Maurizio Landini: ”Lavoratori e sindacalisti picchiati senza motivo dalla polizia”
”Quello che è successo è inaccettabile. Chi ha dato l’ordine è responsabile”.
“Abbiamo chiesto al Governo e al capo della Polizia di essere ricevuto. Se non ci riceveranno non ce ne andremo via”
Momenti di tensione in piazza Indipendenza tra operai della Ast e le forze dell’ordine. Gli operai, guidati dal sindacato Fiom, stanno manifestando contro la chiusura delle acciaierie di Terni sotto l’ambasciata tedesca. “Ci hanno manganellato perché non volevano farci arrivare al ministero dell’Economia”, così che dicono di essere stati caricati dagli agenti mentre dall’ambasciata tedesca si spostavano verso il ministero. Quattro operai sono stati soccorsi per ferite alla testa.
Gli esercenti devono accettare il pagamento con moneta elettronica, ma non c’è alcun obbligo di utilizzo. “Chi ottempera ha dei costi, e chi non lo fa, non ha sanzioni”, spiega il presidente dell’Istituto per la competitività. E non si può contare su incentivi e detrazioni. Il beneficio, per ora, è tutto per le banche: offerte poco chiare e difficilmente comparabili, nonostante le raccomandazioni di Bruxelles. Il governo convoca le parti il 16 luglio proprio per fare il punto su installazione e utilizzo
Doveva essere il passo in avanti per facilitare i pagamenti e far emergere anche parte dell’economia in grigio e in nero del Paese. E, invece, così com’è, il Pos obbligatorio per professionisti, artigiani e esercenti rischia di essere un’occasione mancata. Poco più di un regalo alle banche che propongono i servizi di “moneta elettronica” in una giungla di offerte fra le più care d’Europa. Per giunta difficilmente comparabili. Senza un grosso e cospicuo vantaggio per le casse pubbliche cui farebbe decisamente comodo recuperare almeno una parte dell’evasione fiscale record che, come ricorda il Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei Conti, ammonta a 50 miliardi (dato 2011) sui soli introiti Iva e Irap.
La legge, che ha introdotto il Pos obbligatorio per esercenti, liberi professionisti ed artigiani, non prevede infatti delle vere e proprie sanzioni, ma solo la possibilità per il cliente di rifiutare il pagamento in contanti. Fermo restando l’obbligo del pagamento, la norma non prevede alcuna forma di “incentivo fiscale” che potrebbe spingere all’emersione di un’importante fetta dell’economia italiana che oggi sfugge al fisco. “Esiste una correlazione diretta fra la diffusione di moneta elettronica e la riduzione dell’economia sommersa, spiega Stefano Da Empoli, presidente di ICom, Istituto romano per la competitività . Ma la sola obbligatorietà nella detenzione del Pos non è sufficiente a far scattare i meccanismi di emersione. Serve uno sforzo ulteriore sul fronte degli incentivi fiscali”.
Così come è strutturata la legge “mi sembra un bel discorso teorico, ma in pratica chi ottempera, ha dei costi, e chi non ottempera, non ha sanzioni. Il che pone anche un problema di concorrenza sleale. Per non parlare del fatto che stiamo parlando solo di una piccola fetta di economia sommersa” conclude Da Empoli. Il caso delle farmacie e la detraibilità dei farmaci è un esempio emblematico per spiegare come invece le cose possano funzionare diversamente inaugurando un percorso virtuoso a vantaggio della collettività. “Oggi tutti i cittadini chiedono gli scontrini al farmacista perchè sanno che potranno avere una detrazione” spiega Antonio Longo, presidente del Movimento difesa del cittadino e della Italian epayment coalition (Iepc), associazione che riunisce Movimento Difesa del Cittadino, Cittadinanzattiva onlus, Confconsumatori e Assoutenti. “Se il governo trovasse delle formule per cui un esercente o un cittadino che raggiunge un dato livello di transazioni tracciate elettronicamente ha diritto ad una detrazione fiscale, allora sono certo che si assisterebbe ad un fenomeno progressivo di emersione che porterebbe ad un allargamento della base imponibile e ad una conseguente maggiore equità fiscale“.
Il Pos obbligatorio è insomma “un passo importante” di un percorso ben più complesso in cui sarebbe bene “desse il buon esempio la Pubblica amministrazione che - come ricorda Longo - accetta in buona parte solo pagamenti in contanti”. Ma non può pesare solo su chi produce ricchezza con “una bastosta” che secondo la Confesercenti “ammonta a 5 miliardi l’anno fra costi di esercizio e commissioni”. Ecco perché la Iepc propone ad artigiani, professionisti ed esercenti di ingaggiare assieme una battaglia per ottenere dalle banche la gratuità dei terminali e una maggiore trasparenza sui costi di gestione del Pos che per Longo “è fra i più cari d’Europa, come del resto lo sono tutti i servizi bancari del Paese”. Proprio per discutere di questi aspetti, il governo ha convocato rappresentanti delle banche “per fare il punto sull’entità dei costi e delle commissioni sulle transazioni che commercianti, artigiani e professionisti devono sostenere per l’utilizzo dei Pos”. I costi legati all’installazione e all’utilizzo saranno al centro della riunione del 16 luglio con il ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, e rappresentanti del ministero dell’Economia, di Bankitalia e il consorzio Bancomat.
L’introduzione dei Pos obbligatori, in effetti, ha fatto immediatamente scattare polemiche sulle tariffe dei terminali, sulle commissioni e sulla complessità di selezionare la migliore proposta commerciale per via delle soluzioni assai diverse offerte dalle banche. Per avere un’idea della situazione, basta dare uno sguardo alle proposte online sui siti dei più importanti istituti di credito italiani: si va dagli 11,42 euro al mese di Unicredit collegato al conto Imprendo per un pos standard (quello cordless però costa 28,53 euro) alla più complessa tariffazione di Intesa (da un minimo di 9,99 euro fino a un massimo di 36 euro euro per canone stagionale). Come differenze legate ad esempio anche al solo fatto che il pos si appoggi su una linea telefonica analogica (canone flat 21,90) o digitale (31,90). Ci sono poi pacchetti tutto incluso con il conto come nel caso Mps (canone 25 euro) o offerte “con installazione gratuita” come per Poste Italiane che prevede un canone da 15 euro al mese. Senza contare le commissioni che vanno dal 2,5 al 4% a seconda degli istituti di credito.
Una vera giungla di offerte che preoccupa anche Bruxelles. Lo testimonia il fatto che, sulla questione, nell’aprile scorso, è intervenuto anche il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (CBVB). Il principale organismo di definizione degli standard internazionali per la regolamentazione prudenziale del settore bancario, ha suggerito a governi e supervisori, Bankitalia in primis, di “implementare la disclosure” (cioè migliorare le informazioni) e di “facilitare la comparazione di prodotti concorrenti” con adeguata documentazione. Suggerimenti che in un futuro porteranno di certo un beneficio per Stato e cittadini. Ma di sicuro non per gli utili delle banche.
Dal kit per taroccare il Valpolicella al Barbera rumeno, che è incredibilmente bianco. L’elenco dei prodotti tipici del Made in Italy realizzati e confezionati all’estero è lungo e comico. Non fosse che vale decine di miliardi, “ruba” posti di lavoro e genera un danno d’immagine notevole alle aziende italiane
MILANO – Il “tipico” pandoro viene dall’Argentina, il salame veneto è insaccato in Cina; oppure il formaggio Asiago, che porta quel nome italico nonostante sia prodotto negli Usa, ma anche un kit pronto all’uso per falsificare il Parmigiano Reggiano o produrre il Valpolicella ben lontano dal Belpaese. Il catalogo dei prodotti “made in Italy” ma a centinaia di chilometri di distanza dall’Italia farebbe sorridere se non fosse che la contraffazione e la falsificazione dei prodotti alimentari fa perdere all’Italia oltre 60 miliardi di euro di fatturato, che potrebbero generare reddito e lavoro in un difficile momento di crisi.
E’ l’accusa di uno studio della Coldiretti, presentato a Fieragricola. L’associazione denuncia che è in atto un salto di qualità dell’agropirateria internazionale che è arrivata a colpire i prodotti più rappresentativi dell’identità alimentare nazionale, con danni economici e di immagine non più sostenibili per l’agricoltura italiana. La denominazione “Parmigiano Reggiano” resta la più copiata nel mondo, con il “parmesan” diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone; ma in vendita c’è anche il “parmesao” in Brasile, il “regianito” in Argentina, ma anche “pamesello” in Belgio. “Ma ora – continua la coldiretti – c’è addirittura la possibilità di acquistare (in Gran Bretagna, negli Usa o in Australia) un kit per fare il pregiato formaggio
italiano, ovviamente senza dare alcuna importanza al latte utilizzato”.
Una vera e propria truffa che colpisce anche i vini italiani più prestigiosi come il Valpolicella, che può essere “taroccato” con un miracoloso kit che promette di ottenerlo in pochi giorni con miscugli di polveri e mosto. La gamma dei prodotti alimentari falsificati si è allargata ed è ora possibile trovare sul mercato- precisa la coldiretti – formaggi come il pecorino friulano, il romanello e il crotonese prodotti in Canada o la gorgonzola sauce realizzata in Germania. Anche i falsi salumi made in Italy tirano a livello internazionale: dalla “mortadela siciliana” rumena, al salame tipo Milano fatto in Brasile, dal “cacciatore salami” e la “soppressata salami” prodotti in Canada, al prosciutto cotto Villa gusto diffuso in Germania.
Per i primi piatti, prosegue ancora l’associazione, sono “sconsigliati” i “maccaroni mit tomatensauce” o gli “gnocchi rucola-parmesan” prodotti in Germania o la “palenta” realizzata in Croazia, magari con il sugo fatto con “San Marzano pomidori pelati” coltivati negli States. Anche l’olio e il vino rientrano nei prodotti italiani fortemente imitati all’estero dove si possono trovare il pompeian oil del Maryland (Stati Uniti) così come il falso Chianti americano, ma anche il kressecco o il meer-secco tedeschi che imitano l’inarrivabile Prosecco e persino il Barbera rumeno che, tuttavia non è rosso, ma incredibilmente bianco.
Il comune denominatore degli esempi di imitazione e contraffazione di prodotti agroalimentari italiani, conclude la Coldiretti, è l’opportunità, per un’azienda all’estero, di ottenere sul proprio mercato di riferimento un vantaggio competitivo associando indebitamente ai propri prodotti l’immagine del made in Italy apprezzata dai consumatori stranieri, senza alcun legame con il sistema produttivo italiano e facendo concorrenza sleale nei confronti dei produttori nazionali impegnati a garantire standard elevati di qualità.
Il fondo Charme e Moschini cedono il 58,6% della società d’arredamento a Haworth per 2,96 euro ad azioni dopo averla quotata a 2,1 euro nel 2006. L’azienda Usa lancerà un’Opa e procederà al delisting. L’ex numero uno di Confindustria diceva: “Il made in Italy è tutto”. Il faro della Consob sull’operazione
di GIULIANO BALESTRERI
MILANO – Poltrona Frau saluta l’Italia e allunga la lista dei marchi storici passati nelle mani di investitori stranieri. A vendere, questa volta, sono gli ambasciatori del made in Italy azionisti del fondo Charme Investments che insieme a Moschini cederanno agli americani di Haworth la loro partecipazione del 58,6% (di cui 51,3% posseduto da Charme e il restante 7,3% da Moschini) nel capitale di Poltrona Frau a 2,96 euro per azione (la società era stata quotata in Borsa nel 2006 a 2,1 euro per azione): un’operazione che porterà nelle casse degli azionisti circa 240 milioni di euro. La cessione si concluderà entro aprile, quando Haworth lancerà un’Opa con l’obiettivo di delistare la società da Piazza Affari. Sull’operazione ha acceso un faro la Consob per valutare l’andamento dei titoli in Borsa prima e dopo l’annuncio.
A stupire è che questa volta a vendere siano – tra gli altri – Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle e Nerio Alessandri di Tecnogym, azionisti di Charme e strenui difensori dell’italianità. Proprio Montezemolo, già ambasciatore del made in Italy, non ha mai perso occasione per difendere lo stile e il design italiano di Poltrona Frau, nel cui portafoglio sono presenti altri marchi d’eccellenza come Cassina e Cappellini:
Adesso il pallino del design italiano passerà a Haworth, società americana del Michigan fondata nel 1948 dalla famiglia Haworth, che ancora ne detiene il 100%. Con oltre 1,4 miliardi di dollari di ricavi nel 2013 e circa 6.000 dipendenti, la società dal 2011 è già partner di Poltrona Frau per la distribuzione del canale ufficio in Nord America. Dal 2005 è guidata dall’italiano Franco Bianchi.
“Questa operazione – commenta Franco Moschini, presidente di Poltrona Frau – è la realizzazione di un grande sogno iniziato dal 2003 con il fondo Charme, ossia la creazione del più importante polo mondiale dell’arredamento di lusso e questo porterà grandi benefici allo sviluppo internazionale del gruppo e alla conseguente crescita dei nostri siti produttivi”. Sulla stessa lunghezza d’onda Matteo Cordero di Montezemolo, figlio di Luca e ad di Charme: “Dopo un ciclo di investimento durato più di 10 anni questa operazione rappresenta la miglior conclusione del percorso di Charme in Poltrona Frau”.
Di certo per il fondo Charme è tempo di dismissioni all’insegna del made in Italy: dopo aver ceduto lo scorso anno il 20% della società biomedicale Bellcobi (con sede a Miradola), ieri è stata venduta per 500 milioni di euro l’italiana Octo Telematics (società che produce scatole nere per il mercato delle assicurazioni auto) ai russi di Renova e oggi è arrivato l’addio a Poltrona Frau.
MILANO – Come denunciato dalla Coldiretti, il concetto di Made in Italy si è sempre più vestito di connotazioni straniere nel corso degli ultimi anni. Gli agricoltori offrono una carrellata dei prodotti e dei marchi passati in mani straniere (o comunque in parte influenzati dall’estero), dal 1988 ad oggi.
2013 Chianti classico. Per la prima volta un imprenditore cinese ha acquistato una azienda agricola del Gallo Nero. Riso Scotti. Il 25% è stato acquisito dalla società alla multinazionale spagnola Ebro Foods.
2012 Pelati AR – Antonino Russo. Nasce una nuova società denominata Princes Industrie Alimentari srl, controllata al 51 per cento dalla Princes, a sua volta nelle mani della giapponese mitsubishi. Star. Passata al 75% nelle mani spagnole del gruppo agroalimentare di Barcellona Gallina Blanca. Eskigel. Produce gelati in vaschetta per la grande distribuzione – Panorama, Pam, Carrefour, Auchan, Conad, Coop. Ceduta agli inglesi con azioni in pegno a un pool di banche.
2011 Parmalat. Acquisita dalla francese Lactalis. Gancia. Acquisita al 70% dall’oligarca russo Rustam Tariko. Fiorucci-salumi. Acquisita dalla spagnola Campofrio Food Holding. Eridania Italia. La società dello zucchero ha ceduto il 49% al gruppo francese Cristalalco.
2010 Boschetti alimentare. Cessione alla francese Financière Lubersac, che detiene il 95% Ferrari Giovanni Industria Casearia. Ceduto il 27% alla francese Bongrain Europe.
2009 Delverde Industrie Alimentari. La società della pasta è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata che fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata.
2008 Bertolli. Venduta a Unilever, poi acquisita dal gruppo spagnolo Sos. Rigamonti salumicio. Ddivenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb international. Orzo Bimbo. Acquisita da Nutrition&Santè del gruppo Novartis. Italpizza. Ceduta all’inglese Bakkavor Acquisitions Limited.
2006 Galbani. Acquisita dalla francese Lactalis. Carapelli. Acquisita dal gruppo spagnolo Sos Sasso. Acquisita dal gruppo spagnolo Sos Fattorie Scaldasole. Venduta a Heinz, poi acquisita dalla francese Andros.
2003 Peroni. Acquisita dall’azienda sudafricana Sabmiller. Invernizzi. Acquisita dalla francese Lactalis, dopo che nel 1985 era passata alla Kraft.
1998 Locatelli. Venduta a Nestlè, poi acquisita dalla francese Lactalis. San Pellegrino. Acquisita dalla svizzera Nestlè.
1995 Stock. Venduta alla tedesca Eckes a.G., poi acquisita dagli americani della Oaktree Capital Management.
1993 Antica gelateria del corso. Acquisita dalla svizzera Nestlè.
1988 Buitoni. Acquisita dalla svizzera Nestlè. Perugina. Acquisita dalla svizzera Nestlè.
Dunque, per l’informazione funziona così. È più grave un “Boia chi molla” (immagine orrenda che mi fa schifo e che non userei neanche sotto tortura) di 7 miliardi e mezzo pubblici regalati alle banche private con l’avallo di destra, centro e sinistra. È più grave criticare la Boldrini (“sessismo”) che difenderla per la sua faziosità imbarazzante. È più grave un “siete qui perché fate i pompini” (altro insulto idiota, greve e indifendibile) di uno schiaffone di un “questore” a una deputata (se lo avesse dato un 5 Stelle, quello schiaffo, ci avrebbero frantumato gli zebedei per mesi con la storiella dei nuovi fascisti). È più grave contestare Napolitano, al punto da chiederne l’impeachment, di quello che ha fatto (e non fatto) Napolitano. È più grave protestare, anche veementemente, contro una ghigliottina oscena, una Presidente della Camera improponibile e una democrazia in agonia, che uccidere giorno dopo giorno la politica (e la speranza).
Si suole ragionar così in Italia, ed è un ben curioso modo di ragionare: la pagliuzza va uccisa, la trave va coltivata. Non mi stupisce che sia questo il pensiero di tanti casi umani (basta guardarli in faccia) del non-giornalismo italiano e della non-politica nostrana (da uno come Speranza, al massimo, ti aspetti una cosa intelligente giusto quando sta zitto). Ma mi mette un po’ di malinconia che questa faziosità, e questo tifo becero, siano ormai l’unica coperta di Linus rimasta a tanti (non tutti) elettori che, pur di vincere, si sono affidati a un bischerino ambizioso e si sono fatti pure piacere una legge elettorale che in confronto il Porcellum era quasi un capolavoro.
Darsi una svegliata e avere un briciolo di decenza morale, almeno ogni tanto, no?
Il sociologo del lavoro Luciano Gallino commenta così la scelta di Fiat di spostare la sede all’estero: “Sbagliano Letta e Chiamparino, la nazionalità è importante e la vicenda Electrolux dovrebbe dirgli qualcosa
di Luca Sappino
Il piano di Marchionne, per Luciano Gallino, sociologo ed esperto di processi economici e del lavoro, «è possibile che funzioni». Ma funzionerà «solo per la Fiat», semmai, mentre a noi dovrebbero interessarci «i posti di lavoro che questa ha ancora in Italia». Il governo ha delle responsabilità, per Gallino, perché «assiste senza muovere un dito allo smantellamento dell’industria automobilistica». In Germania, invece, «hanno un formidabile e interventista ministero dell’economia e un sistema bancario attento all’industria e non alla speculazione».
Gallino ora è ufficiale, la Fiat se ne va. Società olandese e sede nel Regno Unito. Era inevitabile?
«Sì, ma solo perché dipende dalle priorità che un’azienda si dà o che le sono imposte dal governo. Ed è chiaro che, in questo caso, il governo italiano non ha minimamente influito sulla Fiat e che questa ora va quindi dove le pare, dove le conviene di più: ha scelto queste priorità. Va dove si pagano meno imposte, dove trova meno leggi, dove può costruire al miglior prezzo. Il governo italiano da dieci anni e più assiste senza muovere un dito allo smantellamento dell’indisutria automobilistica».
Chiamparino e Fassino, entrambi, hanno detto che non conta la sede legale, né conta quella fiscale, ma conta solo la produzione. E’ veramente così?
«Sbagliano, i due, e l’Electrolux dovrebbe dirgli qualcosa. Fintanto che le cose vanno bene la sede di un’azienda può non essere importante, se l’impresa trova vantaggio a produrre in uno stabilimento all’estero la sede può essere indifferente. Ma nel momento in cui le cose si complicano, come in questo momento, la nazionalità è molto importante, perché una corporation non chiude normalmente gli stabilimenti vicini alla casa madre ma comincia da quelli più periferici».
Anche il premier Letta ha però detto «oggi la Fiat è un attore globale e la questione della sede legale è secondaria». Cosa cambia per un governo tra il trattare con un’azienda italiana e farlo con una con sede estera?
«Cambia moltissimo, evidentemente. Ma per il governo italiano non c’è alcuna differenza, ma solo perché non ha mai trattato nulla con la Fiat. Non vedo questo tipo di preoccupazione in Letta, né capisco perché dovrebbe muoversi oggi per condizionare le scelte di Marchionne, quando non l’ha fatto finora. Quello che dicono le cifre è chiaro: la Fiat produceva in Italia, nel 2003, più di un milione di macchine l’anno, l’anno scorso sono state circa 370 mila. Marchionne ora ha promesso il rilancio e forse la cifra un po’ salirà ma tra i marchi storici internazionali, Fiat è l’unico che ha ridotto così tanto nel suo paese d’origine».
Cosa avrebbe potuto fare il governo?
«Avrebbe potuto fare qualcosa che somigliasse ad una politica industriale, come fanno tutti gli altri paesi. Se in Germania c’è ancora un’industria non è solo perché gli ingegneri sono bravi e gli operai volenterosi, no. E’ soprattutto perché hanno un formidabile e interventista ministero dell’economia e un sistema bancario attento all’industria e non alla speculazione. Negli stati uniti l’industria dell’auto era fallita, ed è stata slavata e rilanciata dal governo».
Tanto nella vicenda Fiat quando nella vicenda Electrolux, parte delle colpe vengono date alle relazioni sindacali, giudicate «novecentesche»
«E’ un pretesto abbastanza banale e molto datato, fermo alla retorica della Thatcher. In Italia le imprese hanno potuto fare tutto ciò che volevano, negli ultimi anni, a cominciare dalla Fiat che ha chiuso Termini imerese e ha fatto l’accordo di Pomigliano, su cui non mi pare ci siano state chissà quali resistenze sindacali».
Magari a danno dell’Italia, ma per la nuova Fiat Chrysler Automobile funzionerà il piano di Marchionne?
«E’ possibile che funzioni, perché la Chrysler è pur sempre il terzo produttore americano e la Fiat in Turchia, Polonia e Brasile ha stabilimenti importanti, capaci di produrre molto, come ha riconosciuto oggi Marchionne. Il punto però non dovrebbe interessarci più di tanto. Noi non dovremmo preoccuparci del futuro della Fiat ma specificatamente dei posti di lavoro che questa ha ancora in Italia. Non è più l’impresa che era un tempo, è vero, ma ci sono ancora 25 mila lavoratori, impiegati in Fiat, e la loro forza lavoro è satura al meno del 30 per cento. C’è già così un 70 per cento di forza lavoro da recuperare, e solo per tener fermo quel numero. Il piano di Marchionne difficilmente può riuscirci: partiamo da una situazione in cui a Torino, ad oggi, lavorano 3 giorni al mese»
A meno di un mese dalla modifica della Costituzione in Messico che ha aperto il mercato dell’energia alle aziende straniere, Eni inaugura un nuovo ufficio a Città del Messico.
Il taglio del nastro avviene con una cerimonia alla presenza del presidente del Consiglio, Enrico Letta, per cui questa è la dimostrazione che l’Italia è “un interlocutore privilegiato” del Messico. Il presidente Enrique Pena Nieto ha infatti “fortemente spinto perchè l’Italia cogliesse da subito l’opportunità di entrare nel mercato dello sfruttamento del petrolio“. A simbolo dell’amicizia fra i due paesi è la consegna ad Enrico Letta delle chiavi di Città del Messico.
L’a.d. di Eni Paolo Scaroni ha incontrato il presidente messicano e l’a.d. di Pemex (Petroleos Mexicanos), Emilio Lozoya Austin, proprio per porre le basi della futura collaborazione tra le due società. Per Scaroni, “il Messico, il Golfo in particolare, è una miniera quasi inesplorata” e dall’incontro con il numero uno della Pemex è emerso che c’è “un grande lavoro da fare. Loro hanno bisogno di tecnologia offshore e noi già operiamo in questo campo sia nella parte americana del Golfo che in Africa”.
Scaroni ha spiegato che l’impegno di Eni sarà possibile, ed è stato richiesto, già per la fine del 2014, in anticipo rispetto ai tempi previsti: “Pensavamo che non fosse possibile operare prima del 2016, mentre oggi Pemex ci ha indicato date più ravvicinate: da aprile sceglieranno i blocchi e li condivideranno con le società straniere che stanno individuando ora. Questo vuol dire che loro intendono lavorare con noi già dal 2014”.
L’Italia guarda con grande interesse al mercato del Messico, oggi quattordicesima economia del mondo per Pil nominale, ma secondo la banca d’affari Goldman Sachs capace di crescere nel 2050 fino all’ottavo posto, superando anche l’Italia. Il sistema produttivo italiano è già il nono investitore in Messico con circa 1400 imprese nazionali in loco e 1,1 miliardi di euro di esportazioni e investimenti italiani assicurati con la Sace. Ieri Fulvio Conti, amministratore delegato di Enel, ha firmato un memorandum d’intesa per la cooperazione nell’ambito della generazione geotermica e delle smart grids con l’Instituto de Investigaciones Eléctricas, l’ente messicano di ricerca per il settore elettrico.