il Maresciallo tuttavia, aveva già iniziato autonomamente con l’uso delle armi chimiche sin dal 22 dicembre 1935 e non l’aveva interrotta nemmeno tra il 5 e il 19 gennaio 1936[20]. Tra le suddette date furono lanciati sul fronte nord duemila quintali di bombe, per una parte rilevante caricate a gas tra cui l’iprite (solfuro di etile biclorurato), che provoca leucopenia.
Contravvenendo al Protocollo di Ginevra del 17 giugno 1925, sottoscritto anche dall’Italia[21], all’aviazione italiana fu quindi ordinato di utilizzare su larga scala il terribile gas, che, irrorato dagli aerei in volo a bassa quota, sia sui soldati che sui civili, venne usato con la precisa finalità di terrorizzare la popolazione abissina e piegarne ogni resistenza.
Contemporaneamente (15 dicembre), anche Graziani richiedeva di nuovo al Capo del governo l’autorizzazione all’uso delle armi chimiche. Il comandante ciociaro fu autorizzato “per supreme ragioni di difesa”. L’uso fu effettuato a partire dal 24 dicembre sulla località di Areri, presidiata da Ras Destà, da parte di tre aerei Caproni 101 bis. Gli attacchi furono ripetuti in date 25, 28, 30 e 31 dicembre, per un totale di 125 bombe complessivamente lanciate[22].
Il 26 dicembre sul fronte sud, avvenne la brutale uccisione dell’aviatore Tito Minniti che, caduto in territorio nemico, era stato torturato, evirato ed infine decapitato. Questa sarebbe stata la causa scatenante dell’utilizzo dell’iprite anche su tale fronte [senza fonte], anche se – come detto – l’uso degli aggressivi era già in corso. Ras Destà, tra l’altro, per giustificare all’imperatore la sconfitta subita, dichiarò l’impiego dei gas, anticipandolo al 17 dicembre: “Dal 17 dicembre gli italiani gettano anche bombe a gas, le quali piovono come la grandine… Le lesioni, anche leggere, prodotte da tale gas gonfiano sempre più sino a diventare, per infezioni delle grandi piaghe”.
Il 30 dicembre 1935 in un bombardamento italiano a Malca Dida, ordinato da Graziani, fu colpito un ospedale da campo svedese con i contrassegni della Croce Rossa provocando la morte di 28 ricoverati e di un medico svedese[23]. La notizia farà il giro del mondo. Complessivamente, saranno diciassette le installazioni mediche distrutte dagli italiani, compresi gli ospedali da campo di Amba Aradam e di Quoram[24]
Il 10 febbraio 1936 Badoglio iniziò l’offensiva sull’Amba Aradam durante la quale vennero sparate 1367 granate caricate con arsine[16].
Il 3 e 4 marzo Badoglio, vedendo fuggire il grosso dell’esercito del ras Immirù verso i guadi del Tacazzè, ordinò all’aviazione di proseguire da sola la battaglia. Verrà così utilizzata ancora una volta iprite. I piloti scesi a volo radente per mitragliare i superstiti rilevarono notevoli masse nemiche abbattute e grande quantità di uomini e di quadrupedi trasportati dalla corrente.
Il 4 aprile gli scampati alla battaglia di Mau Ceu furono bombardati con 700 quintali di bombe, di cui molte ad iprite.[25]
Il 15 aprile Graziani diede inizio all’offensiva su Harar dopo aver gasato e bombardato per un mese la difesa etiope iniziando così l’attacco da terra. Il vescovo cattolico di Harar scrisse ai suoi superiori in Francia: “Il bombardamento che gli italiani hanno fatto contro la città è un atto barbaro che merita la maledizione del Cielo”.
Secondo Indro Montanelli[26] Regno Unito e Svezia vendettero in modo continuativo agli abissini proiettili dum dum, vietati dalle convenzioni.
Lo storico britannico James Strachey Barnes, fascista poi naturalizzato italiano con il nome Giacomo, sostenne sui mezzi di informazione dell’epoca, come riferisce Arrigo Petacco, che per quanto riguardava l’uso dell’iprite gli italiani “lo fecero legalmente quando gli abissini violarono altre convenzioni: l’evirazione dei prigionieri, l’impiego delle pallottole esplosive e l’abuso del simbolo della Croce Rossa“[27].
Il 3 maggio 1936 Mussolini telegrafava a Badoglio:
« Occupata Addis Abeba V.E. dara’ ordini perche’: 1°siano fucilati sommariamente tutti coloro che in citta’ aut dintorni siano sorpresi colle armi alla mano. 2° siano fucilati sommariamente tutti i cosiddetti giovani etiopi, barbari crudeli e pretenziosi, autori morali dei saccheggi. 3° siano fucilati quanti abbiano partecipato a violenze, saccheggi incendi. 4° siano sommariamente fucilati quanti trascorse 24 ore non abbiano consegnato armi da fuoco e munizioni. Attendo una parola che confermi che questi ordini saranno – come sempre – eseguiti.[17] » |
Due giorni dopo il maresciallo Badoglio entrava in Addis Abeba e il 9 maggio successivo, dal balcone di Piazza Venezia, Mussolini poté annunciare alle folle la “proclamazione dell’Impero”.
Repressioni in Africa Orientale Italiana dopo la proclamazione dell’Impero
Rispettivamente in data 5 giugno e 8 luglio 1936, Mussolini telegrafò a Graziani, dal Ministero delle Colonie, i seguenti ordini: “Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi” e “Autorizzo ancora una volta V.E. a iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore et dello sterminio contro i ribelli et le popolazioni complici stop. Senza la legge del taglione ad decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma”[17][28].Dopo la proclamazione dell’Impero, il maresciallo Badoglio fu richiamato in Italia e passò le consegne a Graziani, nel frattempo promosso Maresciallo d’Italia. Il 20 maggio 1936, l’ufficiale ciociaro fu investito del triplice incarico di viceré, governatore generale e comandante superiore delle truppe.
Il 19 febbraio 1937 il viceré Graziani invitava nel suo palazzo di Addis Abeba la nobiltà etiope per festeggiare la nascita del principe di Napoli e per l’occasione decideva di distribuire una elemosina ad invalidi del luogo (ciechi, storpi, zoppi). Ma un fallito attentato al viceré (nove morti e una cinquantina di feriti, tra cui lo stesso Graziani), scatenò immediatamente la rappresaglia, da parte degli occupanti italiani.[29]
Il giornalista Ciro Poggiali affermò:
« Tutti i civili che si trovavano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovavano ancora in strada. Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente[30]. » |
Il 21 febbraio Mussolini inviava a Graziani questo telegramma:
« Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno dovrà essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi. Attendo conferma[31]. » |
A tale ordine, Graziani rispondeva con successivo telegramma:
« Dal giorno 19 at oggi sono state eseguite trecentoventiquattro esecuzioni sommarie tuttavia con colpabilità sempre discriminata e comprovata (ripeto trecentoventiquattro). Senza naturalmente comprendere in questa cifra le repressioni dei giorni diciannove e venti febbraio. Ho inoltre provveduto a inviare nel campo di concentramento colà esistente fin dalla guerra numero millecento persone fra uomini, donne e ragazzi[32]. » |
Dal 30 aprile 1937, in base ai rapporti ufficiali, le esecuzioni passarono a 710, il 5 luglio a 1.686, il 25 luglio a 1.878 e il 3 agosto a 1.918. Dalla relazione del colonnello Azzolino Hazon, comandante dei carabinieri in Etiopia, si evince che i soli carabinieri passarono per le armi 2.509 indigeni, tra febbraio e maggio 1937. Il numero esatto delle vittime della repressione è tra i 1.400 e i 6.000 per inglesi, francesi e americani, di 30.000 per gli etiopi[33].
Il fatto che i due autori dell’attentato del 19 febbraio – peraltro due eritrei – fossero stati temporaneamente ospitati nella città conventuale di Debra Libanos, nello Scioa, convinse Graziani della correità dei monaci cristiani di rito copto ivi ospitati; inviò pertanto un telegramma del seguente tenore al generale Pietro Maletti: “ (l’avvocato militare Franceschino) Ha raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dell’attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore”[34].
Maletti era partito il 6 maggio da Debre Berhan e, stando ai rapporti da lui stesso redatti, attraversando la regione del Menz, le sue truppe avevano incendiato 115.422 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael (dopo averne fucilato i monaci), e sterminato 2523 partigiani etiopi[35]. La sera del 19 maggio Maletti aveva circondato Debra Libanos: il grande monastero risalente al XIII secolo, era stato fondato dal santo cristiano Tecle Haymanot e comprendeva due grandi chiese e i modesti tucul ove abitavano monaci, preti, diaconi, studenti di teologia e suore.
Maletti provvide nella stessa giornata a cercare un luogo adatto per il brutale massacro. Il successivo 21 maggio Maletti trasferì nella piana di Laga Wolde, chiusa a ovest da cinque colline e a est dal fiume Finche Wenz, tutti i religiosi. Le esecuzioni si protrassero sino alle 15.30 del pomeriggio e investirono 297 monaci, incluso il vice priore, e 23 laici sospettati di connivenza[36], risparmiando i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che furono trattenuti. Ma tre giorni dopo Graziani inviava a Maletti una nuova direttiva: “Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi. Assicuri con le parole: “Liquidazione completa”[37]. Il nuovo massacro fu eseguito in località Engecha, a pochi chilometri da Debre Berhan, e nella mattina del 26 maggio furono sterminati altri 129 diaconi. In totale, dunque, la cifra dei religiosi massacrati fu di 449.
Tra il 1991 e il 1994, due docenti universitari, l’inglese Ian L. Campbell e l’etiopico Defige Gabre-Tsadik, eseguirono nel territorio di Debrà Libanòs un’ampia e approfondita ricerca, dalla quale emerse che furono soppressi anche altri 276 insegnanti, studenti di teologia e sacerdoti appartenenti ad altri monasteri[38].
L’orrendo massacro scatenò una rivolta nella regione etiope del Lasta, a partire dall’agosto 1937, per stroncare la quale Graziani impartì i seguenti ordini:
« La rappresaglia deve essere effettuata senza misericordia su tutti i paesi del Lasta… Bisogna distruggere i paesi stessi perché le genti si convincano della ineluttabile necessità di abbandonare questi capi… lo scopo si può raggiungere con l’impiego di tutti i mezzi di distruzione dell’aviazione per giornate e giornate di seguito essenzialmente adoperando gas asfissianti. » | |
(Generale Graziani[senza fonte])
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« Nella giornata di oggi aviazione compia rappresaglia di gas asfissianti di qualsiasi natura su zona dalla quale presumesi Uondeossen abbia tratto armati senza distinzione fra sottomessi e non sottomessi. Tenga presente V.E. che agisco in perfetta identità di vedute con S.E. Capo Governo (telegramma di Graziani al generale Alessandro Pirzio Biroli)[senza fonte] » |
Graziani, alla fine dell’anno, verrà sostituito con il Duca d’Aosta Amedeo.
« Spesso mi sono esaminato la coscienza in relazione alle accuse di crudeltà, atrocità, violenze che mi sono state attribuite. Non ho mai dormito tanto tranquillamente quanto le sere in cui questo esame mi è accaduto di fare. So dalla Storia di tutte le epoche che nulla di nuovo si costruisce se non si distrugge in tutto o in parte un passato che non regge più al presente. » | |
(Generale Graziani[senza fonte])
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Campi di prigionia nell’Africa italiana
Nell’Africa Italiana si contavano diversi campi di prigionia (16 in Libia, 1 in Eritrea, 1 in Somalia). Nei campi vennero inviate sia le tribù allontanate dal Gebel Acdar sia gli indigeni appartenenti a tribù seminomadi vaganti attorno alle oasi o all’interno.
Nei 4 campi di rieducazione venivano inviati giovani appartenenti a tribù più evolute per addestrarli come funzionari indigeni impiegati nell’amministrazione coloniale.
Infine nei tre campi di punizione venivano inviati tutti coloro che avevano commesso reati o ostacolato l’occupazione italiana.
Dalla testimonianza di un sopravvissuto, Reth Belgassen recluso ad Agheila:
« Dovevamo sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo stanchi per lavorare… ricordo la miseria e le botte… Le nostre donne tenevano un recipiente nella tenda per fare i bisogni… avevano paura di uscire rischiavano di essere prese dagli etiopi o dagli italiani…le esecuzioni avvenivano… al centro del campo e gli italiani portavano tutta la gente a guardare. Ci costringevano a guardare mentre morivano i nostri fratelli. Ogni giorno uscivano 50 cadaveri. » |
Nella propaganda fascista L’Oltremare si affermava che “nel campo di Soluch c’è ordine e una disciplina perfetta e regna ordine e pulizia”.
Seconda guerra mondiale
Lo scenario nel quale furono commessi i crimini durante il secondo conflitto mondiale
Dal giugno 1940, al settembre 1943, l’esercito italiano combatté la stessa guerra di aggressione della Germania nazista.
All’ombra del Reich, l’Italia Imperiale di allora dopo aver aver attaccato e sopraffatto il Regno di Jugoslavia e Grecia, trasformò parte dell’attuale Slovenia nella Provincia Italiana di Lubiana, la Dalmazia in Governatorato, ampliò la Provincia di Fiume, occupò il Montenegro, il Cossovo, la Grecia e le Isole ionie ed Isole egee. Inoltre truppe italiane presidiavano parte dellaBosnia e della Croazia.
Il modello occupazionale italiano non fu dunque difforme a tanti altri modelli occupazionali del tempo, senza dimenticare che esso fu applicato in regioni dove gli italiani erano percepiti dalla popolazione locale come aggressori e come tali furono osteggiati e contrastati.
La lotta contro i “banditi” slavi o greci, fu condotta con modalità di guerra dure, talvolta spietate, che in Grecia furono rese ancor più aspre dalla penuria alimentare, mentre in Jugoslavia furono rese drammatiche da feroci contrasti etnico-politici che contrapponevano ustascia, cetnici e titoisti alla ferrea volontà italiana di trasformare in suolo patrio, territori non abitati da italiani (se non in una esigua parte della Dalmazia).
Sul piano militare vi fu tuttavia una marcata differenza fra la Wehrmacht e il Regio Esercito, nel senso che per gli strateghi tedeschi il terrore sistematico (figlio di un modello teorizzato prima della guerra dai vertici militari del Reich e sperimentanto già in Polonia), fu uno strumento centrale della loro politica occupazionale e al quale fu dato largo spazio organizzativo (prevedendo per questo compito solo truppe scelte, appositamente addestrate e dotate dei migliori equipaggiamenti), mentre la reazione del troppo “statico” Regio Esercito (sfornito di efficienti mezzi di trasporto o di supporto logistico) appare più spesso come difensiva di fronte agli attacchi veloci e improvvisi delle formazioni partigiane.
In sostanza le rappresaglie italiane, seppur cariche della stessa violenza di quelle tedesche, sono più il frutto di una manifestazione scomposta di debolezza, che di una organizzata volontà di terrore, con azioni affidate all’iniziativa dei singoli comandanti e delle singole autorità civili in un alternarsi contraddittorio tra ricerca di collaborazione delle popolazioni locali e repressione, nella quale la vendetta per i compagni caduti (spesso vittima di orribili mutilazioni) fu una componente psicologica non secondaria. Le lettere dal fronte dei soldati italiani, lasciano inoltre trasparire una volontà di razzia dettata anche dalle modestissime condizioni di vita in patria (si arraffano, oltre ai viveri, anche vestiario e scarpe da spedire ai familiari o da rivendere in loco).
In definitiva il raffronto con la brutalità tedesca è sostanzialmente improponibile sia sul piano qualitativo che su quello quantitativo[senza fonte], ciò nonostante va ricordato che gli italiani attuarono (in particolare nella italianizzata provincia slovena di Lubiana) un comportamento particolarmente violento, caratterizzato da efferate violenze, deportazioni, devastazioni di interi paesi o villaggi, internamento di civili (in campi con elevatissimo tasso di mortalità), sommarie esecuzioni di guerriglieri, presunti tali e, purtroppo, di civili inermi.
Già nel settembre 1942 l’eco della politica d’occupazione dei fascisti e delle atrocità commesse nei paesi della regione balcanica cominciò a diffondersi, tanto che Radio Milano-Libertà comunicava:
« Italiani! Le crescenti difficoltà della guerra e il dileguarsi di ogni speranza di vittoria, rendono Hitler furioso, e aumentano le sue esigenze nei confronti dell’Italia. Hitler […] pretende che i nostri soldati non abbiano né cuore né pietà, che sia annullata in essi ogni traccia di misericordia, ogni sentimento umano. Nei paesi balcanici in Grecia, Albania, Montenegro e particolarmente in Jugoslavia […] i battaglioni fascisti e purtroppo anche alcuni reparti dell’Esercito massacrano e terrorizzano quelle disgraziate popolazioni. Le camicie nere […] si distinguono in particolare per la crudele malvagità, distruggendo, devastando, incendiando villaggi e città, assassinando vecchi, donne e bambini, superando in crudeltà le stesse orde tedesche. Per eseguire gli ordini tedeschi, Mussolini non esita a disonorare l’Italia di Garibaldi e di tutti i grandi italiani che alla cultura, alla civiltà e al progresso materiale e spirituale dell’umanità diedero il loro ingegno e immolarono il loro sangue[39]. » |
La novità rispetto agli altri crimini di guerra commessi dalle forze italiane nel corso della storia sta nel fatto che nei Balcani non vi furono i battaglioni “indigeni” come in Africa a svolgere il “lavoro sporco”, ma questo fu fatto direttamente e solo dagli italiani. L’automonia operativa lasciata ai comandanti fece sì che alcuni reparti conquistassero un triste primato.
In questo senso la “Circolare 3 C” emanata il 1º marzo 1942 dal generale Mario Roatta, un memorandum che inasprisce la lotta controguerriglia modificando l’atteggiamento italiano da difensivo ad aggressivo e al quale si sono attenuti i diversi comandi, è un documento ufficiale e una inoppugnabile prova contro il Regio Esercito (vi si afferma tra l’altro che eccessi di reazione non verranno tendenzialmente puniti).
Non va dunque taciuto che il Regio Esercito di quell’Italia Imperialista, ebbe una condotta disdicevole simile a quella degli eserciti occupanti di ogni nazione (comprese quelle più democratiche), attuando una politica repressiva ed efferata tipica delle zone occupate militarmente in un paese nemico che si ribella all’occupazione e dove si sviluppa una guerriglia partigiana variamente appoggiata dalla popolazione civile.
Nello scenario jugoslavo la lotta si inasprì in quanto venne combattuta una guerra dove il tentativo di pulizia etnica operato dagli italiani (vedasi Del Boca in particolare con riferimento alla provincia di Lubiana), si intrecciava con la guerra di liberazione contro l’occupante, e una vera e propria guerra civile tra le varie etnie slave e le varie ideologie in esse presenti (tra le quali prevalse quella comunista delle formazioni di Tito).
Occupazione della Grecia
Le autorità greche segnalarono stupri di massa. Il comando tedesco in Macedonia arrivò a protestare con gli italiani per il ripetersi delle violenze contro i civili. Il capo della polizia di Elassona, Nikolaos Bavaris, scrisse una lettera di denuncia ai comandi italiani e alla Croce rossa internazionale: «Vi vantate di essere il Paese più civile d’Europa, ma crimini come questi sono commessi solo da barbari»; fu internato, torturato, deportato in Italia. Migliaia di donne prese per fame vennero reclutate in bordelli per soddisfare soldati e ufficiali italiani. Nel 1946 il ministero greco della Previdenza sociale, nel censire i danni di guerra, calcolò che 400 villaggi avevano subito distruzioni parziali o totali: 200 di questi causati da unità italiane e tedesche, 200 dai soli italiani.[senza fonte]In Grecia, per garantirsi il regolare approvvigionamento, gli eserciti occupanti razziarono risorse e derrate alimentari presenti immagazzinati nel paese, lasciando la popolazione civile priva dei mezzi di sussistenza minimi[40]. La fame e la denutrizione si estesero allora a tutti gli strati della popolazione, provocando reazioni quasi immediate contro le truppe occupanti. Il 26 gennaio 1942 ad Atene si svolse una manifestazione di 6.000 mutilati di guerra; il 17 marzo una nuova protesta di ex combattenti ed invalidi, repressa dai Carabinieri e dalla Feldgendarmerie[41]. A fronte delle rivolte, vennero emesse ordinanze e bandi militari molto rigidi, decretate confische nei villaggi, arresti, fucilazioni e deportazioni nei campi di concentramento (Larissa, Hadari e Atene o al confino italiano, per quanto riguarda gli oppositori politici)[41].
Tra settembre e ottobre 1942 le attività dell’E.A.M.-E.L.A.S. si intensificarono notevolmente e le truppe italiane, in linea con le direttive del Comando della XI Armata eseguirono vaste operazioni di rastrellamento. Una di queste venne compiuta nella zona Parnaso-Giona e si concluse con 430 persone internate in campo di concentramento e due paesi completamente sgomberati dalle popolazioni civili[42]. Cicli operativi di questo genere rappresentarono per l’occupante italiano una prassi consolidata finalizzata al mantenimento dell’ordine interno nei territori e alla lotta contro il movimento partigiano; gli uomini trovati con le armi in pugno durante i rastrellamenti venivano fucilati sul posto, mentre i prigionieri deportati nei campi di concentramento erano usati per eseguire rappresaglie successive ad azioni partigiane[43].
Nonostante queste misure di repressione sociale e territoriale praticate dal Regio Esercito, alle azioni di sabotaggio realizzate dalle formazioni partigiane contro gli occupanti, come la distruzione del viadotto di Gorgopotamos, si affiancò una sempre maggiore partecipazione popolare alle aperte manifestazioni di protesta contro le truppe nazifasciste e contro le condizioni di estrema povertà in cui versava il paese.
Il 22 dicembre 1942 uno sciopero operaio organizzato ad Atene e nella zona del Pireo contro la fame e l’occupazione convogliò nelle strade della capitale greca decine di migliaia di manifestanti, tra cui anche numerosi studenti, donne e impiegati; le proteste sfociarono in duri scontri con i militari italiani durante i quali rimasero uccisi gli studenti Mitsos Konstantinidis e Filis Gheorghiou[44].
Il Comando del III CdA, nella tavola riassuntiva delle operazioni contro i «banditi» effettuate nel febbraio 1943 nei settori di Kastoria, Trikala, Lamia e Tebe-Aliartos, affermò di avere ucciso circa 120 banditi e 32 favoreggiatori e di avere fucilato per rappresaglia 107 persone, oltre ad aver internato 113 civili e ad avere provocato un numero imprecisato di morti e feriti nei bombardamenti aerei[45].
Secondo la storica Lidia Santarelli l’episodio fu il primo di una serie di repressioni nella primavera-estate 1943, conseguenti ad una circolare del generale Carlo Geloso, comandante delle forze italiane di occupazione, in cui per ciò che concerne la lotta ai ribelli si adottò il principio cardine della responsabilità collettiva[46].Il 16 febbraio 1943 a Domenikon, un piccolo villaggio della Grecia centrale situato in Tessaglia, l’intera popolazione maschile tra i 14 e gli 80 anni venne trucidata. Nei dintorni di Domenikon, poco prima della strage, un attacco partigiano aveva provocato la morte di 9 soldati italiani. Il generale della 24ª Divisione fanteria “Pinerolo” Cesare Benelli ordinò la repressione: centinaia di uomini circondarono il villaggio, rastrellarono la popolazione e catturarono più di 150 uomini dai 14 agli 80 anni. Li tennero in ostaggio fino a che, nel cuore della notte, procedettero alla fucilazione[46]. L’episodio rappresenta uno dei più efferati crimini di guerra commessi dall’Italia durante la seconda guerra mondiale.
Il 24 febbraio 1943 una grande manifestazione popolare ad Atene contro il lavoro forzato, pianificato dalle autorità dell’Asse, si diresse verso la sede del governo collaborazionista greco distruggendone i locali. La folla, muovendosi verso la sede del Ministero del Lavoro entrò a contatto con le compagnie di carabinieri a presidio dell’edificio: i militari italiani fecero fuoco sui manifestanti, provocando la morte di decine di persone[47][48].
Occupazione dell’Albania
Le mire imperiali della politica fascista verso la Grecia coinvolsero non solo la popolazione civile ellenica, aggredita dal Regio Esercito, ma anche quella albanese che durante l’arretramento delle truppe italiane, obbligato dalla controffensiva greca, subì gravi conseguenze. Per consentire lo svolgimento delle operazioni militari vennero infatti sgomberate completamente intere zone abitate da civili albanesi e furono razziate, per necessità belliche, tutte le risorse disponibili del posto lasciando alla fame migliaia di profughi albanesi cacciati dalle proprie terre e abitazioni:
« […] le sofferenze erano gravi soprattutto per le popolazioni che avevano dovuto essere evacuate, man mano che la linea dei combattimenti aveva arretrato verso l’interno del paese. I profughi erano 18.781 […][49] » |
I primi nuclei di resistenza albanese all’occupante italiano scontarono, in special modo all’inizio, non poche difficoltà organizzative, in quanto poco e male armati (si pensi allo scarso armamento dell’Esercito regolare albanese per prefigurare i pochi mezzi a disposizione delle bande partigiane), ma poterono contare su un ampio appoggio della popolazione civile. Questo aspetto, affatto secondario, spinse gli italiani, che non volevano né potevano permettersi l’apertura di un fronte interno in Albania durante le operazioni belliche generali dal 1940 in poi, a repressioni selvagge della popolazione fiancheggiatrice con il movimento partigiano[50].
Le misure punitive adottate contro i civili, come deterrente alla ribellione e mezzo di mantenimento dell’ordine interno, vennero razionalmente progettate fin dall’inizio della campagna albanese, in particolare il mezzo della rappresaglia feroce e indiscriminata fu lo strumento con il quale l’esercito e le forze di occupazione italiane pensarono di recidere alla base e con effetto immediato un possibile spirito di rivolta delle popolazioni locali[51].
Le difficoltà militari incontrate dall’Italia nella campagna di Grecia crearono come riflesso una situazione politico-sociale difficilmente controllabile sul territorio albanese. Le milizie collaborazioniste albanesi si smembrarono facendo mancare agli italiani un supporto consistente per la gestione dell’ordine pubblico e la repressione anti-partigiana:
« […] Le forze d’occupazione italiane non stettero a guardare. Nel dicembre del 1942 appiccarono il fuoco a centinaia di case ed effettuarono massacri contro la popolazione del luogo e fecero altre operazioni di repressione. Il 30 dicembre il comando fascista mandò in Mesapik più di due reggimenti militari. Aspri combattimenti si svolsero nella cittadina di Gjorm il primo gennaio del 1943, ai quali presero parte molti partigiani (comunisti) e ballisti (nazionalisti). I reparti italiani furono sconfitti e fu ucciso il comandante dell’operazione, Clementis. Per rappresaglia i fascisti uccisero poi il prefetto della città di Valona. Il 16 gennaio 1943 i partigiani della città di Korca attaccarono i fascisti a Voskopoja. Altri combattimenti vi furono in altre parti dell’Albania nei quali persero la vita molti militari Italiani, ma vi furono gravi perdite anche nei reggimenti partigiani Albanesi. Ci furono molti combattimenti nella città di Valona, Selenice, Mallakaster, in Domje e altri luoghi. Un importante e al tempo stesso molto duro combattimento vi fu a Tepelene: anche qui persero la vita molti militari del reggimento fascista dislocato a Valona […][52]. » |
Il 12 maggio 1941 a seguito del fallito attentato contro il Re Vittorio Emanuele III a Tirana e la fucilazione del giovane operaio albanese Vasil Laci, autore dell’azione[53], scoppiò una dura rivolta della popolazione contro l’occupante italiano, che in risposta eseguì con l’esercito, le milizie fasciste e il governo collaborazionista albanese numerose e pubbliche rappresaglie a scopo di monito verso la popolazione civile:
« […] successivamente per scoraggiare la rivolta il binomio Jacomoni–Kruja ordinò una serie di pubbliche impiccagioni, indiscriminate e fece fucilare una serie di simpatizzanti e partigiani del Pca, presi prigionieri dai fascisti italo-albanesi […][54]. » |
In importanti centri come Valona la resistenza partigiana divenne fenomeno di massa obbligando l’amministrazione italiana all’impiego di centinaia di militari per operazioni di ordine pubblico. Città come Fieri, Berat e Argirocastro, divenuti centri attivi di lotta partigiana, subirono da parte dei miliziani filo-fascisti albanesi rappresaglie e rastrellamenti particolarmente cruenti tanto che nella zona di Skrapari i villaggi investiti dalle operazioni di polizia vennero completamente rasi al suolo e dati alle fiamme, dopo la razzia dei beni civili[55].
In città, nelle quali l’opposizione anti-italiana assunse forme consistenti e attive, le forze fasciste operarono sistematicamente arresti, interrogatori, torture e impiccaggioni pubbliche degli oppositori. Così a Valona divenne particolarmente conosciuto il Maresciallo del SIM (Servizio Informazioni Militare) Logotito, il quale presenziava spesso agli interrogatori-tortura dei prigionieri politici nelle caserme, mentre a Tirana la caserma-prigione di via Regina Elena (oggi Rruga Barrigades) divenne particolarmente nota non solo a causa dei violenti interrogatori a cui venivano sottoposti i prigionieri ma anche per i casi di tortura e di morti verificatesi al suo interno[56].
Il 14 luglio 1943 venne realizzata, dal Regio Esercito, un’imponente operazione militare antipartigiana nei villaggi intorno a Mallakasha e al termine di quattro giorni di combattimento, in cui vennero usati artiglieria pesante e aviazione, tutti gli 80 villaggi della zona vennero rasi al suolo causando la morte di centinaia di civili[57].
L’eccidio di Mallakasha al termine della guerra verrà simbolicamente ricordato dalle autorità albanesi come la “Marzabotto albanese” con la volontà di porre in relazione i brutali metodi dell’occupazione tedesca e quelli italiani riguardo al controllo territoriale[57].
Le statistiche dei danni arrecati all’Albania dall’occupante italiano parlano di 28.000 morti, 12.600 feriti, 43.000 deportati ed internati nei campi di concentramento, 61.000 abitazioni incendiate, 850 villaggi distrutti, 100.000 bestie razziate, centinaia di migliaia di alberi da frutto distrutti[58]. I militari italiani inclusi nelle liste della Commissione delle Nazioni Unite per crimini di guerra e in quelle del governo dell’Albania, al 10 febbraio 1948 risultarono 145, dei quali 3 inclusi nella lista della commissione e 142 aggiunti con nota verbale dal governo albanese che ne fece richiesta di estradizione all’Italia[59]. Nessuno degli accusati venne estradato e tanto meno processato[60].
Occupazione del Regno di Jugoslavia
Gli italiani in DalmaziaNell’aprile del 1941 il Regno di Jugoslavia fu occupato dalle potenze dell’Asse. L’Italia, che era già presente a Zara, si annesse parte della Slovenia (provincia italiana di Lubiana) e quasi tutta la parte costiera della Dalmazia settentrionale (con tutti i principali centri urbani, come Spalato e Sebenico), nonché la zona della Bocche di Cattaro (Governatorato di Dalmazia).
Gli italiani diedero subito via a una massiccia e radicale italianizzazione delle provincie annesse: vennero inviate ad amministrarle i segretari politici del fascio, del dopolavoro, dei consorzi agrari e medici, maestri, impiegati comunali, levatrici subito odiati da coloro ai quali tolsero gli impieghi[61]. In Dalmazia le insegne scritte in croato vennero sostituite da scritte in italiano, proibiti giornali, manifesti, vessilli croati; sciolte le società culturali e sportive, imposto il saluto romano, ripristinati i cognomi italiani con lo stesso decreto emanato durante l’impresa fiumana. Uno speciale ufficio per le terre adriatiche offriva prestiti e provvidenze a quanti erano disposti a snazionalizzarsi, e intanto acquistava terreni da redistribuire agli ex-combattenti italiani[62].
La prevedibile risposta fu l’inizio della resistenza, che i tribunali speciali e militari istituiti alla fine di luglio colpirono con le prime sentenze di morte: 8 a Bencovazzo il 6 agosto; 6 aSebenico il 13 ottobre; 19 a Spalato il 14 ottobre; 12 a Vodizze il 26 ottobre[63].
In Dalmazia furono organizzate rappresaglie sui familiari di latitanti ribelli che portarono all’internamento di migliaia di persone[64]. Solo per fare un esempio, l’ordinanza del 7 giugno 1942stabilì che tutti coloro i quali avessero abbandonato i comuni di residenza per unirsi ai ribelli sarebbero stati iscritti in apposite liste, compilate da ogni comune. Gli iscritti alle liste, non appena catturati, sarebbero stati passati per le armi; le famiglie degli iscritti sarebbero state considerate ostaggi e non avrebbero potuto, per nessuna ragione, allontanarsi dal comune di residenza, senza un salvacondotto rilasciato dalla PS o dai CC. RR. In caso di allontanamento ingiustificato sarebbero stati passati per le armi. I beni degli iscritti alle liste sarebbero stati confiscati o venduti al miglior offerente. I capovilla di ogni villaggio dovevano tenersi a disposizione dell’autorità civile e militare e contribuire alla ricerca e l’identificazione degli iscritti nelle liste. In caso di colpevole negligenza anch’essi sarebbero stati passati per le armi[65]. L’ordinanza, promulgata per la sola provincia di Zara, fu estesa il 1º febbraio 1943 a Spalato e Cattaro[66].
Gli italiani in Slovenia
Per colpire la resistenza jugoslava le autorità italiane puntarono sulla deportazione di intere zone popolate da civili in contatto o in grado di parentela con i partigiani. La stessa politica venne perseguita anche nell’adiacente Provincia di Fiume: il locale Prefetto – Temistocle Testa – redasse il 19 giugno 1942 il rapporto “Allontanamento di coniugi di ribelli della Provincia di Fiume”.Le truppe del Regio Esercito stanziate in Slovenia furono subito impegnate in una dura lotta contro le formazioni partigiane, che – secondo Mussolini – avevano applicato per prime una politica di terrore.
Nell’estate 1941 le autorità italiane decisero di utilizzare reparti del Regio Esercito per il controllo del territorio delle zone controllate dalla resistenza. Il 6 ottobre 1941 le divisioni “Granatieri” e “Isonzo” avviarono una prima offensiva nel territorio di Golo-Skrilje e Mokrec-Malinjek incendiando le case del luogo[67]; il 14 ottobre a Zapotok i militari italiani attaccarono il battaglione partigiano “Krim” uccidendo 2 combattenti jugoslavi e arrestando i civili che abitavano il vicino villaggio:
« due ribelli vennero uccisi ed altri 8 catturati insieme a 9 favoreggiatori. L’interrogatorio dei catturati, dei favoreggiatori e dei parenti dei ribelli uccisi consentiva ai Granatieri altre irruzioni nel campo scuola delle “Dolomiti dell’Isca” e in quello operativo di Rob[68] » |
Dalla relazione del novembre 1941 del comandante della divisione “Granatieri” e dell’XI Corpo d’armata si evince che i granatieri italiani a Ribnica riuscirono, dopo tre giorni di operazioni, a sbarrare la strada per la Croazia ai ribelli e a distruggerne la banda: 13 uccisi, 10 feriti e catturati, 44 catturati illesi[67]. Nonostante questi successi del Regio Esercito l’attività partigiana allargò la propria capacità operativa e di mobilitazione grazie all’ampio appoggio popolare di cui godeva.
Il 1º dicembre 1941 studenti e gruppi armati realizzarono una serie di azioni dimostrative: esplosione di una bomba contro postazioni fasciste, manifestazioni di studenti, astensione della popolazione dalla circolazione e frequentazione dei locali pubblici. L’esercito italiano reagì sparando sui civili e uccidendo 2 persone (Vittorio Meden, Presidente della Federazione commercianti di Lubiana, e Dan Jakor) e ferendo gravemente Grikar Slavo, impiegato presso l’Alto Commissariato[69]. Dal 2 al 14 dicembre 1941 il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato celebrò a Trieste un processo contro 60 antifascisti operanti nel territorio sloveno e giuliano condannandone 9 a morte, 30 a trent’anni di carcere e gli altri a pene di poco inferiori. Cinque dei nove condannati a morte vennero fucilati al poligono di tiro di Opicina, vicino Trieste, il 15 dicembre 1941 e uno di questi, Pinko Tomazic, dopo la fine della guerra venne decorato come eroe nazionale[70].
Nel novembre 1941 a seguito di un attacco partigiano ad un ponte ferroviario sulla linea Lubiana-Postumia vennero eseguiti rastrellamenti e distruzioni in vaste zone adiacenti; durante le operazioni militari e gli scontri armati con la resistenza jugoslava le truppe italiane ebbero 4 morti e 3 feriti. Le autorità italiane reagirono incarcerando 69 civili dei villaggi del luogo, processandoli ed emettendo 28 condanne a morte, 12 ergastoli, 4 a trent’anni di carcere e altri 6 a pene tra i cinque e gli otto anni[71].
Dal gennaio al 23 febbraio 1942 le autorità civili e militari italiane cinsero con filo spinato e reticolati l’intero perimetro di Lubiana,[72] disponendo un ferreo controllo su tutte le entrate e le uscite della città. Il recinto era lungo ben 41 chilometri e nel suo corso vennero dislocati sessanta posti di guardia, nonché quattro stazioni fotoelettriche. La città venne divisa in tredici settori e furono raccolti 18.708 uomini che furono controllati nelle caserme con l’aiuto di delatori sloveni dissimulati; 878 di questi uomini furono mandati in campo di concentramento[73].
A Lubiana nel solo mese del marzo ’42 gli italiani fucilarono 102 ostaggi[74].
Secondo fonti slovene e jugoslave, in 29 mesi di occupazione italiana della Provincia di Lubiana, vennero fucilati o come ostaggi o durante operazioni di rastrellamento circa 5.000 civili, ai quali furono aggiunti 200 bruciati vivi o massacrati in modo diverso, 900 partigiani catturati e fucilati e oltre 7.000 (su 33.000 deportati) persone, in buona parte anziani, donne e bambini, morti nei campi di concentramento. In totale quindi si arrivò alla cifra di circa 13.100 persone uccise su un totale di circa 340.000 (più precisamente 339.751 al momento dell’annessione), quindi il 2,6% della popolazione totale della provincia[75].
Gli italiani in Montenegro
Tutto il territorio del Montenegro e il Sangiaccato fu occupato e presidiato dalla Divisione di fanteria “Messina”, dai Reali Carabinieri, dalla Polizia, Guardia di Finanza e dalle Unità dicetnici montenegrini.
Successivamente l’area delle Bocche di Cattaro fu annessa al Regno d’Italia come una nuova provincia italiana, dipendente dal Governatorato della Dalmazia.
Il 12 luglio 1941 fu proclamato a Cettigne, sotto il protettorato dell’Italia, il “libero e indipendente” Regno di Montenegro. Il 13 luglio la popolazione montenegrine insorse, sotto la guida delcolonnello dei Cetnici, Dragoljub Mihailović, e di esponenti del Partito Comunista Jugoslavo, coinvolgendo circa 400 ufficiali dell’ex- Esercito Regio Jugoslavo. L’insurrezione popolare ebbe successo e in sette giorni prese il controllo delle campagne (con l’esclusione delle città e della costa) sconfiggendo i reparti del Regio Esercito Italiano e impadronendosi di ingenti quantitativi di armi e altro materiale bellico. Come reazione il Comando Supremo del R.E.I. trasferì in Montenegro sei divisioni (“Cacciatori delle Alpi”, “Emilia”, “Pusteria”, “Puglie”, “Taro”, “Venezia”) sotto il comando del generale di corpo d’armata Alessandro Pirzio Biroli con funzioni di Governatore civile e militare. Pirzio Biroli attuò durissime repressioni e rappresaglie contro i montenegrini, causando così lo sbandamento delle forze che guidavano l’insurrezione. Si alleò altresì con i gruppi di “nazionalisti” cetnici, ottenendo così la riconquista e il controllo quasi totale del territorio. L’efferatezze compiute da Pirzio Biroli furono tali che la nuova RSFJ lo dichiarò “criminale di guerra” ma lo Stato italiano non autorizzò mai l’estradizione.
Tra le misure impiegate dai comandi militari vi furono anche i bombardamenti dell’aviazione contro villaggi e piccole cittadine[76]:
« Colonna divisione “Cacciatori” ha superato resistenze zona Krnovska […] divisione “Cacciatori” tutto giorno 3 agosto ha rastrellato […] passati per le armi 4 ribelli […] aviazione ha effettuato bombardamenti a Skrbuse, Matesevo e Jablan Brdo[77] » |
Il 2 dicembre 1941 i reparti del Regio Esercito irruppero nel villaggio di Pljevlja fucilando sul posto 74 civili e passando per le armi anche tutti i partigiani catturati[78]. Il 6 dicembre dopo un attacco partigiano presso Passo Jabuka, che causò gravi perdite alle truppe del Regio Esercito, le autorità italiane disposero un’ampia azione di rastrellamento e distruzione delle zone circostanti coinvolgendo in particolare i villaggi di Causevici, Jabuka e Crljenica, che vennero bombardati e dati alle fiamme mentre civili e partigiani furono trucidati sul posto[79]. Il 14 dicembre vennero fucilati 14 contadini nel villaggio di Drenovo, mentre nei villaggi di Babina Vlaka, Jabuka e Mihailovici vennero uccise 120 persone, tra cui donne e bambini, e incendiate 23 case[80]. Su questi ultimi cicli operativi scriverà anche Tito nelle sue memorie:
« le brutali rappresaglie degli italiani (l’incendio di 23 case e l’uccisione di circa 120 abitanti di Vlaka, Jabuka, Babina e Mihailovici e altri villaggi sulla sponda del Lim, nonché le successive commesse a Drenavo) suscitarono in noi e nei nostri combattenti un cupo furore[81] » |
Tutte le azioni compiute dalle truppe rispondevano alle direttive generali degli alti comandi militari e all’indirizzo voluto dalle autorità d’occupazione d’intesa con il governo di Roma. Tali indicazioni, nella pratica, si traducevano in efferati crimini di guerra commessi dalle truppe italiane
« […] purtroppo non mancarono episodi di brutalità da parte di singoli nostri soldati. In località Pjesivci, alcuni militari della Taro stuprarono due ragazze – Milka Nikcevic e Djuka Stirkovic – per poi ammazzarle sparando loro al seno. Un’altra donna, Petraia Radojcic, fu bruciata viva nella sua casa. A Dolovi Stubicki furono massacrati dieci anziani, uomini e donne. Per aver dato ausilio ai ribelli le popolazioni dei villaggi della Pjesivica furono punite con la requisizione di oltre 1.000 pecore e capre e di 50 bovini.[82] » |
Il 12 gennaio 1942 il generale Alessandro Pirzio Biroli ordinò che per ogni soldato ucciso, o ufficiale ferito la rappresaglia avrebbe compreso una proporzione di 50 ostaggi fucilati per ogni militare italiano e di 10 ostaggi fucilati per ogni sottufficiale o soldato ferito[76].
Nel gennaio 1942 le truppe italiane fecero irruzione nei villaggi di Ljubotinja e Gornji Ceklini devastandone gli abitati; a Bokovo vennero arrestati e deportati una quindicina di contadini. Il13 febbraio 1942 l’aviazione italiana bombardò il villaggio di Morinje, a Gluhi Dol, uccidendo 4 persone in una scuola elementare[83]; nel villaggio di Rubezi i soldati italiani, durante una spedizione punitiva, bruciarono alcune case e uccisero gli abitanti locali. L’episodio venne confermato dalla testimonianza del sergente capo-radiotelegrafista Amelio Martello:
« […] un mio caporale che era andato al seguito di queste colonne, mi narrò al suo ritorno – ed io lo redarguii aspramente – che avevano appiccato il fuoco ad una casupola dalla quale erano stati sparati dei colpi d’arma da fuoco. Non si erano fidati di entrare temendo di trovarvi dei partigiani; invece dentro c’erano due donne anziane e ammalate che non avevano potuto mettersi in salvo e furono arse vive.[84] » |
Tra il febbraio e l’aprile 1942 i battaglioni alpini “Ivrea” e “Aosta” operarono una serie di rastrellamenti nella zona delle Bocche di Cattaro, fucilando 20 contadini e distruggendo 11 villaggi (Bjelske, Krusevice, Bunovici, Gornje Morinje, Repaj, Zlijebi, Gornje, Djurice, Sasovici, Kuta, Presjeka, Lastra, Kameno e Bakoci). Il 7 maggio 1942 a Cajnice, dove già nel dicembre 1941 si era verificato un attacco partigiano a seguito del quale erano morti alcuni soldati italiani, il generale del Regio Esercito, Esposito, ordinò l’esecuzione di 70 ostaggi presi tra la popolazione civile, seguendo le indicazioni dettate da Pirzio Biroli:
« i condannati vengono condotti sull’altura che domina la cittadina, ed io che li vedo passare mentre salgono al luogo del loro supplizio sono addirittura impietrito! Penso che poteva toccare a me l’ingrato compito di comandare il plotone di esecuzione che li ha falciati a dieci per volta: una scena terribilmente squallida che non dimenticherò mai, vivessi mille anni.[85] » |
Il 20 giugno 1942 Pirzio Biroli fece fucilare 95 comunisti. Il 25 giugno 1942 a Cettigne, in rappresaglia di un attacco partigiano alle truppe del Regio Esercito che aveva provocato la morte di 9 ufficiali italiani, vennero fucilati 30 montenegrini. Il 26 giugno 1942 a Nikšić il giovane Dujo Davico, che lavorava come cameriere presso la mensa degli ufficiali del comando italiano del 48º reggimento fanteria, lanciò contro di loro una bomba a mano. Nonostante l’azione non provocò vittime, per rappresaglia vennero fucilati 20 prigionieri comunisti.
Il 31 dicembre 1942 Pirzio Biroli fece fucilare per rappresaglia contro l’uccisione di un nazionalista 6 montenegrini accusati di correità e partecipazione all’uccisione.
Repressione politica e le istruzioni militari
Dai documenti redatti dall’Alto Commissario Emilio Grazioli, ma anche da quelli dei generali Roatta, Robotti e Gambara, emerge un conflitto che non si limita alla repressione contro ilFronte di Liberazione, ma che parte da una diversa visione politica del rapporto tra vincitori e vinti, tra razza dominatrice e popolazione assoggettata: quindi marcatamente razzista.
Secondo il generale Orlando:
« … è necessario eliminare: tutti i maestri elementari, tutti gli impiegati comunali e pubblici in genere (A.C., Questura, Tribunale, Finanza ecc.), tutti i medici, i farmacisti, gli avvocati, i giornalisti, … i parroci, … gli operai, … gli ex-militari italiani, che si sono trasferiti dalla Venezia Giulia dopo la data suddetta. » | |
(gen. Orlando)
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Orlando, intende l’eliminazione della massa attraverso la deportazione di migliaia di uomini nei campi di concentramento, che i comandi militari hanno aperto in Italia e in Dalmazia per sloveni e croati.
Viene anche adottata la politica dell’affamamento e della rapina, praticata dai comandanti italiani, tra gli altri il gen. Danioni che progetta di:
« Procedere alla requisizione dei raccolti lasciando ad ogni singolo proprietario il puro necessario per non morire di fame. » | |
(gen. Danioni)
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Mario Roatta propone inoltre la deportazione: “di tutti i disoccupati e degli studenti per farne unità di lavoratori”.
Inoltre viene condotta una repressione contro gli intellettuali (docenti e studenti dall’università alle scuole inferiori) essendo considerati la colonna portante del movimento partigiano.
L’11 luglio 1942 Mario Robotti scrive a Emilio Grazioli dopo le ennesime “operazioni di rastrellamento ed epurazione politica”, effettuate dal 24 giugno al 1º luglio a Lubiana e nella provincia è stata attuata la deportazione nei campi di più di 5 000 uomini (tra i 16 e i 50 anni); mentre il comandante dell’XI Corpo d’armata lamenta che:
« …il mancato rastrellamento di donne, specialmente insegnanti di scuole medie ed elementari, che hanno notoriamente svolto e tuttora svolgono attiva opera di propaganda comunista e di assistenza ai partigiani, ha prodotto cattiva impressione. » |
Nel corso di una riunione con i vertici delle Forze armate di Roma e della II Armata, tenuta a Gorizia il 31 luglio 1942, Mussolini approva le analisi e le decisioni di Roatta:
« Come avete detto è cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del paese ed il prestigio delle forze armate … Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione. Lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze … Non sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazioni. » | |
(Roatta)
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Il proclama alla popolazione slovena
« Al momento dell’annessione, l’Italia vittoriosa vi ha dato condizioni estremamente umane e favorevoli.Dipendeva da voi, ed unicamente da voi, di vivere in un’oasi di pace.Invece molti di voi hanno impugnato le armi contro le autorità e le truppe italiane.
Queste, per un alto senso di civiltà ed umanità, si sono limitate all’azione militare, evitando misure che gravassero sul’insieme della popolazione ed ostacolassero la normale vita economica del paese. E’ solo quando i rivoltosi sono trascesi ad orrendi delitti contro italiani isolati, contro vostri pacifici concittadini e persino contro donne e bambini, che le autorità italiane sono ricorse a misure di rappresaglia ed a qualche provvedimento restrittivo, di cui soffrite per causa dei rivoltosi Ora, poiché i rivoltosi continuano la serie di delitti, e poiché una parte della popolazione persiste nel favorire la ribellione, disponiano quanto segue: 1º) A partire da oggi nell’intera Provincia di Lubiana:
2º) A partire da oggi nell’intera Provincia di Lubiana, saranno immediatamente passati per le armi:
3º) A partire da oggi nell’intera Provincia di Lubiana, saranno rasi al suolo:
– Sapendo che fra i rivoltosi si trovano individui che sono stati costretti a seguirli nei boschi, ed altri che si pentono di aver abbandonato le loro case e le loro famiglie, garantiamo salva la vita a coloro che, prima del combattimento, si presentino alle truppe italiane e consegnino loro le armi. – Le popolazioni che si manterranno tranquille, e che avranno contegno corretto rispetto alle autorità e alle truppe italiane, non avranno nulla a temere, né per le persone, né per i loro beni. Lubiana — luglio 1942 – XX Fonte: Fondo Gasparotto b. ff. 8578-8581, presso archivio Fondazione ISEC (Istituto di Storia dell’Età Contemporanea), Sesto S.Giovanni (Mi). » |
Campi di concentramento
Vista del campo di concentramento di Arbe
La scelta di costituire campi di concentramento per i civili viene concepita dapprima per neutralizzare gli elementi ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico; ma successivamente le deportazioni crescono, coinvolgendo quote sempre più vaste di popolazione soprattutto quella rurale.
In un vertice tenuto a Fiume il 23 maggio 1942, Roatta annuncia l’appoggio di Mussolini alla linea dura dei generali:
« Anche il Duce ha detto di ricordarsi che la miglior situazione si fa quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e di applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario… Il Duce concorda nel concetto di internare molta gente – anche 20-30.000 persone. » | |
(Roatta)
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A partire dal luglio 1942 le divisioni italiane, con grandi operazioni di rastrellamento alla caccia delle formazioni partigiane, svuotano il territorio in cui queste sono più presenti, deportando la popolazione dei villaggi in campi di concentramento costituiti appositamente. Si tratta soprattutto di donne, bambini ed anziani, poiché gli “uomini validi” fuggono nei boschi alla vista dei reparti italiani, per evitare di essere presi come ostaggi e fucilati nelle quotidiane rappresaglie decretate dai tribunali militari di guerra.
Ma dai documenti degli stessi generali italiani emerge anche la determinazione per cui le rappresaglie contro i civili devono essere un’arma di pressione contro i partigiani del Fronte di Liberazione, che tengono in scacco una grossa parte dell’esercito italiano.
Tra l’estate del 1942 e quella del 1943 furono attivi sette campi di concentramento per civili sotto il controllo della II Armata (che aveva la competenza su Slovenia e Dalmazia).
Stabilire oggi il numero dei deportati risulta assai difficile, sia per la frammentarietà degli archivi consultabili, sia perché le stesse autorità italiane scrivevano di non avere un quadro delle situazione. Secondo alcune stime si conterebbero almeno 20.000 civili sloveni internati. Mentre un documento del Ministero degli interni italiano, databile alla fine dell’agosto 1942, indica un complesso di 50mila elementi circa, sgombrati dai territori della frontiera orientale in seguito alle operazioni di polizia in corso, di cui la metà donne e bambini.
La causa principale delle morti nei campi era la fame e il freddo. Già nel maggio 1942 una lettera di un dirigente cattolico di Lubiana segnala alle autorità militari italiane, che “nel campo di concentramento di Gonars … gli internati soffrono atrocemente la fame”. Dal rapporto destinato ai comandi militari e redatto da un ufficiale medico, emerge un livello di alimentazione insufficiente ed una situazione igienica inadeguata. Lo stesso afferma che la insufficienza alimentare si moltiplica per il freddo e la dispersione di calore corporeo vivendo i civili sotto tende, con abiti estivi e coperte insufficienti.
Nel 1942, il regime d’occupazione italiano instaurò ad Arbe (più esattamente nella località di Campora), un campo di concentramento per i civili slavi delle zone occupate della Slovenia (vi furono internati anche alcuni civili della vicina Venezia Giulia). In seguito vi furono ospitati anche ebrei fuggiaschi dalla Croazia. Complessivamente vi furono internati più di 10.000 civili, in massima parte vecchi, donne e bambini, cifra che non comprende coloro che sono passati in transito verso altri campi, nei territori occupati o nel Regno d’Italia.[86] Secondo il Centro Simon Wiesenthal il campo ospitò 15.000 prigionieri e 4.000 morirono. Secondo le autorità italiane, fino al 19 novembre 1942, nel campo di concentramento di Arbe i morti erano stati 289 (di cui 62 bambini). Il campo di Arbe fu gestito completamente da italiani. Il numero complessivo di vittime non è accertato, ma si stima che soltanto nell’inverno 1942–1943 intorno a 1.500 persone persero la vita[87] a causa della denutrizione, del freddo, delle epidemie e dei maltrattamenti.
Significative a questo proposito, sono le affermazioni del generale Gambara, in data 17/12/1942:
« Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento. L’individuo malato sta tranquillo […] Le condizioni da deperimento dei liberati di Arbe sono veramente notevoli – ma Supersloda da tempo sta migliorando le condizioni del campo. C’è da ritenere che l’inconveniente sia praticamente eliminato” » | |
(generale Gambara, 17 dicembre 1942)
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Della gravità della situazione nei campi scrivono anche ufficiali dei Carabinieri Reali nei loro rapporti ai comandi:
« … nei campi di concentramento la vita è davvero grama e fiacca il corpo e lo spirito. Particolarmente nel campo di Arbe, le condizioni di alloggiamento e del vitto sono quasi inumane: viene riferito che frequenti sono i casi di morte, gravi e frequentissime le malattie” e inoltre richiamano “vari casi di decesso provocati dalla scarsità del vitto e da malattie epidemiche diffusesi per deficienza di misure sanitarie. » |
I campi di concentramento rimasero attivi fino al disfacimento dell’esercito italiano, avvenuto in seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e la conseguente cessazione delle ostilità da parte delle truppe monarchiche italiane verso le forze di liberazione jugoslave.
Inchieste sui crimini di guerra italiani
I presunti crimini di guerra italiani non furono perseguiti dagli Alleati a causa della posizione politica assunta dall’Italia dopo l’8 settembre 1943, e dopo la guerra a causa della così detta “amnistia Togliatti“[88] intervenuta il 22 giugno 1946, sia perché il 18 settembre 1953 il governo Pella approvò l’indulto e l’amnistia proposta dal guardasigilli Antonio Azara per i tutti i reati politici commessi entro il 18 giugno 1948,[89] a cui si aggiunse quella del 4 giugno 1966.[90]
In particolare erano accusati sia il generale Pietro Badoglio che Rodolfo Graziani. Badoglio non fu mai processato a differenza di Graziani. Ma i reati imputati riguardavano esclusivamente crimini commessi in Italia contro italiani, e non commessi all’estero. Le nazioni colpite dall’occupazione italiana, nonostante gli accordi internazionali prevedessero[91] la loro estradizione non ne ottennero alcuna, come nulli furono i tentativi italiani di ottenere la consegna dei criminali di guerra titini e scarsi di quelli tedeschi.
La questione con la Repubblica Socialista di Jugoslavia
Solo la Repubblica Socialista di Jugoslavia guidata da Tito proseguì nella richiesta di estradizione di presunti criminali di guerra italiani di cui aveva stilato una lista già alla fine del 1944. Il governo italiano preparò come contromossa un documento noto come le “Note relative all’occupazione italiana in Jugoslavia” dell’estate 1945. Le Note si articolavano in quattro punti, 1) crimini commessi dagli jugoslavi nei confronti dei cittadini italiani, 2) crimini commessi da jugoslavi nei confronti della popolazione civile locale, 3) interventi di assistenza dell’esercito italiano verso la popolazione civile, 4) l’intenzione di chiarire gli aspetti controversi che coinvolgevano militari italiani in presunti crimini.[92] Nel frattempo si diffusero in tutta Italia le notizie provenienti dai territori occupati dagli jugoslavi della Venezia-Giulia di uccisioni e di sparizioni di cittadini italiani. Ciò portò ad una ulteriore chiusura circa le richieste jugoslave[93] che fu avallata anche dalle forze di sinistra con l’eccezione del Partito Comunista Italiano legato all’Unione Sovietica e alla Jugoslavia di Tito.[94] A questo punto i partiti moderati e le istituzioni italiane difesero apertamente l’operato dei propri soldati e accusarono direttamente gli stati stranieri di essere mossi da accanimento e non da ricerca della giustizia.[95] Nella primavera 1946 il governo jugoslavo inoltrò all’Italia una nuova richiesta. A questa il nuovo Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi rispose scrivendo una lettera al comandante della Commissione alleata di Controllo in Italia.
« Non posso nascondere che una eventuale consegna alla Jugoslavia di italiani, mentre ogni giorno pervengono notizie molto gravi su veri e propri atti di criminalità compiuti dalle autorità jugoslave a danno di italiani e dei quali sono testimoni i reduci dalla prigionia e le foibe del Carso e dell’Istria, susciterebbero nel paese una viva reazione e una giustificata indignazione. » | |
(Dalla lettera scritta da Alcide De Gasperi all’ammiraglio Stone del 9 aprile 1946[96])
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Nel frattempo il Governo italiano prepara una lista di 153 presunti criminali di guerra jugoslavi responsabili di efferratezze nei confronti dei soldati italiani durante l’occupazione italiana del 1941-1943, di infoibamenti nel 1943 e nel 1945. Al contempo si provvede deferire al tribunale italiano alcuni dei nominativi segnalati dagli jugoslavi come Mario Roatta e Giuseppe Bastianini, senza però dare luogo ai processi. Nell’estate 1948 con la rottura avvenuta tra Jugoslavia e Unione Sovietica cessano definitavamente le richiesta all’Italia di estradizione di italiani e i deferimenti in atto in Italia archiviati.
I fatti di Somalia alla fine degli anni novanta
Tra il 1997 e il 1998 destarono notevole scalpore le notizie circa diverse accuse di violenze torture e maltrattamenti a danno di civili somali mosse nei confronti dei soldati italiani inquadrati nelle missioni di pace dell’ONU in Somalia (UNOSOM I e II). L’opinione pubblica italiana fu scossa dalla pubblicazione da parte di un settimanale nazionale di alcune foto in cui si riconoscevano soldati italiani intenti a torturare prigionieri somali con degli elettrodi. A ciò fece seguito l’apertura di una inchiesta giudiziaria, mentre una Commissione governativa d’inchiesta fu istituita al riguardo. La commissione pubblicò due relazioni: l’8 agosto 1997 e il 26 maggio 1998. Della vicenda si occupò inoltre anche la Commissione Difesa del Senato, il cui lavoro si affiancò a quella della Commissione governativa.
Bibliografia
- Pietro Brignoli: Santa messa per i miei fucilati, Longanesi & C., Milano, 1973
- H James Burgwyn: General Roatta’s war against the partisans in Yugoslavia: 1942, Journal of Modern Italian Studies, September 2004, vol. 9, no. 3, pp. 314–329(16)
- Angelo Del Boca: Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005, ISBN 88-545-0013-5
- Marcel Junod: Il Terzo Combattente: dall’iprite in Abissinia alla bomba atomica di Hiroshima, Franco Angeli, 2006, ISBN 88-464-7983-1
- Alessandra Kersevan: “Un campo di concentramento fascista. Gonars 1942-1943”, Comune di Gonars ed Ed. Kappa Vu, 2003
- Alessandra Kersevan: “Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943”, Ed. Nutrimenti, 2008, ISBN 88-88389-94-6
- Gianni Oliva: Si ammazza troppo poco. I crimini di guerra italiani. 1940-43, Mondadori, 2006, ISBN 88-04-55129-1
- Effie G.H. Pedaliu: Britain and the ‘Hand-Over’ of Italian War Criminals to Yugoslavia, 1945 – 48,Journal of Contemporary History, Vol. 39, No. 4, 503-529 (2004)
- Eric Salerno: Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale (1911-1931),SugarCo, Milano, 1979
- Lidia Santarelli: “Muted violence: Italian war crimes in occupied Greece”, Journal of Modern Italian Studies, September 2004, vol. 9, no. 3, pp. 280–299(20); Routledge, part of the Taylor & Francis Group
Filmografia
- Le soldatesse (1964), regia di Valerio Zurlini
- Il leone del deserto (Lion of the Desert, 1981), regia di Moustapha Akkad. Non distribuito in Italia, nonostante il cast da cassetta, in quanto definito “lesivo dell’onore dell’Esercito Italiano” e bloccato dalla censura, il film per trent’anni non venne programmato nelle sale, non venne distribuito su supporti, e non venne programmato da emittenti televisive, fino al 2009.
- Adua (Adwa, 1999), regia di Haile Gerima.
Voci correlate
- Fascist Legacy
- Crimine di guerra
- Crimine contro l’umanità
- Lista dei campi per l’internamento civile nell’Italia Fascista
- Crimini di guerra commessi dagli iugoslavi
- Provincia di Lubiana
- Governatorato di Dalmazia
- Strage di Domenikon
Collegamenti esterni
- Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti – XIVª legislatura – Doc.XXIII n. 18-bis – Camera dei Deputati.
- Dal sito della Camera dei deputati
- Dal sito della Camera dei deputati
- (EN) Italy’s bloody secret
- Rapporti italo-sloveni 1880-1956 Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena
- “Ljudske pravice”, opuscolo rislaente al 1946 della commissione Slovena di propaganda “IOOF” del governo della Repubblica Popolare di Slovenia
- criminidiguerra
- Metka Gombač, ricerca sui_bambini_sloveni_nei_campi_di_concentramento_italiani
- Fascist Legacy – Un’eredità scomoda documentario BBC da La Repubblica –Micromega
- L’Olocausto degli ebrei libici
- strage di Debra Libanos
- Memoriale per le vittime del campo di concentramento italiano di Gonars
- Nicoletta Poidimani, “Faccetta nera”: i crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa (pdf)
- Il giudice italiano che ha condannato Priebke, riapre i fascicoli sui criminali di guerra italiani
- (EN)Italian Crimes In Yugoslavia (Yugoslav Information Office – London 1945)