La tragedia del Vajont. Il 9 Ottobre del 1963 una frana staccatasi dal monte Toc cade nell’invaso della diga e provoca un’onda che travolge e distrugge il territorio di Longarone, le frazioni di Erto e Casso e provoca quasi duemila morti. 50 anni dopo Rainews24 è tornata sui luoghi della tragedia. Il racconto dello scrittore Mauro Corona.
Il monologo Vajont, un’orazione civile, è un’opera trasmessa in occasione del trentaquattresimo anniversario (ossia il 9 ottobre 1997) del disastro del Vajont in diretta su Rai 2.
Il soggetto teatrale è la storia della Diga del Vajont e delle circostanze che hanno condotto al disastro, raccontate in circa due ore e mezza. La ricostruzione è il frutto di accurate ricerche e collazioni di documenti ufficiali e fa risalire l’origine dell’intricata vicenda alla fine del XIX secolo. Per l’occasione fu allestito un teatro proprio presso la Diga del Vajont, precisamente nel lato della diga riempito dalla frana e un tempo sede del bacino.
Paolini narra la vicenda che ha portato al disastro della diga con estrema fedeltà ai fatti e alle persone, inserendo di tanto in tanto aneddoti divertenti che alleggeriscono la drammaticità del racconto.
Una catastrofe inimmaginabile, cadaveri dappertutto, ma molti non avranno mai sepoltura. Il disastro è avvenuto in pochi minuti
LONGARONE 10 Ottobre (notte ) – Una catastrofe inimmaginabile.
I più spaventosi disastri capitati nella storia delle dighe impallidiscono di fronte all’atroce misura di quanto è successo ieri notte nella valle del Piave. Vi sono da due a tremila vittime, tra morti e dispersi. Si deve dire da due a tremila perché sotto i duemila non è possibile che si sia e perché si spera di non salire oltre i tremila.
Dal terremoto di Messina e di Avezzano in poi, tolti i fatti di guerra, non si era più avuto in Italia un eccidio tanto grande. A tutta stasera erano state recuperate circa quattrocento salme. Un numero orrendamente alto, come si vede, ma assai lontano da quello totale delle vittime. Di cadaveri ne vengono fuori dappertutto, ma la maggior parte non avrà mai sepoltura. Ve ne sono a centinaia sotto coltri di roccia e fango spesso fino a dieci metri. Ve ne sono centinaia e centinaia disseminati e nascosti nelle sabbie del Piave. Ne sono stati trovati due, tre, cinque, dieci chilometri più a valle scendendo il corso del fiume, fino a Feltre ed oltre.
Una dozzina di elicotteri vola su e giù lungo, il corso del Piave, lentamente e a pochi metri di altezza, alla ricerca di cadaveri. Così ne sono stati avvistati e Immediatamente recuperati parecchi. Alcuni, molto a valle, erano rimasti impigliati tra i rami di alberi contro i quali li aveva scagliati l’ondata liquida precipitata dalla diga del Vaiont. La catastrofe, davvero di proporzioni bibliche, si è svolta nel giro di pochi minuti a partire dalle 22.45 di ieri. Dalla diga del Vaiont è scesa d’improvviso, a velocità fulminea, una valanga d’acqua il cui volume viene stimato da un minimo di venti milioni ad un massimo di cento milioni di metri cubi.
Ma più che la massa dell’acqua conta l’altezza del salto, dai settecentoventi metri del bordo della diga del Vaiont ai quattrocentocinquanta metri della piazza principale di Longarone. Va detto subito che la diga del Vaiont non è crollata né è saltata, né ha comunque ceduto. La diga è ancora là, almeno apparentemente intatta, lungo tutti i suoi duecentosessantacinque metri d’altezza. La diga ha anzi, se così si può dire, ampiamente dimostrato di essere una incrollabile diga.
L’evento che ha dato luogo al disastro si è verificato per il fatto che un intero costone di montagna, una enorme fetta del monte Tocc, che sovrastava il bacino verso il suo lato meridionale, è franato ed è caduto nel bacino espellendo di colpo una considerevole parte del liquido che vi era contenuto. E’ in tal modo avvenuto, in proporzioni mostruose da sconvolgimento geologico, lo stesso fenomeno che avverrebbe a vibrare un pugno in una scodella d’acqua. Decine di milioni di metri cubi d’acqua e fango si sono sollevati, hanno tracimato lungo il bordo superiore della diga, sono caduti a valle in una unica ciclopica onda a cascata, quasi verticale.
(…) Distrutto tutto sul suo passaggio, l’onda ha toccato il greto del Piave, ha attraversato il fiume, si è abbattuta a catapulta contro la riva opposta, quella di destra. In questa riva si trovavano fino a ieri sera paesi come Longarone, come Pirago, come Rivalta, come Villanova, come Faè. Questi ultimi quattro paesi, tutti quanti frazioni del comune di Longarone, oggi non esistono più. Non esistono più in senso assolutamente letterale. Longarone non esiste più per quattro quinti, il quinto più a settentrione — a partire dalla casa municipale in poi — si è salvato per via della sua posizione molto alta sul greto del fiume.
Questa circostanza non deve far credere che l’onda scesa dalla diga del Vaiont abbia perduto di forza nel traversare il Piave — qui largo ora cinquecento i i metri contro i cento di ieri — e che abbia quindi distrutto le case più esposte, quelle più basse in quota. Tutt’altro. E’ andato completamente distrutto, proprio sulla sponda destra, tutto ciò che esisteva fino ad una quota di circa settanta od ottanta metri superiore a quella del letto del Piave.
Nulla ha resistito alla diabolica catapulta liquida. Per tre chilometri, la pur alta linea ferroviaria Treviso-Calalzo non esiste più. Non esiste più vuol dire che non vi è più traccia non dico di rotaie o traversine o di massicciata, ma che non vi è più traccia di niente, non si capisce più dove la linea passasse fino a ieri. Due chilometri a valle di Longarone si ricomincia infine a vedere la massicciata, le traversine e i binari; ma i binari sono stati letteralmente arrotolati dall’urto dell’acqua, sembrano molle da orologi di due o tre metri di diametro.
Alla forza dell’acqua precipitata dalla diga non ha resistito alcuna casa, né quelle vecchie di mattoni e pietra, né quelle nuove di cemento armato. Non hanno resistito nemmeno i tralicci d’acciaio dell’energia elettrica, sono stati strappati con i loro zoccoli di calcestruzzo e giacciono a terra incredibilmente contorti, sventrati, confusi come fascine. Gli uomini e le donne, i vecchi e i bimbi dentro alle case a dormire o a guardare la televisione, o a giocare a carte nei caffè, non hanno potuto fare nulla per difendersi. Si può dire che sono morti tutti o quasi tutti. Si può dire che nelle zone colpite dall’ondata simile a quella di un gigantesco maremoto, nessuno si è salvato. O quasi nessuno. Sono scampati alla morte coloro che si trovavano altrove. I superstiti sono pochi. Alle autorità, questo disastro di Longarone pone problemi gravissimi di ogni genere; ma non in maniera difficile il problema di dare ricovero e nutrimento a dei sinistrati, a gente rimasta senza casa. Non ci sono più né case né gente, né chiese, né strade, né ponti.
(…) Il territorio di cinque dei venti centri abitati che formano il comune di Longarone è da stanotte un solo immenso ghiaieto. In un certo punto, alla periferia di Longarone, c’era una segheria, in mezzo a un praticello. Al posto del prato e della segheria c’è oggi un lago lungo un centinaio di metri e largo una cinquantina. Salita a distruggere Longarone e Faè, e Pirago, e Villanova, e Rivalta, l’ondata precipitata dalla diga del Vaiont non si è arrestata. E’ tornata indietro, verso il basso, trascinando con sè cose e corpi, alberi e automobili, strade e case; ha rivalicato il Piave, ha colpito basso e duro le case più esposte di Codissago, sulla sponda sinistra del fiume, le ha sgretolate, trascinate via con una trentina di persone dentro. Altrettanto ha fatto, poco più a valle dal punto di sbocco della val del Vaiont, con l’abitato di Vaiont, con la differenza che le case di Vaiont, salvo alcune poste sopra un colle, sono scomparse tutte con la gente che vi dormiva dentro. Per sfortuna somma, la valanga d’acqua precipitata dalla diga del Vaiont ha dovuto, al momento di entrare nel Piave passare in un canalone stretto di roccia. Questo canalone ha ancora aumentato la velocità già altissima della valanga liquida, ha svolto la funzione accelerante che nelle manichette dei pompieri viene svolta dai manicotti metallici terminali fabbricati a lancia.
TOMBE SCOPERCHIATE – Si diceva sopra che alla periferia di Longarone si è formato un piccolo lago. Dalla parte opposta del Piave, invece, interi costoni erbosi di montagna sono spariti, come se fossero stati raschiati via da una gigantesca ruspa. E’ anche scomparsa una zona pianeggiante larga un quattrocento metri, tra il corso delle acque del Piave e l’attacco delle montagne. In questa zona ora divenuta ghiaieto, sorgevano alcuni stabilimenti industriali della zona. A guardare da Longarone verso la valle del Vaiont, la diga si vede ancora. Ma sopra, invece di scorgervi l’azzurro del cielo, vi si vede una immensa montagna di terra, quel pezzo di monte Tocc che v’è precipitato dentro stanotte.
La diga che prima appariva come un cono vuoto di gelato, a guardare dal basso, ora sembra un cono colmo di terra. Il panorama della zona, insomma, è radicalmente cambiato. Dimenticavo di dire che prima di scendere a distruggere in basso, la valanga d’acqua ha distrutto anche in alto, non appena partita. In un punto imprecisato, non molto sotto alla diga, si trovavano alcune baracche occupate da oltre un centinaio di operai, parte dei quali della S.A.D.E. — la società alla quale, prima del passaggio all’E-N.E.L., apparteneva la diga del Vaiont — e parte di una impresa di lavori. Sembra, ma è purtroppo quasi sicuro, che tali baracche siano andate distrutte. Pare anche che manchino notizie di vari, operai che risiedevano in tali baracche. Gli abitanti di Faè, di Villanova, di Vaiont e altri, dicevo, sono stati spazzati via. Spazzati via vuole dire che la gente che qui accorre alla ricerca dei parenti non è assolutamente in grado di riconoscere il luogo dove le case sorgevano fino a ieri. «Forse qui», dicono. Poi si spostano di dieci metri o di venti o di cinque e dicono: «Forse era qui».
(…) Andando e venendo due o tre volte, l’ondata ha strappato, divelto, scavato, segato, polverizzato, spostato, impastato; ha nascosto cose’e corpi sotto cinque o dieci metri di ghiaia o terra. Altrove invece, l’ondata, pur distruggendo, ha lasciato soltanto due o tre palmi di fango viscido. E’ il caso del cimitero di Longarone. Del cimitero di Longarone, situato presso la frazione Pirago e volto a valle, resta in piedi soltanto l’ala dei loculi. Il muro di cinta non esiste più, molte tombe sono scoperchiate, piene d’acqua e di fango e nafta calata da qualche serbatoio schiacciato. L’ala dei loculi è stata investita con violenza, ma non troppa. Di una cinquantina di lapidi poste a chiusura dei loculi, soltanto una dozzina sono state sfondate. Attraverso i vani vuoti si vedono casse da morto sconnesse, le più sono casse minuscole, da bambini. Della chiesa del cimitero, detta popolarmente «chiesa del diavolo» è rimasto in piedi soltanto il campanile. Più avanti, in una zona tra Pirago e Longarone, delle molte case che vi sorgevano ne sono rimaste in piedi due sopra un cocuzzolo. Ma benché altissime, le acque le hanno raggiunte e devastate. Di tutte le altre — decine e decine — non rimane più nulla. O meglio: rimangono i pavimenti netti e lavati dal cataclisma della notte; ma soltanto i pavimenti, nemmeno un pezzo di muro alto due dita, intorno. Più oltre ancora, c’è un vastissimo ghiaione.
OFFICINE VOLATILIZZATE – Oggi, su questo ghiaione vi sono squadre di alpini che lavorano di piccone alla ricerca di cadaveri, e bulldozers che tentano di riaprire il solco delle strade, ed elicotteri che atterrano e decollano. Ma ancora ieri sera vi sorgeva la parrocchiale, c’erano le filiali della Banca Commerciale, della Cassa di Risparmio, della Banca Cattolica del Veneto. «Questa pietra — dice uno — potrebbe essere una pietra dei portici che c’erano o una pietra della piazza dei Martiri. Conoscevo Longarone sasso per sasso, ma non mi ci raccapezzo più» Un gruppo di sacerdoti segue il lavoro di scavo di una squadra di alpini. Dal fango viene fuori un messale, poi un bracciolo di poltrona antica. «La canonica dovrebbe essere più sotto — osserva uno dei sacerdoti —, ma l’ondata potrebbe avere portato via il cadavere». Il corpo che si cerca e che non sì trova è quello del parroco monsignor Bortolo Larese. Il sindaco di Castellavamo, Riho Zoldan, indica verso il Piave con la mano: «Là c’era un ponte finito tre mesi fa, là c’era un altro ponte, là un altro ancora». Nessuna traccia dei ponti. Nessuna traccia nemmeno dei sei o sette stabilimenti che formavano uno dei nuclei industriali della provincia di Belluno. Scomparsi, come volatilizzati, gli stabilimenti della «Marmi», dell’occhialeria «Ilom» delle «Condutture elettriche Procond», delle «Segherie Protti», della filanda «Malcom», della «Cartiera di Verona». Al momento della catastrofe, Ieri sera, nello stabilimento della Cartiera di Verona si trovavano novanta operai: sono scomparsi tutti nel cataclisma, nessuno dei novanta s’è fatto finora vivo.
«NON SI CAPISCE NIENTE» – Secondo me — dice il signor Mario Laveder, segretario comunale di Longarone — il numero delle vittime dovrebbe essere tra duemila e tremila. Nel territorio comunale vivevamo in quattromilasettecentosessanta, ed almeno duemila di questi risultano mancanti a un primo frettoloso sommario appello. Manca il sindaco, mancano cinque consiglieri, mancano le quattro suore dell’asilo, manca il farmacista, manca il maresciallo dei carabinieri Vito Papa, con la moglie, la figlia e la suocera; manca. il vicebrigadiere dei carabinieri Miglietta, manca il carabiniere Mayer, manca ‘il brigadiere della forestale Enrico Migotti, mancano ben sedici cugini e zii di primo grado della giovane Sandra Tormen. Sandra Tormen è l’unica persona che ho visto piangere in tutta la giornata trascorsa sul luogo dove sorgeva Longarone. Manca all’appello il maestro elementare Paolino De Bona con la moglie e le sue sei figlie, manca il maestro Guglielmo Pan cera con la moglie, due figlie, la madre e la suocera, manca il maestro Elio De Bona, fratello di Paolino, con la moglie e il figlio, manca la maestra Maria Antonietta Debiasio con suo marito e suo fratello, manca la maestra Maria Vascellari. Della famiglia Tovanella, una dozzina di persone, è rimasto un solo superstite, l’avvocato Tovanella.
(…) Taluni si sono salvati per essersi allontanati per qualche ora dalle loro dimore. E’ il caso del giovane Luigi Sacchet. Era andato a trovare la fidanzata, Wanda De Zolt, nel vicino paese, di Perarolo. Al ritorno, verso mezzanotte, credette di impazzire, Luigi Sacchet è ora qui, con la fidanzata stretta sotto braccio, e cerca di capire dove suo padre Pietro e sua madre Elvira possono trovarsi sepolti. Sacchet non piange, anche lui; nessuno piange, qui a Longarone. A pochi metri da Sacchet c’è un uomo con una camicia rossa che lavora rabbiosamente di piccone aiutato da alcuni alpini. L’uomo dalla camicia rossa è il cartolaio tipografo Demetz: sono sei ore che lavora di piccone senza riuscire, a trovare i cadaveri della moglie e del figlio.
Alla zona del ghiaione segue una zona in cui le case, pure infrante e schiacciate, sono rimaste a galla, sul piano di macerie. Ecco, in pochi metri, uria scala a pioli, un trapano da dentista, una borsa con dentro un chilo e più di biglietti da cento marchi e catene d’oro e gioielli, una palla di gomma rossa, un biberon colmo di latte, una scarpa, un paio di brandelli di automobile, una ruota di autocarro, un laghetto di nafta, una mano di donna con una perla a un dito, sporgente dal fango, un pallottoliere, una bandiera tricolore avvoltolata nella sua custodia, un tratto di siepe di mortella, con le mortelle tutte scorticate. Nel greto del Piave, le carcasse di automobili sono centinaia e centinaia, molte brillano al sole. L’unico punto di riferimento in questa zona, anch’essa rasa al suolo, è l’altare maggiore della parrocchiale, i tre gradini anzi dell’altare maggiore della parrocchiale. Un vecchio solo s’aggira sulle macerie come inebetito. «Non si capisce più niente», dice. Ha qui sotto tre sorelle, ieri vive e oggi morte: Maria, Caterina e Virginia Salvador, tutte e tre sposate e con figli.
Il dottor Gianfranco Trevisan, medico condotto di Longarone, era, al momento del disastro, davanti al televisore a guardare la partita del Real Madrid. Per buona sorte, la casa del dottor Trevisan si trova alla periferia nord di Longarone, molto in alto. «.l portone — racconta il medico — si spalancò improvvisamente. Chiamai moglie e figli e gridai loro di salire sul monte. Pensai che fosse saltata la diga. Ce l’aspettavamo» «Ve l’aspettavate?» « Si, dal monte Tocc era caduta qualche grossa frana nel bacino. Ogni tanto la terra, qui a Longarone, tremava; anche quindici giorni fa la terra ha tremato».
LA PAURA DEL TOCC – La signorina Maria Rosa Mannarin, domestica del dottor Trevisan, ha una casa sulle pendici del monte Tocc. «Qualche giorno fa — dichiara il medico — alla Mannarin fu detto di sgomberare la casa e di lasciare la montagna. Tutti coloro che hanno case sul monte Tocc hanno avuto questo ordine». Vista mettersi in salvo la famiglia e munitosi di una lampada, il medico Trevisan formò una squadra di soccorso col vice-sindaco Arduini, con l’impiegato comunale Giorgio Pioggia ed altri. Prima di tutto, questa squadra trovò un bambino quasi del tutto sepolto nel fango, lo estrasse, lo mandò all’ospedale; poi, tre o quattro feriti; e poi tre o quattro morti. Tutti nudi o in pigiama, l’ora era tarda e molta gente di Longarone s’era già coricata. L’operaio Luigi Mannarin, abitante nel vicino paese di Casso, quando udì il boato delle 22,45 di ieri sera, gridò subito: «Qui viene giù il Tocc». Per la verità, a Longarone e altrove, molti pensarono al Tocc, alle 22.45 di ieri sera, nell’udire il boato e il tuono che dava il via al disastro. Si può anzi dire che vi pensarono tutti.
Smottamenti e crepe nelle pendici del Tocc avevano cominciato a manifestarsi due anni orsono, non appena terminata la costruzione della diga del Vajont. Furono anzi queste crepe a consigliare di non riempire d’acqua il bacino appena costruito. Ma un anno fa, ottenuta la debita autorizzazione, cominciò lentissimo l’invasamento del bacino, che misura sette chilometri di lunghezza e trecento metri di larghezza. Ieri sera il livello dell’acqua era a una ventina di metri sotto il livello massimo. E’ evidente che gli esperti avevano ritenuto che il monte Tocc si fosse abbastanza consolidato. La paura del monte Tocc, comunque, esisteva ed era diffusa tra la popolazione di questa plaga cadorina. O, se non la paura, almeno la preoccupazione. Si spiega perciò come questa gente non esiti ad esprimere pubblicamente e accoratamente il desiderio che venga al più presto compiuta una rigorosissima inchiesta ad alto livello per appurare se esistano responsabilità e perché queste siano eventualmente colpite con estremo ed esemplare rigore. L’opera di soccorso si è iniziata pochi minuti dopo la catastrofe ed è proseguita attivissima e ordinata, durante tutta la giornata con la partecipazione di vigili del fuoco, carabinieri, polizia e reparti alpini della Brigata Cadore. La direzione dell’opera di soccorso è stata affidata al generale Carlo Ciglieri, comandante il IV Corpo d’armata.
(dal Corriere della Sera di venerdì 11 ottobre 1963)
Dopo mezzo secolo il disastro che uccise quasi duemila persone, il presidente della Repubblica sottolinea che la tragedia poteva essere evitata e proclama la Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali dovuti all’incuria dell’uomo. Epifani:”Non dimentichiamo” e Grasso va a Longarone
ROMA – Sono passati cinquant’anni da quando un’enorme frana scivolò dal monte Toc sopra Longarone e piombò con il fragore di un’esplosione nell’invaso artificiale della diga del Vajont. La diga tenne l’urto, ma l’ondata d’acqua che fuoriuscì si riversò nella valle spazzando via case, chiese e circa duemila vite umane. Dopo mezzo secolo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il presidente del Senato Pietro Grasso e il leader Pd Epifani ricordano il disasto naturale che colpì il Veneto e il Friuli.
In un messaggio Napolitano ribadisce che il cedimento della diga non fu una fatalità, ma unerrore umano. “La memoria – scrive Napolitano – del disastro che il 9 ottobre 1963 sconvolse l’area del Vajont suscita sempre una profonda emozione per l’immane tragedia che segnò le popolazioni con inconsolabili lutti e dure sofferenze. Il ricordo delle quasi duemila vittime e della devastazione di un territorio stravolto nel suo assetto naturale e sociale induce, a cinquant’anni di distanza, a ribadire che quell’evento non fu una tragica, inevitabile fatalità, ma drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le responsabilità”.
“È con questo spirito – riprende il presidente della Repubblica – che il Parlamento italiano ha scelto la data del 9 ottobre quale ‘Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’uomo, riaffermando così che è dovere fondamentale delle istituzioni pubbliche operare, con l’attivo coinvolgimento della comunità scientifica e degli operatori privati, per la tutela, la cura e la valorizzazione del territorio, cui va affiancata una costante e puntuale azione di vigilanza e di controllo”.
“Nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario del disastro, desidero rendere omaggio alla memoria di quanti hanno perso la vita, alla tenacia di coloro che ne hanno mantenuto fermo il ricordo e che si sono impegnati nella ricostruzione delle comunità così terribilmente ferite e rinnovare, a nome dell’intera nazione, sentimenti di partecipe vicinanza a chi ancora soffre”, scrive ancora il capo dello Stato. “Desidero, inoltre, esprimere – conclude – profonda riconoscenza a quanti, in condizioni di grave rischio personale, si sono prodigati, con abnegazione, nell’assicurare tempestivi soccorsi ed assistenza, valido esempio per coloro che, nelle circostanze più dolorose, rappresentano tuttora un’insostituibile risorsa di solidarietà per il paese”.
Il presidente del Senato Pietro Grasso a Longarone, al cimitero delle vittime del Vajont, prima della cerimonia pubblica che celebrerà il ricordo. Grasso ha deposto una corona d’alloro in memoria, accanto a lui il presidente della Regione Veneto Luca Zaia. “Ricordare quanto accaduto – afferma Grasso – significa essere consapevoli che nessun interesse, nessuna convenienza, nessuna scorciatoia può concedersi di incidere ‘sulla pelle viva’ di una popolazione”. E continua:”Dove 50 anni fa tutto era fango e ghiaia, oggi c’è la più grande zona industriale della provincia di Belluno e il quarto polo fieristico del Veneto. È enorme la mia ammirazione verso le popolazioni di questa valle per la forza e la determinazione che hanno dimostrato, per la pazienza e la perseveranza con le quali hanno saputo rinascere dal fango”.
“Il Vajont – e conclude – è anche la storia di uno straordinario esempio di solidarietà e virtù civiche, da molti considerato alla base della nascita del sistema della protezione civile. E’ la storia di tutti quelli che accorsero con tempestività: Alpini, Vigili del Fuoco, Forze dell’ordine, volontari da tutta l’Italia. Persone che, con abnegazione, generosità e impegno hanno offerto la propria opera nel momento del dolore e dell’orrore. Persone che, in qualche modo ancora oggi portano il segno di quell’esperienza”.
“Molte – ha detto il presidente del Pd Gugluielmo Epifani – e pesanti furono le responsabilità per una tragedia che si poteva evitare se la ricerca del profitto non fosse stata messa davanti alla tutela della sicurezza e della vita di migliaia di persone innocenti. Anche la giustizia non ha fatto il suo corso e, forse, è il risarcimento negato che più pesa sulle popolazioni colpite. Insieme ad un’attenzione che per troppi anni è mancata, come se una tragedia così grande potesse conoscere l’oblio”. “La memoria – conclude Epifani – infine è la ricerca incessante di chi rimane, è qualcosa che resta nella mente di chi partecipò ai soccorsi, e un Paese perde il senso di sé, della sua storia, se non ha la capacità di fermarsi a condividere il ricordo”.
La versione degli antisabotatori che furono chiamati per verificare che non fosse un’autobomba, ma trovarono il corpo più di un’ora prima della famosa telefonata. Sul posto anche Cossiga, che aveva detto di essere arrivato non prima delle 14. “Non era sorpreso”. Il giallo di una lettera, gli approfondimenti della Procura di Roma
ROMA – Un pezzo di storia italiana va, almeno in parte, riscritta. Il cadavere di Aldo Moro, nel bagagliaio della R4 rossa in via Caetani, non sarebbe stato ritrovato dopo la telefonata delle Brigate Rosse, alle 12.13 del 9 maggio 1978, ma oltre un’ora prima, intorno alle 11. E questo potrebbe avere ripercussioni sulle indagini riaperte pochi giorni fa dalla procura di Roma. Il pm Palamara ha aperto un’attività istruttoria in merito.
La nuova ‘versione’ è sostenuta da gli antisabotatori che per primi arrivarono all’R4 rossa, che non sono mai stati interrogati. Uno di loro, Vitantonio Raso (intervista), ha scritto un libro, ‘La bomba Umana’, nel quale dà dettagli che modificano la storia per come finora nota.
Lui ed il suo collega Giovanni Circhetta (intervista), spostano l’ora del ritrovamento dell’auto e del cadavere dello statista a prima delle 11, mentre era delle 12.13 la famosa telefonata delle Br che annunciava l’uccisione di Moro ed il luogo dove trovarne il corpo.
Alle 11, infatti, gli artificieri arrivarono in via Caetani per controllare che l’R4 non fosse una trappola esplosiva. Fu Raso il primo ad entrare nella macchina ed a trovare sotto la coperta il corpo di Moro. Poco dopo arrivò anche Francesco Cossiga, che finora si sapeva essere giunto in via Caetani solo poco prima delle 14 e quando Raso,sceso dalla macchina, comunicò che dentro il bagagliaio c’era Moro, non vi fu alcuna reazione da parte Cossiga e da chi lo circondava. “Sembrava che sapessero già tutto”,dice Raso.
Dal Maresciallo Giovanni Circhetta l’altra novità: sul sedile anteriore della R4 c’era una lettera. Circhetta è sicuro e si chiede che fine abbia fatto.
Una versione che è oggi corroborata dalla testimonianza di Claudio Signorile, ex parlamente e ex ministro dei Trasporti del governo Craxi, che era con Cossiga quella mattina: “Andai da Cossiga nella seconda parte della mattinata. Alle 12 si va a prendere un aperitivo non certo un caffè”, dice all’Ansa.
Quella mattina mentre era a colloquio con Cossiga al Viminale Signorile senti “l’altoparlante in presa diretta che annunciava che c’era un’auto in via Caetani con dentro un corpo e che andavano a verificare. Poi una seconda comunicazione che diceva, la ‘nota personalità’…”
L’orario? A microfoni spenti tempo fa Signorile disse “tra le 10 e le 11”. “Ero li per un caffè non un apertivo”, chiosa oggi come a ribadire quell’orario detto in totale controtendenza con la versione ufficiale della telefonata delle Br alle 12,13 a casa del Professor Tritto.
In questa puntata, Nuzzi indaga su quale sia il ruolo e le finalità di cricche, comitati d’affari, network orizzontali che si annidano nelle pieghe del potere istituzionale. In studio, un ospite inedito: Luigi Bisignani. In occasione dell’uscita del libro ‘L’uomo che sussurra ai potenti’ (ChiareLettere, 2013), la prima intervista televisiva di una delle figure più controverse nel panorama politico italiano degli ultimi trent’anni. Bisignani — amico di Gelli, pupillo di Andreotti, fedelissimo di Gianni Letta — è da sempre il suggeritore dei potenti, capace di influenzare le scelte di ministri, le nomine di banchieri, top manager e comandanti generali. In esclusiva per la trasmissione di Gianluigi Nuzzi, il faccendiere milanese svela i retroscena del potere: da Andreotti a Berlusconi, fino alle scelte del governo di Enrico Letta.
Intervista ad Ambrosoli che ha lasciato l’aula del Pirellone al momento della commemorazione di Andreotti: “Per lui né rancore né oblìo. Porto rispetto per la morte di una persona. Ma non dimentico quello che ha rappresentato nella vicenda di mio padre”
di ORIANA LISO
Umberto Ambrosoli
MILANO – “Non avevo riflettuto, prima, sul fatto che potesse esserci la commemorazione di Giulio Andreotti anche nell’aula del Consiglio regionale. Quando ho sentito che l’annunciavano, in quel momento ho deciso di uscire”. Chiunque conosca Umberto Ambrosoli ne sottolinea l’estrema educazione e un’attenzione alla forma quasi d’altri tempi. Non quando la forma diventa sostanza. “Il paradosso è che questo gesto mi mette quasi in imbarazzo, per il conflitto – non il contrasto – tra la mia veste istituzionale e la mia storia personale, che ne è una componente determinante”. I giudizi negativi (del governatore Maroni, di esponenti del Pdl) non lo smuovono – “non entro nelle polemiche” – ma ripassa tutti i messaggi di chi gli ha detto: è come se uscissi dall’aula con te. E l’sms di sua madre Annalori, uno stringato e assoluto: “Condivido”.
E quindi, Ambrosoli: come lo risolve questo conflitto tra l’uomo e l’istituzione?
“Non è una scappatoia: le istituzioni sono fatte di persone e quindi, nonostante tutto il rispetto dovuto davanti alla morte di una persona, nonostante sia il primo a ritenere giusta la commemorazione di un uomo delle istituzioni, io non posso dimenticare cosa ha rappresentato Andreotti nella storia di mio padre Giorgio”.
L’ha fatto per onorare la sua memoria?
“Ma caspita, l’ho fatto anche per me stesso. Ho un dovere nei confronti della mia, di coscienza. Non posso dimenticare quello che è stato soltanto per un ipotetico dovere istituzionale. Il comportamento che, per sua stessa ammissione, Giulio Andreotti ha avuto nella vicenda che ha condotto, in ultimo, alla morte di mio padre, non dice tutto di lui. Può avere fatto cose meravigliose nella sua vita. Ma è chiaro che per me quella conta, quel lato oscuro che ho vissuto sulla mia pelle”.
Il pensiero va all’intervista del 2010 di Giovanni Minoli ad Andreotti: disse che suo padre “se l’andava cercando”. In quel momento che effetto fecero a lei e alla sua famiglia quelle parole?
“La sensazione che ricordo nettamente fu quella di un modo di intendere la responsabilità pubblica lontano anni luce dagli esempi che avevo avuto, da quello che hanno trasmesso i miei genitori a me e ai miei fratelli. Era un modo che anteponeva l’interesse personale alla funzione che mio padre era stato chiamato a svolgere. Uno stravolgimento inaccettabile. Come dissi allora, però: con questa frase Andreotti si è dimostrato coerente con la sua storia, con il processo di Palermo, con quello per l’omicidio di mio padre. Ciascuno, con questa frase, potrà arricchire il proprio giudizio su quanto è stato”.
Nel pieno delle polemiche Andreotti disse che l’avevano frainteso. Provò mai a spiegarsi di persona con lei, a chiedere scusa?
“Non voglio, e questo davvero per rispetto alla morte di una persona, entrare in questo genere di memorie. Comunque: quello che ha detto in quell’intervista è lì. Non possono esserci fraintendimenti”.
Con la morte di Andreotti si dice che i segreti d’Italia vengano sepolti con lui.
“Penso che un fatto doloroso come la morte sia una un’occasione di riflessione su quello che è la memoria del nostro Paese. Ritengo fuorviante concentrare l’attenzione sul fatto che non abbiamo, e forse non avremo più, chiarezza su quegli anni. Cosa cambierebbe? Il disvalore che proviamo nell’immediato, quando accade qualcosa di tragico, vergognoso, drammatico, l’abbiamo già dimenticato il mattino dopo. La nostra capacità di indignarci è pari a quella di provare immediatamente indulgenza. Non sarà solo un problema degli italiani, certo. Ma io parlo di quello che conosco”.
Siamo un popolo senza memoria?
“Peggio: siamo portati a giustificare tutto, e questo conduce all’immobilismo, all’incapacità di cambiare, anche se a parole siamo bravi a dirlo. Aggiungo: troppi segreti nella storia d’Italia? Quello che sappiamo già è così tanto che, se agissimo di conseguenza, vivremmo in modo molto diverso”.
Nando Dalla Chiesa non dimentica che Andreotti non andò al funerale di suo padre, il generale Dalla Chiesa. “Preferisco i battesimi”, disse. Si può, a un certo punto, dimenticare, e perdonare?
“Trovo la parola “perdono” un po’ morbosa. Le parole di Nando, il mio gesto che tante polemiche, involontarie, sta creando, ci dicono, invece, che è possibile vivere il rapporto tra la memoria e le nostre azioni attuali senza essere condizionati né dal rancore né dall’oblio”.
Se i suoi figli dovessero un giorno chiederle chi era Giulio Andreotti, cosa risponderà?
“Ho scritto un libro (“Qualunque cosa succeda”, ndr) per raccontare anche chi è stato Giulio Andreotti, quali sono state le sue responsabilità. Potranno trovare lì le risposte che cercano”.
Ha sorpreso la decisione del Coni di disporre un minuto di silenzio per tutte le manifestazione sportive, mai accordata in passata per la morte di ex presidenti del consiglio. Ieri la contestazione sonora all’Olimpico, cui hanno fatto seguito episodi analoghi a Milano, Torino, Siena, Bergamo e Bologna
di FULVIO BIANCHI
ROMA – I fischi, a sorpresa, sono arrivati proprio dalla Curva Sud dell’Olimpico, la curva degli ultrà giallorossi. E’ successo ieri sera, in Roma-Chievo. Fischi in occasione del minuto di silenzio in onore di Giulio Andreotti, che romanista lo è stato per davvero (vedi caso Falcao e c.). Ma non è stato un caso isolato. Ventiquattro ore dopo i fischi si sono ripetuti annche a Milano, Torino, Siena, Bergamo e Bologna.
Ma ha sorpreso anche la decisione del Coni di disporre, appunto, un minuto di silenzio in occasione di tutte le manifestazioni sportive che si disputeranno in Italia a partire da oggi e per tutta la settimana in memoria di Giulio Andreotti. In passato, anche sotto la presidenza Petrucci, c’erano stati minuti di silenzio per Pertini (anche lui fischiato a Roma), Cossiga, Scalfaro e anche, di recente, sotto la presidenza Malagò, per il capo della polizia Manganelli, morto in servizio. Ma Pertini e c. sono stato presidenti della Repubblica. Mai era stato deciso dal Coni di rendere omaggio ad un ex capo del governo. Ma perché Malagò ha preso questa decisione, che non convince tutti? “Lo riteniamo doveroso nei confronti di una figura che, al di là della sua formidabile carriera politica e a prescindere dai colori di partito, ha avuto grande merito nel difendere per un lunghissimo periodo l’autonomia del mondo dello sport”.
Per la verità, quasi tutti i premier, almeno a parole, hanno sempre garantito piena autonomia allo sport. Poi, nei fatti… Malagò
ha aggiunto inoltre: ”Ricordiamo che Andreotti è stato il presidente del Comitato organizzatore di Roma ’60 ed è stato sottosegretario fino all’accordo per portare le Olimpiadi a Roma, bisogna essergli riconoscenti”. Insomma, una motivazione “sportiva”. Che non è piaciuta a tutti. E che rischia di innescare polemiche da evitare soprattutto in questi momenti.
We offer a revealing report and interview with ‘Uncle Giulio’, one of Italy’s most senior statesmen, as he faces the possibility of 20 years in prison. Elected seven times as Italy’s Prime Minister, Andreotti is determined to know ‘who’s behind these slanders’.
He has called on the former UN Secretary General Javier Perez de Cuellar to testify to his good character. With him, fifty years of Italian political life stands accused in the dock. Mafia defectors, the ‘pentiti’, have even broken vows of silence to give damning evidence against him. Children, with murdered parents, and people, with destroyed businesses, are now at last prepared to tell their stories of suffering under his mobster regime.
È morto oggi a 94 anni uno dei protagonisti della storia politica italiana. Dalla Costituente alla nomina a senatore a vita, lascia un archivio da 3.500 faldoni
di MATTEO TONELLI
Giulio Andreotti (agf)
“COSA vorrei sulla mia epigrafe? Data di nascita, data di morte. Punto. Le parole sono epigrafi tutte uguali. A leggerle uno si chiede: ma se sono tutti buoni, dov’è il cimitero dei cattivi?”. Giulio Andreotti rispondeva così, non molto tempo fa, a chi gli chiedeva come avrebbe voluto essere ricordato. Ironia, basso profilo, cinismo, machiavellismo. Ma anche senso dello Stato.
L’uomo dei segreti e dei misteri della Prima Repubblica. “Belzebù”, l’ormai famigerato bacio di Totò Riina, il sequestro Moro, tanto per citarne solo alcuni. Parlare di Giulio Andreotti, insomma, è parlare dell’Italia. Di uno che è passato attraverso due guerre mondiali, sette papi, monarchia, fascismo, prima e seconda Repubblica e sei processi per mafia. E’ tracciare il profilo di chi ha attraversato, segnandola, la storia (e i misteri) del nostro Paese. E lo ha fatto con quell’apparente aria di distacco e disincanto che nascondeva una cinica determinazione, resa più “leggera” da quel “motteggiare” che Andreotti aveva elevato ad arte. “Il potere logora chi non ce l’ha”. “A pensare male si fa peccato ma spesso si indovina”. “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Sapendo che, per lui, “tirare a campare” era tutt’altro che lasciarsi trasportare dagli eventi. Semmai guidarli discretamente. Meglio se da dietro le quinte.
Non è facile raccontare uno dei protagonisti dell’Assemblea costituente, sette volte presidente del Consiglio, otto volte ministro della Difesa, cinque volte ministro degli esteri, e delle Finanze e del bilancio, del Tesoro e degli interni. C’è la firma di Andreotti sul trattato di Maastricht, sulla legalizzazione dell’aborto, sulla nazionalizzazione del Totocalcio. La sua mano sulla decisione di adottare l’inno di Mameli come inno d’Italia.
Si cominci col dire allora che Giulio Andreotti nasce a Roma il 14 gennaio 1919. Lo stesso anno del fascismo e del Ppi di Don Sturzo. “Di tutti e tre sono rimasto solo io” ironizzava non molto tempo fa. Comincia a occuparsi di politica da subito. Conosce De Gasperi e ne diventa segretario. Una frase di Indro Montanelli che fotografa il loro rapporto: “Quando andavano in chiesa insieme, De Gasperi parlava con Dio, Andreotti col prete”. A 28 anni è già sottosegretario alla presidenza del Consiglio. L’inizio di una serie di cariche che ricoprirà in tutti i governi della Prima Repubblica.
Dal ’47 al ’53 è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nel 1948 viene eletto segretario della Dc. Nel 1954, diventa per la prima volta di una lunga serie, ministro degli Interni. Negli anni che seguono cambia poltrona: prima le Finanze, poi il Tesoro, la Difesa e l’Industria. Conia la strategia dei due forni: che vede la Dc al centro che, di volta in volta, avrebbe dovuto rivolgersi al “panettiere” più conveniente tra sinistra e destra.
Nel 1972 si siede sulla poltrona di presidente del Consiglio. Una permanenza brevissima, dopo soli 9 giorni il governo cade. Dopo sei anni, però, Andreotti torna a palazzo Chigi alla guida di un monocolore Dc che nasce con l’astensione dei comunisti. Sono i tempi del compromesso storico, della crisi economica e del terrorismo. Ma il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro cambia improvvisamente lo scenario. E decreta la fine della solidarietà nazionale.
Si arriva così alla fase della politica estera, l’altro suo grande territorio d’azione. Siede alla Farnesina dal 1983 al 1989: dal Medio Oriente all’Est europeo l’opera del ministro è preziosa. Sono gli anni di Bettino Craxi con cui Andreotti darà vita ad un rapporto stretto ma anche segnato da contrasti. Memorabile la battuta con cui Andreotti ironizzerà sull’affollata spedizione in Cina organizzata dal governo a guida socialista: “Stiamo partendo con Craxi e i suoi cari….”. Nasce allora il Caf (l’asse Craxi, Andreotti, Forlani) di cui farà le spese l’allora segretario democristiano Ciriaco de Mita.
Tangentopoli si avvicina. Nel 1991 Andreotti forma un nuovo esecutivo ma l’ora delle inchieste giudiziarie è scoccata. A metà degli anni ’90 viene processato da due procure: quella di Perugia e quella di Palermo. I magistrati umbri lo accusano di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, il direttore dell’Op, ucciso il 20 marzo 1979, quelli siciliani lo accusano di essere colluso con la mafia. Ma non griderà mai al complotto. Affronterà un lungo iter giudiziario, non mancando mai un’udienza.
Si arriva così hai giorni nostri. Nel 1991 Cossiga lo nomina senatore a vita. Nel 1992 punta alla presidenza della Repubblica, ma la strage di Capaci e l’assassinio del suo fedelissimo siciliano Salvo Lima, fa sfumare il piano che è anche il suo grande sogno di fine carriera. Nel 1994, allo scioglimento della Dc, aderise al Ppi di Mino Martinazzoli. Poi, nel 2001, confluisce nella Margherita.
Nel 2006 subisce l’ira del centrodestra che gli rimprovererà di aver votato, insieme agli altri 6 senatori a vita, la fiducia al governo Prodi. Un anno dopo, dopo aver annunciato voto favorevole in Senato ad una risoluzione di politica estera, cambia idea dopo aver sentito parlare l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema. Si astiene e assesta, al già fragile esecutivo Prodi, il colpo di grazia.
Politico fino alla fine, insomma. Uno della “casta” senza, però, quegli eccessi e i privilegi che tanto tentano i politici. Niente veline e feste per lui. Una sola moglie, Livia, discretissima. Quattro figli lontani dalle cronache. Alla moglie aveva promesso che si sarebbe ritirato a 60 anni: 31 anni dopo era ancora al suo posto. Di lui resta il suo archivio: 3.500 faldoni, dal 1944 in poi. E quei segreti che ha custodito fino alla fine e che si è portato con sé: “Un po’ di vita interna dello Stato la conosco, ma i segreti li tengo per me. Non farei mai un libro o un’intervista su certi episodi. La categoria del folklore politico non mi appartiene”.