Da nord a sud, un esercito di 400 mila stranieri fornisce manodopera a basso costo per la raccolta di frutta e verdura. Il nostro viaggio nei ghetti della Puglia, dove vivono migliaia di braccianti impegnati, in queste settimane, nella raccolta dei pomodori (Cristina Scanu)
Le gang, bande o pandillas preoccupano le città per l’efferatezza delle violenze che commettono: Valeria Castellano ha incontrato alcuni degli affiliati a Milano
Funerale di Vittorio Casamonica con le note del Padrino, la carrozza con il tiro di 6 cavalli e il lancio da elicottero di petali di rose 20-08-2015
Petali di rose da un elicottero e carrozza nera con fregi in oro hanno accompagnato il membro del clan nell’ultimo viaggio di Vittorio Casamonica. Il carro funebre è stato accompagnato da altre macchine cariche di corone di fiori. La bara è stata poi caricata su una carrozza funebre, tirata da sei cavalli neri. All’entrata della bara, una banda ha suonato il tema de “Il Padrino”. All’uscita del feretro, tra gli applausi, hanno risuonato le note della canzone “Paradise”, colonna sonora del film Laguna Blu. In molti hanno sostenuto la bara, alzandola al cielo. Alcuni striscioni sono stati affissi alla chiesa. Uno riportava la scritta: “Vittorio hai conquistato Roma, ora conquisterai il paradiso”. Al termine del funerale, da un elicottero sono stati liberati petali di rose rosse sulla folla
La lettera: “Lei ha il dovere di intervenire e ancora prima ammettere che nulla è stato fatto. Ci sono tante persone che resistono: le ringrazi una ad una. Liberi gli imprenditori capaci da burocrazia e corruzione”
di ROBERTO SAVIANO
01 agosto 2015
Caro Presidente del Consiglio Matteo Renzi, torno a scriverLe dopo quasi due anni e lo faccio nella speranza di poter ottenere una risposta anche questa volta. La prima volta Le scrissi quando il Suo governo aveva appena iniziato la propria azione di “riforma radicale della società italiana”. Oggi non si può certo pretendere dal Suo esecutivo la soluzione di problemi endemici come la “questione meridionale”: ma non ci si può neppure esimere dal valutare le linee guida della sua azione.
Game Over. Questa è la scritta immaginaria che appare leggendo il rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno. Game Over. Per giorni i media di tutto il mondo sono stati con il fiato sospeso in attesa di un accordo che scongiurasse l’uscita della Grecia dalla zona euro: oggi apprendiamo che il Sud Italia negli ultimi quindici anni ha avuto un tasso di crescita dimezzato rispetto a quello greco. La crisi è ben peggiore: ed è nel cuore dell’Italia. Il lavoro come nel 1977, nascite come nel 1860.
Tra i fattori di grave impoverimento della società meridionale ci sono il decremento del tasso di natalità e l’aumento esponenziale dell’emigrazione che coinvolge soprattutto i giovani più brillanti: quelli formati a caro prezzo, nelle tante Università meridionali, funzionali più agli interessi dei docenti che a quelli degli studenti.
Ci sono meno nascite perché un figlio è diventato un lusso e averne due, di figli, è ormai una follia. Chi nasce, poi, cresce con l’idea di scappare: via dall’umiliazione di non vedere riconosciute le proprie capacità. Questo è diventato il meridione d’Italia: spolpato dai tanti don Calogero Sedara che non si rassegnano ad abbandonare il banchetto dell’assistenzialismo.
Ed è in questo contesto che si ripropongono nostalgie borboniche: l’incapacità del governo e la non linearità della sua azione resuscitano bassi istinti già protagonisti della nostra storia.
“Fate Presto” era il titolo de Il Mattino all’indomani del terremoto del 1980. Andy Warhol ne fece un’opera d’arte. E oggi quella prima pagina si trova a Casal di Principe, in un immobile confiscato alla criminalità organizzata, che ospita una esposizione patrocinata dal Museo degli Uffizi di Firenze. Le consiglio di andarci, caro Premier: Le farebbe bene camminare per le strade del paese, Le farebbe bene vedere con i suoi occhi quanto c’è ancora da fare e come il tempo, qui, sia oramai scaduto. Per com’è messo oggi il Sud Italia, anche quel “Fate Presto” è ormai sintesi del ritardo.
Potrei dunque dirLe che agire domani sarebbe già tardi: ma sarebbe inutile retorica. Le dico invece che – nonostante il tempo sia scaduto e la deindustrializzazione abbia del tutto desertificato l’economia e la cultura del lavoro del Mezzogiorno – Lei ha il dovere di agire. E ancora prima di ammettere che ad oggi nulla è stato fatto. Solo così potremo ritrovare la speranza che qualcosa possa essere davvero fatto.
Le istituzioni italiane devono infatti chiedere scusa a quei milioni di persone che sono state considerate una palla al piede e, allo stesso tempo, sfruttati come un serbatoio di energie da svuotare. Sì, qualche tempo fa c’è stato pure chi ha pensato di tenere il consiglio dei ministri a Caserta, a Napoli. Ma di che s’è trattato? Di pura comunicazione: nient’altro. Che cosa ha invece opposto la politica italiana al dissanguamento generato dalla crisi? Dal 2008 a oggi contiamo 700mila disoccupati in più. Sono certo che Lei mi risponderà che la Sua riforma del mercato del lavoro va in questa direzione: vuole fermare il dissanguamento. Ma a me corre l’obbligo di dirLe che anche una buona riforma – e se quella attuale lo è lo capiremo solo negli anni – può generare effetti perversi se calata in un sistema-Paese claudicante.
Nel frattempo, la retorica del Paese più bello del mondo ha ridotto il Mezzogiorno a una spiaggia sulla quale cuocere al sole di agosto: per poi scappar via. Ammesso che ci si riesca ad arrivare, su quella spiaggia, dato che – come è accaduto alla Salerno-Reggio Calabria – si può incappare in interruzioni sine die (secondo le indagini, tra l’altro, frutto ancora una volta della brama di denaro da parte di funzionari infedeli). Non creda che nelle mie parole ci sia rancore da meridionalista fuori tempo: ma, mi scusi, che cosa crede che sarebbe successo se le interruzioni avessero riguardato un’arteria cruciale del Nord Italia?
Troppe volte ho sentito dire che è ormai inutile intervenire. Che il paziente è già morto. Ma non è così. Il paziente è ancora vivo. Ci sono tantissime persone che resistono attivamente a questo stato di cose e Lei ha il dovere di ringraziarle una ad una. Sono tante davvero. E tutte assieme costituiscono una speranza per l’economia meridionale. E’ Lei che ha l’ingrato ma nobile compito di mostrare che è dalla loro parte e non da quella dei malversatori. Tra i quali, purtroppo, si annidano anche coloro che dovrebbero rigenerare l’economia.
Massimiliano Capalbo si definisce imprenditore “eretico” e legge nella desertificazione industriale un elemento positivo. Se desertificazione significa che impianti come l’Ilva di Taranto o la Pertusola di Crotone o l’Italsider di Bagnoli scompariranno dalle terre del Sud, questa – argomenta gente come Capalbo – può essere anche una buona notizia: vuol dire che il Sud potrà crescere diversamente. Aiutare il Sud non vuol dire continuare ad “assisterlo” ma lasciarlo libero di diventare laboratorio, permettergli di crescere diversamente: con i suoi ritmi, le sue possibilità, le sue particolarità. Non dare al Sud prebende, non riaprire Casse del Mezzogiorno, ma permettere agli imprenditori con capacità e talenti di assumere, di non essere mangiati dalla burocrazia, dalle tasse, dalla corruzione. La corruzione più grave non è quella del disonesto che vuole rubare: la vergogna è quella dell’onesto che – se vuole un documento, se vuole un legittimo diritto, se vuole fare impresa o attività – deve ricorrere appunto alla corruzione per ottenere ciò che gli spetta. A sud i diritti si comprano da sempre: e Lei non può non ricordarlo.
No, non mi consideri alla stregua del radicalismo ciarliero tipico dei figli dei ricchi meridionali, i ribelli a spese degli altri. Il vittimismo meridionale, quello che osserva gli altri per attendere (e sperare) il loro fallimento e giustificare quindi la propria immobilità è storia vecchia. Va disinnescato dando ai talenti la possibilità di realizzarsi. Provi a cogliere le mie parole come la “rappresentanza” di una terra che smette di essere al centro dell’attenzione qundo non si parla di maxiblitz o sparatorie (tra parentesi, perché non è questo l’oggetto di della discussione: tanti studi ormai spiegano che certi exploit della violenza criminale al Sud siano anche l'”effetto” di “cause” dall’origine geografica ben più lontana).
Caro Presidente del Consiglio, parli al Paese e spieghi che cosa pensa di fare per il Sud. Lei deve dimostrare di saper comprendere la sofferenza di un territorio disseccato: solo allora avrà tutto il diritto di chiedere alla gente del Sud di smetterla con la retorica della bellezza per farsi davvero protagonista di una storia nuova – costruita camminando sulle proprie gambe. A Lei, quale più alto rappresentante della politica italiana, spetterà dunque il compito di levare ogni intralcio a questo cammino. E i progetti dovranno naturalmente essere concreti. Permette un paradosso? E’ un tristissimo paradosso. Dal Sud, caro primo ministro, ormai non scappa più soltanto chi cerca una speranza nell’emigrazione. Dal Sud stanno scappando perfino le mafie: che qui non “investono” ma depredano solo. Portando al Nord e soprattutto all’estero il loro sporco giro d’affari. Sì, al Sud non scorre più nemmeno il denaro insaguinato che fino agli anni ’90 le mafie facevano circolare…
Il Sud è scomparso da ogni dibattito per una semplice ragione: perché tutti, ma proprio tutti, vanno via. Quando milioni di italiani partirono da Napoli per le Americhe Lei lo sa che cosa succedeva al molo dell’Immacolatella? Le famiglie si presentavano con un gomitolo di lana: le donne davano un filo al marito, al figlio, alla figlia che partiva. E mentre la nave si allontanava, il gomitolo si scioglieva, girando nelle mani di chi restava. Era un modo per sentirsi più vicini nel momento del distacco. Ma anche per dare un simbolo al dolore: al distacco immediato. La speranza era che quel filo che i migranti conservavano nelle tasche potesse continuare a essere mantenuto dai due capi così lontani.
Faccia presto, caro Presidente del Consiglio, ci faccia capire che intenzioni ha: qui ormai s’è rotto anche il filo della speranza.
Violente e organizzate militarmente, puntano al monopolio dello spaccio. Sono le Maras salvadoregne,di cui fanno parte gli aggressori del ferroviere a Milano
di ROBERTO SAVIANO
IL machete è una sorta di ibrido tra un coltello e una spada, usato per tagliare la canna da zucchero, le noci di cocco e, nelle guerre in Sierra Leone o Ruanda, la spietata arma adoperata per tagliare mani, braccia, piedi.
Vedere usare con disinvoltura il machete in un treno di Villapizzone a Milano, tagliare il braccio a un giovane capotreno per la sola ragione di aver chiesto il biglietto fa credere a nuove invasioni di barbari, terrore che si insinua nella vita quotidiana dei pendolari. In realtà questo episodio c’entra poco con l’ordine pubblico ed è sbagliato paragonarlo alla follia omicida di Kabobo che uccise tre persone in zona Niguarda.
Questa vicenda riguarda il crimine organizzato. I tre ragazzi arrestati secondo le accuse fanno parte delle Maras, precisamente la Mara Salvatrucha: ricordatevi questo nome perché si tratta di una delle organizzazioni criminali più potentidel narcotraffico internazionale. L’FBI descrive Mara Salvatrucha la “gang più pericolosa al mondo” e per contrastarla ha costituito nel 2005 una task force dedicata.
Maroni invita a presidiare i treni con i poliziotti e se serve a sparare. Commento tipico di chi – come spesso accade nel suo caso – non conoscendo davvero le dinamiche, arriva a dare una valutazione superficiale. La crisi economica sta portando anche le catene dello spaccio dei grandi gruppi criminali italiani a rimodellarsi e queste gang diventano sempre più forti perché sono cinghie di trasmissione tra i piani mafiosi del narcotraffico e quelli dello spaccio porta a porta. In più, la qualità militare che i gruppi mafiosi italiani apprezzano delle Maras è la capacità di controllare i territori, cosa che i piccoli gruppi italiani non sanno più fare se non a stipendi alti.
Può sembrare difficile, vedendo le facce da ragazzini con l’espressione malriuscita da duri dei tre assalitori di Milano – Alexis Ernesto Garcia Rojas, 20 ann come Jackson Jahir Lopez Trivino e Josè Emilio Rosa Martinez, 19 – pensarli parte di una così complessa organizzazione. Per capirlo bisogna approfondire la storia del gruppo di cui fanno parte e contro cui le procure italiane devono iniziare a fare i conti come se affrontassero gruppi mafiosi.
Dal Salvador, durante la guerra (1980 – 1992), sono scappati negli Stati Uniti migliaia di ragazzini senza famiglia, con genitori ammazzati o madri che li preferivano lontani dalla macelleria centroamericana. Tra loro ex guerriglieri del Fronte Farabundo Martì e giovanissimi disertori dell’esercito regolare: sono proprio questi che addestrano gruppi di ragazzini sbandati in bande. Cosi nascono le Maras, gang salvadoregne che prendono a modello quelle di Los Angeles (afroamericane, asiatiche e messicane). In origine, come bande di autodifesa dalle altre gang. Ma con il tempo questa organizzazione sconfigge le altre e inizia a egemonizzare le strade: hanno disciplina militare, violenza estrema, preghiere, patti. Il crimine con regole batte sempre il crimine senza regole.?
Le Maras arrivano a scindersi in due grandi famiglie rivali che si differenziano per il numero di ” street ” che occupano: Mara 13, meglio conosciuta come Mara Salvatrucha, e Mara 18, nata da una branca dissidente. Il numero delle strade si riferisce non al Salvador terra d’origine ma a Los Angeles. Accade però che arrivano gli accordi di pace di Chapultepec: guerriglia ed esercito fermano le armi. Il Salvador non è più un Paese attraversato dalla guerra civile ma è in miseria totale e gli affiliati alle Maras negli Usa non hanno molta voglia di ritornare in patria. A costringerli però interviene il governo americano che vuole liberarsi di queste organizzazioni come ci si libera delle zecche, strappandole dalla propria carne: tutti quelli che la polizia riesce a scovare vengono deportati in massa da Los Angeles al Salvador dove molti di loro erano solo nati. Ma come la leggenda narra che le zecche se le si strappa lasciando la testa ancorata sotto pelle il corpo ricresce, anche con le Maras questa operazione non fa altro che strappare solo il corpo che ben presto ricresce generando una diaspora che non rimuove il problema. Anzi lo diffonde.
Oggi le Maras hanno cellule presenti negli Stati Uniti, in Messico, in tutta l’America Centrale, Europa e Filippine. La Mara 18 è molto più grande perché ha deciso di federare nel proprio interno altre etnie di latinos .
In Italia anche la Mara Salvatrucha ha preso altri non salvadoregni come per esempio Trivino, uno degli assalitori del capotreno, ecuadoregno.
All’interno delle Maras tutto è codificato. I segni con le mani (che indicano il numero 18, il 13 o le corna del diavolo), i tatuaggi sul volto, la gerarchia, la musica hip hop. Tutto passa attraverso regole che strutturano e creano identità. Il risultato è un’organizzazione compatta in grado di muoversi velocemente. Elemento più interessante è che sono vere e proprie accademie del crimine, spesso composte da ragazzi tra i 13 e i 17 anni. Per entrare nella gang bisogna superare delle prove: 13 secondi di pugni, calci, schiaffi, sputi. Le ragazze entrano solo dopo aver subito uno stupro da parte dei vertici dell’organizzazione. E la prima regola delle Maras è che una volta dentro non se ne esce più. L’unico modo è la morte. Chi ha provato ad allontanarsi dalle organizzazioni è stato condannato alla pena capitale. Così, la frase che ripetono spesso è: “Vivi per Dio, per tua madre, muori per la gang”.
Non bisogna quindi confondere un’organizzazione così potente con i semplici flussi di immigrazione, si cadrebbe altrimenti nel solito errore, per il quale tanti italiani hanno pagato il prezzo di venire considerati mafiosi negli Stati Uniti solo perché la mafia itolamericana lì è stata potentissima. L’esercito di bambini delle gang (gli affiliati più giovani possono avere anche solo dieci anni) commercia soprattutto in cocaina e marijuana sulla strada. Non gestiscono grandi forniture, non sono ricchi, non corrompono le istituzioni. In strada però sono forti e spietati come killer professionisti. Non sono ascrivibili a un’organizzazione mafiosa classica perché questa è per definizione segreta mentre le Maras sono visibilissime: vogliono esserlo. Si marchiano in volto, si ghettizzano, sono truppe sul campo pronte agli arresti.
Genova e Milano sono le città italiane dove si trova il numero più alto di affiliati alle Maras e alle altre gang di latinos . Dai Latin Kings (veterani in Italia) ai Netas (portoricani e dominicani), dai Trinitarios ai Vatos Locos. Fino, appunto a MS-13 e Mara 18. Sempre di più queste organizzazioni accolgono tra vle loro fila filippini, nordafricani e italiani. Sono realtà complesse di cui ci si accorge solo quando usano le lama, anzi la più inquietante delle lame: il machete. Ma prima di quello usato contro il capotreno a Milano ce ne sono stati altri. Il 13 luglio del 2008 nel centro sportivo Forza e Coraggio di via Gallura, durante uno scontro tra Maras, a Ricardo (20 anni) cavano un occhio e gli sfigurano il viso, con il machete. Il 21 novembre 2011 un membro della Mara Salvatrucha viene aggredito con una mannaia dai Netas vicino al Duomo.
Il mio suggerimento per comprendere il fenomeno è dedicare attenzione all’opera di Christian Poveda. Regista francese di origine spagnola, riuscito a entrare come nessun altro nella vita quotidiana delle Maras, con un bellissimo documentario ( La vida loca ) il cui successo negli Usa spinse i media a chiedere conto al governo salvadoregno. Dal docufilm emerge una storia di miseria e disperazione. Perché le Maras capitalizzano la disperazione e vengono utilizzate dai grandi gruppi di narcotrafficanti come se i loro associati fossero degli schiavi.
Poveda venne ucciso nel 2009 dagli stessi che lo avevano fatto entrare nel mondo “chiuso” delle Maras.
Ben 6 italiane tra le 148 migliori Università al mondo. Questo uno dei risultati raggiunti dai nostri Atenei nella classifica appena pubblicata da U-Multirank, un complesso progetto varato dalla Commissione Europea che mira a censire e valutare tutte le Università al mondo.
La classifica appena pubblicata sottolinea le ottime performance di 6 Atenei nostrani: le solite Università Bocconi di Milano e i Politecnici di Milano e Torino, ma anche quelle di Pavia, Trento e Trieste. Queste le Università italiane che hanno ottenuto almeno 10 A (il massimo punteggio ottenibile nella valutazione U-Multirank) all’interno dei 31 indicatori che compongono il sistema di valutazione.
A differenza di altre classifiche U-Multirank utilizza un complesso sistema di indicatori che punta a mettere in risalto le differenze di performance tra i diversi Atenei (e non le analogie come in altre autorevoli classifiche): di qui l’exploit dei nostri Atenei. Chi utilizza U-Multirank può combinare i dati secondo le proprie preferenze e realizzare così la graduatoria più confacente ai propri interesse. Ogni utente può scegliere tra cinque dimensioni diverse (insegnamento e apprendimento, ricerca, transfer della conoscenza, orientamento internazionale e impegno regionale) in sette ambiti di studio (ingegneria meccanica, elettrotecnica, economia, fisica e, la novità di quest’anno, psicologia, informatica e medicina). Le performance universitarie vengono così valutate sulla base di 31 indicatori, assegnando valutazioni che vanno da “A” (molto buono) a “E” (scarso).
La classifica appena pubblicata prende in considerazione 1.200 istituzioni universitarie di 83 paesi. Sul sito U-Multirank si trovano 17 ranking già “pronti per l’uso”: Research and Research Linkages Ranking, Economic Involvement Ranking, Teaching & Learning Rankings (suddiviso in 7 classifiche) e International Orientation Rankings (a sua volta composta da 8 sottoranking).
Una di queste classifiche è appunto quella che mostra le 148 università che hanno ottenuto il massimo punteggio in almeno 10 indicatori; tra queste se ne trovano ben 43 che altri ranking autorevoli (Arwu, Qs, Times Higher Education) non menzionano tra i migliori 200 atenei al mondo. E proprio in queste eccellenze si trovano le nostre Università: in primis la Bocconi con 15 A, seguita dal Politecnico di Milano anch’esso con 15 A e da quello di Torino con 14 A; a seguire le Università di Pavia, Trento e Trieste tutte con 10 A.
Guardando poi ai gruppi di indicatori spicca ancora la Bocconi che si piazza seconda per quel che riguarda il trasferimento di conoscenze fornite da privati e l’Università di Roma Tre, al quarto posto per vocazione internazionale del proprio corpo docente.
Hanno passato la notte sugli scogli le decine di migranti che da venerdì sono arrivati a Ventimiglia e che vogliono passare il confine con la Francia. Domenica pomeriggio la polizia italiana ha reso noto che tenterà una mediazione per convinverli a lasciare la scogliera di Ponte San Ludovico dove stazionano da sabato. E di nuovo manifestano, chiedono libertà, rispetto dei diritti umani, chiedono una risposta politica dall’Europa. La stessa risposta che ha chiesto anche il premier Renzi, intenzionato a superare il trattato di Dublino che costringe l’Italia a trattenere nei propri confini i richiedenti asilo.
Situazione sempre tesa anche a Roma e Milano. Nella capitale la Croce Rossa ha allestito una tendopoli per ospitare i 150 migranti sgomberati dal piazzale della stazione Tiburtina e garantire loro posti letto, presidio medico e bagni.
“Per noi non sono invisibili” spiega il portavoce della Croce Rossa, Flavio Ponzi.
Soluzione d’emergenza anche in Centrale a Milano dove a ciclo continuo volontari distribuiscono beni di prima necessità. E la gente, sgomberata dal mezzanino della stazione, continua a sostare nei dintorni, dormendo per terra.
Entre 1943 Y 1945, los partisanos (la resistencia italiana) lucharon contra las tropas fascistas italianas y contra los invasores nazis. En abril de 1945, los partisanos triunfaron. “Bella ciao” es una canción popular cantada por los simpatizantes del movimiento partisano.
Cuando se gesta una irrupción popular, diversos actores civiles, políticos y religiosos deciden optar por no participar en favor o en contra de uno u otro bando, sin embargo algunos deciden sumarse al pueblo y apoyar desde sus trincheras a las poblaciones afectadas por la represión y el olvido, en tres esas personas, existió un sacerdote de nombre Andrea Gallo, presbítero italiano, quien fundó la comunidad de San Benedetto al Porto, de Génova.
Esta hermoso momento religioso fue captado y filmado por Sergio Gibellini, y reeditado por Rompeviento TV. En honor a estos personajes, y desde la afinidad que tenemos con ellos como medio de comunicación, festejamos con ellos y con todos ustedes nuestro tercer aniversario. Gracias todas. Rompeviento Televisión por Internet
La censura al nostro paese per non aver promulgato una legge sul reato specifico, la cui assenza dall’ordinamento ha consentito ai responsabili del pestaggio di evitare qualsiasi sanzione. Il sindacato Siap: “Verdetto esagerato”
Il sangue sui pavimenti della Diaz dopo l’irruzione della polizia (ansa)
STRASBURGO – Quanto compiuto dalle forze dell’ordine italiane nell’irruzionealla Diaz il 21 luglio 2001 “deve essere qualificato come tortura”. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia non solo per il pestaggio subìto da uno dei manifestanti (l’autore del ricorso) durante ilG8 di Genova , ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura; un vuoto legislativo che ha consentito ai colpevoli di restare impuniti. “Questo risultato – scrivono i giudici – non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri”.
Il ricorso. All’origine del procedimento c’era il ricorso presentato da ArnaldoCestaro, manifestante veneto che all’epoca aveva 62 anni e che rimase vittima del violento pestaggio da parte della polizia durante l’irruzione nella sede del Genova Social Forum. L’uomo, il 21 luglio 2001, era il più anziano dei manifestanti presenti nella scuola Diaz a Genova. Gli agenti lo sorpresero mentre dormiva, gli ruppero un braccio, una gamba e dieci costole durante i pestaggi. Nel ricorso, portato avanti dagli avvocati Nicolò e Natalia Paoletti, Joachim Lau e Dario Rossi, Cestaro afferma che quella notte fu brutalmente picchiato dalle forze dell’ordine tanto da dover essere operato e subire ancora oggi le conseguenze delle percosse subite. Sostiene inoltre che le persone colpevoli di quanto ha subìto avrebbero dovuto essere punite adeguatamente, ma che questo non è mai accaduto perché le leggi italiane non prevedono il reato di tortura o reati altrettanto gravi.
Il reato di tortura. I giudici gli hanno dato ragione in toto, decidendo all’unanimità che lo stato italiano ha violato l’articolo 3 della convenzione sui diritti dell’uomo dove recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte di Strasburgo ha stabilito dunque che il trattamento che è stato inflitto al ricorrente deve essere considerato come “tortura”. Ma nella sentenza i giudici sono andati oltre, affermando che se i responsabili non sono mai stati puniti è soprattutto a causa dell’inadeguatezza delle leggi italiane, che quindi devono essere cambiate. La mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti è dipesa, accusano poi i giudici, “in parte dalla difficoltà oggettiva della procura a procedere a identificazioni certe, ma al tempo stesso dalla mancanza di cooperazione da parte della polizia”. Nella sentenza si sottolinea quindi che la mancata considerazione di determinati fatti come reati non permette, anche in prospettiva, allo Stato di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte delle forze dell’ordine.
Ritorno alla Diaz, parlano le vittime del pestaggio
In particolare per quanto riguarda il caso di Cestaro, “aggredito da parte di alcuni agenti a calci e a colpi di manganello”, la Corte parla di “assenza di ogni nesso di causalità” fra la condotta dell’uomo e l’utilizzo della forza da parte della polizia nel corso dell’irruzione nella scuola e di maltrattamenti “inflitti in maniera totalmente gratuita” e qualificabili come “tortura”; reato per il quale non può essere prevista quella prescrizione che ha salvato anche i pochi responsabili delle violenze di quei giorni finiti sotto processo. L’azione avviata da Cestaro assume particolare rilevanza poiché è destinata a fare da precedente per un gruppo di ricorsi pendenti. L’Italia dovrà versare a Cestaro un risarcimento di 45mila euro.
Il commento di Cestaro. “I soldi non risarciscono il male che è stato fatto. E’ vero, è un primo passo quello di oggi, ma mi sentirò davvero risarcito solo quando lo Stato introdurrà il reato di tortura”, è stato il commento di Cestaro dopo la lettura della sentenza. “Oggi ho 75 anni, ma non cancellerò mai l’orrore vissuto. Ho visto il massacro in diretta, ho visto l’orrore con il volto dello Stato. Dopo quindici anni, le scuse migliori sono le risposte reali, non i soldi. Il reato di tortura deve essere introdotto nel nostro ordinamento”.
La nuova legge. La proposta di legge che introduce nel codice penale il reato di tortura è all’esame del Parlamento da quasi due anni: approvata dal senato poco più di un anno fa, il 5 marzo 2014, dopo una discussione durata 8 mesi, ora è in seconda lettura alla camera dove il 23 marzo scorso è approdata in aula per la discussione generale. L’esame dovrebbe riprendere in settimana, dopo l’ok alla riforma del terzo settore, con i tempi contingentati e quindi certi e rapidi. Ma il testo, già modificato dalla Commissione giustizia di Montecitorio, dovrà tornare al Senato.
Altre sentenze in arrivo. Le sentenze della Corte europea dei diritti umani sui fatti avvenuti a Genova dopo il G8 non sono ancora finite. Davanti ai giudici di Strasburgo pendono altri due ricorsi presentati da 31 persone per i pestaggi e le umiliazioni ai quali furono sottoposti nella caserma di Bolzaneto. La Corte non ha ancora deciso ufficialmente quando emetterà le sentenze, ma fonti di Strasburgo affermano che non tarderanno molto ad arrivare.
Giuliani: ”Condanna positiva ma anche rabbia: la Corte bocciò nostro ricorso”
Secondo il Sap, il Sindacato autonomo di polizia, “Diaz non è stata sicuramente una bella parentesi, ma parlare di tortura mi sembra eccessivo”. Il segretario nazionale del Sap, Gianni Tonell, ha poi aggiunto: “In Italia la normativa c’è già ed è ampiamente presente ha aggiunto – il problema è che non è stata ancora qualificata come tale perché si cerca di far passare un manifesto ideologico contro le forze dell’ordine”.
Diaz, cronaca di un massacro quel sangue non ancora lavato
“Che tristezza, deve essere una “entità esterna” come la Corte di Strasburgo a spiegarci che a #Diaz e #Bolzaneto ci fu tortura”. Così twitta Daniele Vicari, regista del film Diaz – Don’t Clean Up This Blood, dopo il verdetto della Corte di Strasburgo.
La sentenza di Strasburgo è stata commentata anche da Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone : “C’è una giustizia a Strasburgo. L’Italia condannata per le brutalità e le torture della Diaz che, finalmente in Europa e solo in Europa, possono essere chiamate tortura. In Italia questo non si può fare perché manca il reato nel codice penale. Un fatto vergognoso e gravissimo, lo avevamo detto più volte. Fra l’altro c’è un nostro ricorso analogo pendente a Strasburgo per le violenze nel carcere di Asti dove, ugualmente, la Corte ha rinunciato a punire in mancanza del reato. Speriamo che questa sentenza renda rapida la discussione parlamentare e ci porti ad una legge che sia fatta presto e bene, cioè in coerenza con il testo delle Nazioni Unite”.
Secondo Enrica Bartesaghi, presidente del Comitato ‘Verità e Giustizia per Genova’, l’associazione che riunisce i familiari delle vittime dei pestaggi durante il G8, la sentenza rappresenta un “risarcimento morale”: “Si tratta di un precedente ottimo. Un precedente che ci dà una risarcimento morale per le torture avvenute”.
ROMA – Sono da poco passate le 16 del 31 gennaio scorso. Sotto il cielo grigio di Roma un corteo di automobili di Stato si appresta ad entrare nel mausoleo che celebra i martiri della Fosse Ardeatine. Da una delle vetture scende Sergio Mattarella, eletto da poche ore dodicesimo presidente della Repubblica Italiana. Inizia il suo settennato così: ricordando chi è stato trucidato a sangue freddo dal nazismo e dal fascismo. Negli stessi istanti, sul web, va in scena una sfilata virtuale di insulti rivolti al nuovo Capo dello Stato, reo di iniziare il suo mandato dalla Resistenza: “E’ un partigiano, ho detto tutto”, “ecco un altro mafioso ebreo”. E gran parte di quelle offese provengono da una pagina Facebook, quella dei Giovani Fascisti Italiani.
Sono in 134mila e si auto definiscono “Gruppo Fascista per la rinascita d’Italia”. La loro linea politica è sintetizzata da una citazione di Benito Mussolini, le parole d’ordine sono le solite: duce, rigore, potenza e così via, sin dove il vocabolario pseudo-nazionalista può spingersi. Sono nati nel 2010 e da queste parti, malgrado l’omaggio al Ventennio, non c’è nessuna forma di nostalgia. Anche gli scivolosi territori storiografici del revisionismo sono superati: si guarda al futuro, in un messianismo deformato e allucinato non si aspetta altro che “un nuovo capo”, un “uomo forte”, colui che sappia “restituirci l’onore”: “Dux Mea Lux, quando tornerai?”.
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E non sono i soli. La tana nera della rete è profonda. I social network ne sono solo l’ingresso, la punta visibile, quella più pervasiva. Per farsi un’idea basta cercare anche solo tra le “pagine amiche” che i Giovani Fascisti Italiani suggeriscono. Si va dai Camerati Italiani ai Fascisti del Terzo Millennio, dalla Falange Nera al Socialismo Mussoliniano. Poi il Movimento Fascismo e Libertà e il gruppo Dio, Patria, Famiglia. Ancora: Fiamma Nera, Orgoglio Fascista, Noi Fedelissimi dell’Italia e del Duce. Serbatoi di odio e rancore.
Perché Facebook consente la pubblicazione di questi contenuti che potrebbero prefigurare l’apologia di fascismo? “Siamo impegnati a mantenere il giusto equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei diritti delle persone. Non consentiamo, infatti, la pubblicazione di contenuti violenti, che incitano all’odio o comunque contrari agli standard della nostra community”, commenta un portavoce di Facebook Italia. Come se fosse possibile ascrivere alla categoria “gentilezze digitali” frasi del tipo: “gli zingari devono essere integrati nel cemento” o “i comunisti sono il cancro dell’umanità”.
Ma quanto è estesa questa Rete Nera? Gli ultimi censimenti – come quello contenuto in “Web Nero“, ricerca di Manuela Caiani e Linda Parenti edita da Il Mulino nel 2013 – quantificano in circa cento i principali siti attivi in Italia. E qui si passa al concreto: perché si tratta di associazioni, riviste, piccole case editrici, nuclei di skinheads che declinano la loro ideologia in quei territori dove il disagio sociale è assoluto. Se ci si sposta sul terreno dei blog, dei forum, dei negozi online nei quali è possibile acquistare ogni tipo di feticcio fascista, il numero diventa vago ma sale in maniera esponenziale. Tutto liquido, naturalmente, con pagine e contenuti che appaiono e scompaiono. La Federazione delle Associazioni dei Partigiani d’Italia ne ha contati circa un migliaio. Ma era il 2002. Oggi un numero certo non c’è.
C’è di sicuro un enorme spazio virtuale in cui i simboli della storia del fascismo e del nazionalsocialismo vengono utilizzati come carte d’identità: immagini attraverso cui si da una precisa raffigurazione politica di se stessi, forme e colori intorno a cui ci si riconosce. La Croce Celtica, le teste rasate, il doppio 8 che simboleggia le due H dell’Hail Hitler. La tigre di Evola, le parole di Pound e innumerevoli rivoli del fiume sotterraneo dell’antisemitismo.
In definitiva la questione diventa se la libertà d’espressione possa essere invocata per tutelare l’incitamento all’odio e alla discriminazione. Una questione essenziale per la giurisprudenza al tempo di internet. Ci si muove su un terreno scivoloso “quando ci si trova al confine tra il libero pensiero e parole che possono diventare armi rischiose”, dice Carlo Blengino, avvocato, esperto proprio della connessione tra diritto e internet. Il punto è il grado di pericolosità delle parole e delle immagini che vengono diffuse: quel confine appare spesso ampiamente superato e quei comportamenti prefigurano l’apologia di fascismo, un reato previsto dal nostro ordinamento. E se è sotto gli occhi di tutti, visto il carattere della rete, che “possiamo trovare siti di frustrati che inneggiano al fascismo”, continua Blengino, e che non vanno oltre il loro status di attivisti da tastiera, è altrettanto innegabile che simili comportamenti “un domani possono tornare a essere realmente pericolosi”.Le frasi shock che nessuno cancella
Su Greta e Vanessa. Daniela S.: “Vi abbiamo pagato il riscatto luride t*** Vergognatevi, spero di non incontrarvi mai. Altrimenti non so cosa sarei in grado di farvi”.
Sull’elezione di Mattarella. M. N.: “Auguri per il tuo nuovo stipendio. Mi raccomando, ingrassa come un p***. Per il resto ci siamo noi!”.
Su Mussolini: Simone P.: “Dux Mea Lux”.
Sulla xenofobia: Giorgio G.: “Hanno queste smocciose che chiedono elemosina e mai nessuno dice nulla loro, ma attenzione, sono zingari, dobbiamo integrarli… io li integrerei nel cemento”.
Sull’Islam: “Perché il fascismo deve essere bandito perché provoca pericolo e l’Islam no?”
Sulla globalizzazione: Mario P.: “Gli americani ci porteranno ben presto alla terza e definitiva guerra mondiale”.
La difesa di Facebook: “Opinioni da rispettare”
di CARMINE SAVIANO ROMA – Quali sono i criteri di valutazione? Perché non si interviene in automatico per cancellare quei contenuti che possono prefigurare l’apologia di fascismo? Quali sono i limiti della libertà d’espressione? Abbiamo chiesto a Facebook Italia di chiarire la propria posizione in merito. “Offriamo alle persone di tutto il mondo la possibilità di pubblicare contenuti personali, vedere il mondo attraverso gli occhi di altre persone, connettersi e condividere contenuti ovunque. Le conversazioni che si svolgono su Facebook e le opinioni espresse sulla piattaforma rispecchiano la diversità degli utenti”, dice un portavoce dell’azienda.
In questo contesto, il lavoro principale che viene svolto è quello di “mantenere il giusto equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei diritti delle persone”. Qui le prime indicazioni sulla policy: “Non consentiamo, infatti, la pubblicazione di contenuti violenti, che incitano all’odio o comunque contrari agli standard della nostra community. Se da un lato infatti incoraggiamo gli utenti a mettere in discussione idee, eventi e linee di condotta, non consentiamo la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia”. Discriminazioni che però non mancano sulle pagine legate alla diffusione dell’ideologia di estrema destra.
Ancora: “Siamo consapevoli del fatto che a volte le persone condividono contenuti e opinioni controverse su Facebook, così come fanno nelle proprie conversazioni quotidiane. Le nostre regole sono state create proprio per aiutare a mantenere un equilibrio tra la libertà di esprimersi, anche se alcune persone potrebbero considerarlo offensivo, e la salvaguardia di un ambiente rispettoso e sicuro”. E il portavoce dell’azienda conclude così: “Facciamo forte affidamento sulle persone appartenenti alla community affinché ci dicano quando vedono qualcosa che non dovrebbe essere su Facebook”.
“Fenomeno rilevante e non solo virtuale”di CARMINE SAVIANO ROMA – Un progetto di ricerca durato cinque anni. E che ha fornito quella che ancora oggi è l’indagine più accurata dell’intreccio tra rete ed estrema destra. Manuela Caiani, che lavora presso l’Institute for Advanced Studies di Vienna, insieme alla ricercatrice Linda Parenti, ha pubblicato “Web Nero” per le edizioni Il Mulino nel 2013. Dati, raffronti, il tentativo di comprendere come i militanti di destra utilizzano internet. E per capire quanto è profonda la tana nera dell’estrema destra italiana.
Professoressa Caiani, oltre centotrentamila iscrizioni alla pagina Facebook dei Giovani Fascisti Italiani. La impressiona questo numero?
“No. I social media sono la nuova frontiera di questi gruppi. Li utilizzano molto bene e sempre di più. I tentativi di mappare gli aderenti a pagine come quella indicata sono in corso, in ambito accademico, sin dal 2011. La volontà è quella di capire chi sono questi simpatizzanti. Di sicuro non si tratta solo di attivisti da poltrona: molti di loro passano anche all’offline, si impegnano in prima persona sui territori. Il punto è capire quanti, invece, non siano potenziali attivisti. Penso che almeno la metà degli aderenti non abbia una motivazione ideologica”.
Come bisogna leggere questo fenomeno? Derubricarlo a “politicamente insignificante” oppure è necessario chiedersi se la diffusione di questi contenuti è pericolosa per il tessuto democratico? “Non sono fenomeni politicamente irrilevanti. Basta guardare all’avanzata dei partiti di estrema destra in tutta Europa. Oramai si tratta di un trend elettorale chiaro a tutti. E di sicuro questi strumenti mediatici aiutano questi contenuti a diffondersi. La domanda è quanto il comportamento online influenzi i comportamenti offline. C’è da dire che molti attivisti ritengono che questi forum siano una seconda casa: li frequentano spesso, stabiliscono contatti, ma poi finisce lì”.
Quanto è profonda la rete dell’estrema destra italiana?
“Il punto è che questi siti vengono chiusi di continuo, è difficile avere una mappa costantemente aggiornata. In altri paesi alcune leggi sono state trasferite subito all’online e l’apologia di fascismo è un reato applicato immediatamente anche in rete. Penso alla Germania e alla Spagna. In Italia la legge Mancino pone dei paletti precisi. E penso che il numero sia quello: un centinaio di associazioni attive in rete”.
Il gruppo che più l’ha colpita?
“Casapound: hanno una strategia di acquisizione di temi di sinistra, vanno sul sociale, anche se il loro è un welfare sciovinista. Hanno la capacità di attrarre i cittadini con un discorso non nostalgico: del duce o del fascismo sembra che non gli importi nulla. E sono anche molto bravi dal punto di vista iconografico: a volte utilizzano anche simboli di sinistra”.
La rete italiana è collegata con quelle di altri paesi?
“In media un terzo delle associazioni è legato ad altre sigle internazionali”.
Ci potrebbe fornire l’identikit del militante di estrema destra?
“Negli studi elettorali c’è tutto un filone che guarda all’elettore di estrema destra. L’immagine di un cittadino scarsamente educato, abitante in periferia, con un basso salario, è un’immagine fasulla. Non si va a destra solo quando c’è la percezione di insicurezza o quando si subisce la crisi. Il votante di estrema destra è sempre più trasversale: intellettuali, classe media, operai. Basta guardare al Fronte Nazionale di Marine Le Pen”.
Dal punto di vista normativo quali ritiene debbano essere i passi da compiere?
“E’ necessario un adeguamento delle leggi all’online. Il problema è bilanciare principi fondanti di uno stato democratico. C’è da tutelare la libertà d’espressione. Penso agli Stati Uniti in cui questo principio è gerarchicamente quasi superiore a tutti gli altri. Per questo i nostri gruppi si muovono su server americani, perché lì è più difficile chiuderli”.
Da FN al Fronte Veneto, la mappa delle sigle
di CARMINE SAVIANO
ROMA – Se la valenza politica di internet è oramai accertata e accettata, il maggior interesse – e la questione ancora aperta – è comprendere come avviene il passaggio dalla partecipazione online all’impegno offline. In questo contesto i movimenti di estrema destra non fanno eccezione: la rete è soprattutto un modello organizzativo. Diffusione di materiali, proselitismo, l’incarnazione di una funzione di agenda collettiva per ampliare la partecipazione alle iniziative che vengono proposte. Ovviamente ci si riferisce a quei gruppi che hanno già una struttura interna: la capacità di mobilitazione dei gestori di una singola pagina Facebook è sempre imprevedibile.
Ecco alcuni casi italiani: Forza Nuova. Proselitismo allo stato puro. Con tanto di vademecum in otto punti: dall’abrogazione delle “leggi abortiste” al blocco dell’immigrazione. Poi la messa al bando della massoneria e il ripristino del Concordato tra Stato e Chiesa del 1929. E le campagne per l’abrogazione della Legge Scelba, la normativa che ha instituito il reato di apologia del fascismo, e quella per eliminare “l’ideologia gender” dalle scuole. Presente anche una web radio. 130mila i like alla pagina Facebook.
CasaPound. I report sulle inaugurazioni di nuove sedi, i materiali per la giornata di commemorazione delle Foibe. La lotta per il mutuo sociale e quella per uscire dall’euro. Il nucleo originario, quello romano, oramai si è diffuso su tutto il territorio nazionale. Le sedi in Italia sono oltre cento. 112mila i like su Facebook.
Fronte Nazionale. Dal “decalogo” del movimento ai manifesti per la sovranità monetaria e territoriale. Il Fronte italiano fa della diffusione in rete dell’anti-europeismo una delle proprie ragion d’essere. Commenti su tutti (o quasi) i temi d’attualità. Sergio Mattarella definito come l’ennesimo “presidente atlantico”. La presenza sui social è costante. Su Facebook quasi 8mila like.
Fascismo e Libertà. Vendita di articoli di propaganda, download dei materiali, elenco e contatti delle sede regionali. Il portale del movimento ospita anche articoli su Istria e le Foibe ed estratti ispirati al negazionismo in relazione alla Shoah.
Fuan. Azione universitaria. Insieme al Blocco Studentesco – rivolo di CasaPound – rappresenta l’estrema destra nel mondo degli studenti. Diffuse nelle maggiori città universitarie forniscono in rete un costante controcanto alle posizioni delle associazioni studentesche di sinistra.
Veneto Fronte Skinheads. Qui l’uso della rete è abbastanza didascalico: le opere e le gesta degli skinheads del Veneto dalla loro apparizione, negli anni ’80, a oggi. Poi la diffusione dei loro comunicati. Tra gli altri quello intitolato Una, cento, mille Tor Sapienza.
E nel mondo? L’attività di monitoraggio compiuta dagli studiosi è costante. Ancora in “Web Nero” vengono forniti alcuni numeri che riguardano oltre 500 organizzazioni. Cifre che possono illuminare il meccanismo del passaggio dall’online all’offline. Il 23,7% delle organizzazioni offre in rete un calendario dei propri eventi. E il 10,8% suggerisce anche iniziative di movimenti che ritiene affini o amici. La pubblicizzazione delle proprie campagne politiche è compiuta nel 23,1% dei casi. Il 25,4% dei gruppi ha un archivio con i volantini e documenti relativi alle attività svolte. Il 4,7% organizza azioni di protesta in rete, come il mailbombing o il netstrike. E il 38,6% utilizza la rete per vendere merci.