Chi vuol capire che cos’è la poesia
Deve andare nella terra della poesia;
Chi vuol capire i poeti
Deve andare nella terra dei poeti.
Uno dei motivi che lo spinse a lasciare Weimar fu la necessità di nuove prospettive, di un nuovo “sguardo sul mondo” cui potersi basare per le sue opere future. Ormai sentiva di aver prevaricato le istanze dello Sturm und Drang; se non come uomo, almeno come artista. L’euforia di Jena (i suoi incontri con giovani intellettuali e poeti quali Fichte, Humboldt, Sophie Mereau, Hölderlin, Schiller…) durò solo una stagione: dal 1774 al 1775. Ma questo pur breve periodo (in cui videro la luce le Märchen di Goethe) influenzò tutti i componenti del gruppo. A Weimar Goethe era già un grande artista; anzi: il successo de I Dolori aveva fatto di lui l’unica attrazione turistica della città; tuttavia, il suo viaggio in Italia (il primo: 1786-88) fu decisivo per confermarlo – al mondo e a se stesso – “genio universale”.
Dopo un colloquio col duca Carlo Augusto (che si mostrò alquanto contrariato ma che, tuttavia, accondiscese), Goethe partì in direzione Karlsbad (Boemia) il 3 settembre 1786. Da lì poi verso il Brennero, dove arrivò l’8 settembre.
In Italia Goethe trovò nuova vitalità e nuovi impulsi per lo spirito. L’Egmont, il Tasso, L’Ifigenia e il Faust (opere i cui protagonisti sono palesemente alter ego del poeta, e che diedero inizio alla cosiddetta età classica di Weimar), devono parecchio al suo viaggio “italiano”; e soprattutto al suo soggiorno a Roma, dove lui fu ospite del pittore Tischbein.
Sul ritratto fattogli dall’amico Goethe in der Campagna di Roma, scriverà: “E’ un bel dipinto, ma troppo grande per le nostre ristrette abitazioni nordiche. Di certo tornerò a rifugiarmi lassù, e non ho nessun posto dove poter situare il quadro.” (Italiänische Reise, 29 dicembre 1786)
In Italia, il trentasettenne “Volfango” non era propriamente alla ricerca dei tesori dell’arte rinascimentale o del Barocco, ma di una specie di palliativo alla Grecia, qualcosa che gli servisse da balsamo per la sua “mid-life crisis”. Roma fu la tappa che soddisfò più di ogni altra questa sua esigenza. Oltre a frequentare Tischbein, nella caput mundi Goethe divenne amico dello scrittore K. Ph. Moritz e della pittrice (allora celebre) Angelika Kauffmann. Sul ritratto che gli fece la Kauffmann (1787-88), annotò: “Angelika mi dipinge, ma non ne esce un bel nulla. Le secca non poco che il volto ivi raffigurato non abbia alcuna somiglianza con il mio. È di sicuro è un bel personaggio, ma di me nessuna traccia”.
In Italia Goethe poté trovare la via per lo stile classico della maturità: Iphigenie, Torquato Tasso, il dramma Nausikaa (rimasto incompiuto). Ma l’opera più direttamente legata al Belpaese rimangono le Elegie romane (1788-90, pubblicate nel 1795), una serie di dialoghi immaginari con i grandi cantori dell’Amore: Tibullo, Properzio, Catullo.
Venezia, 28 settembre 1786.
Era dunque scritto sulla pagina della mia vita, nel libro del Destino, che io, la sera del 28 settembre 1786, alle ore cinque secondo i nostri orologi, viaggiando lungo il Brenta e raggiungendo le lagune, dovessi subito scorgere questa meravigliosa città insulare, e posarvi il piede per visitare la “repubblica di castori”….
…Dirò solo poche parole sul mio itinerario da Padova fin qui. Il viaggio sul Brenta, su una nave a servizio pubblico in compagnia di persone davvero a modo, è risultato comodo e piacevole: fra di loro gli italiani sono cortesi e pieni di riguardi. Le rive del fiume sono costellate di giardini e ville; si vedono piccoli villaggi che sorgono quasi sul corso d’acqua, che per lunghi tratti è rasentato da una strada molto animata.
Trento, Verona, Padova, Venezia, Bologna, Perugia… e più tardi Napoli e la Sicilia.
Nella Città Eterna il poeta giunge dopo aver dedicato alle bellezze di Firenze appena tre ore. “C’è una sola Roma al mondo, e io mi ci trovo bene come un pesce dentro l’acqua, e vi galleggio così come una palla di cannone galleggerebbe sul mercurio, mentre in qualsiasi altro liquido essa colerebbe a picco. Niente offusca l’orizzonte dei miei pensieri, fuorché il non poter condividere la mia felicità con quelli che amo. Ora il cielo è stupendamente sereno, solo al mattino e alla sera scende su Roma un po’ di nebbia. Ma sui colli, ad Albano, a Castelgandolfo, a Frascati, dove la scorsa settimana trascorsi tre giorni, l’aria è costantemente pura e limpida. Là si può studiare una natura differente.”
Un parco diventa “una vera e propria selva: alberi e sterpi, erbacce e tralci crescono a capriccio, seccano, cadono, marciscono. Il luogo antistante l’ingresso è molto bello: un’alta muraglia chiude la valle, una cancellata lascia penetrare lo sguardo e subito comincia il pendio del colle in cima a cui sorge il castello”. (Genzano, Palazzo Chigi.)
Tuffandosi nell’ambiente classico e nella rigogliosa natura del Mediterraneo, Goethe si sentì rinascere. Viaggiava sotto falso nome perché non voleva essere riconosciuto. Dopo undici anni da ministro a Weimar, la situazione politica dei luoghi che andava visitando non sembrava interessarlo minimamente. In Italia desiderava solo rilassarsi e fare qualche settimana di vacanza. Invece, vi sarebbe rimasto ben due anni! Un periodo che lo segnò profondamente: dopo il suo ritorno a Weimar, egli non fu più un uomo politico, ma uomo di lettere, filosofo, ricercatore, studioso.
“Gli stranieri sono lo specchio migliore in cui possiamo riconoscere noi stessi.”
(Lettera a Charlotte von Stein, 9 settembre 1793)
Questo “fuggiasco del Nord” arrivò a entusiasmarsi per il Palladio, eppure a Verona non pensò nemmeno di andare a visitare la tomba di Giulietta, interessandosi invece per l’Arena – autentica reliquia romana. A Venezia non ebbe quasi nulla da raccontare su San Marco e sul Palazzo dei Dogi… ma vi fece un’esperienza completamente nuova e straordinaria: per la prima volta in vita sua, vide il mare.
Il soggiorno di Goethe a Roma fu interrotto soltanto da un viaggio a Napoli e in Sicilia durato quattro mesi. Il viaggio gli servì anche per le sue osservazioni sulla natura: Goethe scalò il Vesuvio per compiervi ricerche geologiche, e in quel di Palermo visitò l’Orto Botanico, dove trovò conferma alla sua idea dell’ Ur-Pflanze, idea che gli appariva esemplare per le leggi che regolano ogni sfera dell’esistenza – dalla vita organica a quella artistica.
“Conosci il Paese dove fioriscono i limoni?”
Già nel 1770 lo scozzese Patrick Brydone si era spinto in Sicilia; J.W. vi sbarcò diciassette anni dopo: nel 1787. Per un’avventura del genere erano necessari molto coraggio e tanto spirito d’iniziativa. Non erano rare allora le incursioni piratesche alle navi che da Napoli portavano a Palermo. I luoghi di cultura erano visitati solo da una ristretta minoranza che disponeva di soldi e di tempo. Ma già a quell’epoca nel Mezzogiorno si avvertiva un risveglio, un anelito di apertura al mondo. A Palermo, Brydone si sentì interpellare in inglese (!) da alcuni giovani nobili del luogo, e nelle librerie dello stesso capoluogo siculo scoprì le opere in lingua originale di Milton, Shakespeare e Bolingbroke (una celebre personalità politica).
In un volumetto dal titolo La saggezza del vivere, Julius von Rohr impartiva 91 consigli ai viaggiatori. Ecco uno di questi consigli: “Analizza a fondo le tue intenzioni, chiediti perché vuoi metterti in viaggio. Vuoi viaggiare a scopo di istruzione o per concludere affari?…”
Pur se già al tempo di Goethe il Sud era mèta di numerosi viaggiatori, il viaggio risultava difficile e pieno di imprevisti. Le strade erano pessime, i briganti assalivano le carrozze e il costo era alto poiché c’erano dogane in ogni dove. “Per recarsi in Svizzera da Berlino, bisogna attraversare dieci Stati, studiare dieci regolamenti, pagare dieci tasse…” (Friedrich List). Naturalmente era necessario procurarsi anche la valuta locale. “Bada a portare con te delle valide mappe in modo da poter sempre controllare dove ti trovi, e, quando scopri strade o ponti non segnati sulla mappa, apporta le dovute correzioni…” “Affronta il viaggio in primavera, non in inverno: così eviti di trovare strade troppo dissestate”. (List.)
Goethe giudicò Pompei non troppo positivamente, ricavandone “un’impressione strana, quasi di fastidio”. Neanche dei templi di Paestum dice cose grandissime. Era l’aprile del 1787 quando, in compagnia del pittore Kniep, sbarcò a Palermo dal pacchetto ‘Tartaro’, proveniente da Napoli. Fu un viaggio tranquillo, anche se un costante vento contrario prolungò la piccola crociera (la cui durata fu di quattro giorni) e anche se durante la traversata il poeta soffrì di mal di mare. Viaggiava sotto falsa identità: Giovanni Filippo Moeller, “commerciante di Lipsia”. Ma sembrava che tutti sapessero chi egli fosse in realtà. Pochi giorni dopo il suo arrivo, nell’albergo in cui alloggiava insieme al suo amico Kniep si presentarono due messi del vicerè, che invitarono espressamente lui e solo lui, il celebre autore del Werther, a seguirli nel Palazzo Reale. Goethe faceva parte della libera muratoria, e, poiché il vicerè Caramanico aveva ricoperto a Napoli la carica di Grande Maestro della Massoneria, volle avere a tavola al suo fianco il famoso poeta.
Calendario della seconda parte del viaggio di Goethe
29 marzo: Napoli
2 aprile – 11 maggio: Sicilia
17 maggio – 3 giugno: Napoli
8 giugno 87 – 23 aprile 88: Roma
maggio: Firenze, Milano
18 giugno: ritorno a Weimar
Nel suo diario di viaggio, l’approccio di Goethe con l’Italia è spesso affettuosamente ilare. A Napoli scrive: “I napoletani credono di possedere un pezzo di paradiso, e del settentrione hanno un concetto alquanto triste: ‘Sempre neve, case di legno, gran ignoranza, ma danari assai.’ [in italiano nel testo]” Tra le tante escursioni include Caserta, dove si reca per visitare Philipp Hackert, famoso paesaggista suo connazionale. Hackert ha la fortuna di abitare in un’ala del bel Palazzo Francavilla, sotto la diretta protezione del re e della regina.
Goethe ama la Campania, ma soprattutto ama Napoli. E’ pieno di ammirazione per questa città e per i suoi abitanti. “Ich finde in diesem Volk die lebhafteste und geistreichste Industrie, nicht um reich zu werden, sondern um sorgenfrei zu leben.” E: “Anche a me qui sembra di essere un altro. Dunque le cose sono due: o ero pazzo prima di giungere qui, oppure lo sono adesso.”
Insieme alla dettagliata descrizione delle sue esperienze di viaggio, delle sue passeggiate e dei vari pranzi in compagnia di nobili e di artisti (un po’ troppo vita mondana per uno che voleva conservare l’anonimato!), trova il tempo di lavorare ai suoi progetti di scrittura.
“Il Principe [di Waldeck] mi aveva già chiesto, nel nostro primo incontro, di che cosa io mi occupi in questo momento. L’ ‘Iphigenia’ mi era così impressa nella memoria che una sera potei parlargliene con ricchezza di dettagli. Mi ascoltarono; io però credetti di notare che da me si aspettavano qualcosa di più vitale, di più sfrenato.” (Napoli, 1 marzo.)
Lo stesso Principe di Waldeck gli promette che attenderà il suo ritorno dalla Sicilia per intraprendere una sortita insieme a lui in Dalmazia e in Grecia. Goethe rifiuta cortesemente, anche se in fondo l’idea non gli dispiace. “Ecco a che punto un viaggiatore può estranearsi da se stesso, o addirittura arrivare ad impazzire.”
“Ein unnütz Leben ist ein früher Tod”
(“Una vita inutile equivale a una precoce morte.” Ifigenia in Tauride).
Goethe lavora all’Ifigenia, ma anche al Tasso (in cui descrive, in forma letteraria, la sua relazione con Charlotte von Stein). E’ il manoscritto di quest’ultima opera che egli porta con sé sul ‘Tartaro’, la nave che lo conduce a Palermo. Nel capoluogo siciliano si meraviglia della sporcizia che riempie i corsi principali, ma sa anche cogliere l’umoristica rassegnazione degli stessi palermitani (che dimostravano benissimo di conoscere la corruzione dell’amministrazione cittadina).
“Nel giardino pubblico vicino al porto, trascorsi tutto da solo alcune ore magnifiche. E’ il posto più stupendo del mondo.” (Palermo, 7 aprile 1787.) Molto interessante la descrizione della sua visita in casa di Giuseppe Balsamo, ovvero Cagliostro. Un personaggio allora molto conosciuto in tutta l’Europa, e noto naturalmente anche a Goethe. Nel frattempo, legge l’Odissea e traccia il piano (oggi diremmo: plot) per il suo ambizioso dramma Nausikaa. Pochi giorni dopo è a Segesta, dove cede non solo al fascino dalle antiche rovine, ma anche a quello della botanica e dei minerali che si trovano tra e attorno ai resti archeologici. Intanto il fido Kniep continua alacramente a fare schizzi e disegni: un’attività di cui Goethe, in quell’èra pre-Polaroid, sa riconoscere la grande utilità. (Lo stesso poeta, quando tornò a Weimar, aveva con sé più di mille tavole di disegni.)
Girgenti (Agrigento), con i suoi templi greci, lo fa sentire come a casa sua. Infatti è la Grecia, con la sua impareggiabile architettura e la sua suggestiva mitologia, a rimanere pur sempre l’ideale più alto della “classicità”.
In Poesia e verità, il poeta annoterà, alla data 26 marzo 1813: “Eppure, proprio i più arditi [semidei] di quella schiatta erano i miei Santi: Tantalo, Ixion, Sisifo. Accolti nella cerchia degli dèi, non vollero subordinarsi del tutto, e, poiché erano ospiti insofferenti, si meritarono l’ira dei loro generosi protettori e il triste esilio che ne conseguì. Io li compativo, così come li compatirono gli Antichi (…) e, malgrado sullo sfondo dell’Ifigenia li avessi ritratti come i portavessilli di un’inaccettabile ribellione, è anche a loro che devo la fortunata riuscita di quel mio dramma.”
Così scrive J.J. Winckelmann: “Ma in Grecia, dove i sensi e la gioia caratterizzavano la vita anche dei più giovani […], la natura si mostrava senza veli nella grande lezione impartita dagli artisti.” (Da: Werke, dove Winckelmann svaluta l'”odierno benessere borghese” che, all’opposto di quanto avveniva nel mondo ellenico, “reca danno alla libertà dei costumi” anziché incoraggiarla).
Caltanissetta, Catania, Taormina, Messina… Insieme a J.W. Goethe, cavalchiamo (con un barile di vino attaccato alla sella) attraverso l’intero territorio di Trinacria, rallegrandoci alla vista delle bellezze femminili dell’isola. E poi siamo nuovamente a Napoli. “E`vero, qui non si può fare qualche passo senza che ci si imbatta in individui mal vestiti, o vestiti persino solo di stracci, ma non per questo loro sono perdigiorno e fannulloni! Anzi, paradossalmente oserei dire che a Napoli il lavoro maggiore viene svolto dalle persone dei ceti bassi.”
E: “…il cosiddetto lazzarone non è meno attivo di chi appartiene a una classe agiata, e tuttavia bisogna prendere nota che qui tutti lavorano non solo per vivere, ma anche per godersi la vita; pure nella fatica vogliono essere felici.”
E Roma (take two)! “Roma è un luogo fantastico. Vi si trovano non solo manufatti di tutti i tipi ma anche persone di tutti i tipi (…) Grazie a Dio, comincio ad accettare gli altri e a imparare da loro.” Nell’arte di Roma lo attrae maggiormente die Antike, non il Rinascimento oppure il Barocco. “Antica” Goethe reputò anche la sua amante romana, che più tardi avrebbe cantato nelle Elegie con il nome “Faustina”. Secondo Auden, “Faustina” rappresentò la prima vera esperienza erotica della sua vita. Goethe era sulla soglia dei quarant’anni… A molti può sorprendere che sia arrivato così tardi a conoscere i piaceri dell’Eros, ma quell’epoca era caratterizzata da estrema sensibilità, parole alate, amori platonici e “affinità spirituali”. Era un’epoca in cui la “purezza femminile” veniva esaltata al massimo. I romanzi di Wieland, che erano pieni di lodi per l’amore libero della Grecia classica, venivano solitamente bollati come “osceni”. Regnavano sovrani i concetti di pudicizia, di “virtù”… anche se, a dire il vero, Goethe si muoveva sul confine tra rispetto delle convenzioni borghesi e sfrenatezza ribelle e… libidinosa.
Nella Cappella Sistina, colto da stanchezza, si appisolò “sul trono papale”. Senza successo tentò di fare un modello del piede umano. “Di sera mi arrampicai sulla Colonna Traiana. Da quell’altezza e con quel tramonto, il Colosseo, il vicino Campidoglio, il Palatino e la città circostante offrivano una veduta superba. Era tardi quando tornai a casa, camminando lentamente. La Piazza di Monte Cavallo, con il suo obelisco, è un posto notevole.” Sono descrizioni semplici, abbozzi, istantanee, e tuttavia Goethe riesce sempre a entrare in contatto col nostro cuore, sia quando ci spiega perché l’organo a canne è uno strumento fastidioso (”Non si accorda alla voce umana e fa troppo rumore”), sia quando ordina un calco del teschio di Raffaello (con la sua ”ben proporzionata calotta cervicale”) allo scopo di poterlo contemplare al suo ritorno in Germania.
J.W. aveva sperato che in Italia tutti i suoi desideri si avverassero, ma nel nostro Paese arrivò a capire che l’unica alternativa che gli si offriva era invece una vita (e una poesia) “di rinunce”. L’Entsagung – la rinuncia – aveva per lui lo stesso significato di “accettazione dei propri limiti” (Boyle: The Age of Renunciation). “Lo spirito non deve arrendersi al corpo! – E così, quando il barometro segna alta pressione, io riesco a lavorare più facilmente di quando segna bassa pressione; dacché so questo, quando vedo che il barometro è basso mi sforzo di oppormi all’influenza negativa…” (Eckermann, Conversazioni con Goethe, 21 aprile 1830)
A Roma, dietro consiglio di Karl Philipp Moritz, cominciò a esercitarsi negli esametri della poesia classica. Annota: “L’Egmont è in corso di svolgimento, e spero che riuscirà bene.(…) Come puoi immaginare, in testa ho cento idee nuove, e l’importante non è riflettere ma fare.”
Roma era la sua città. Sembrava che la conoscesse da sempre. Ma anche per lui giunse, purtroppo, l’ora della partenza. Tornò a Weimar nel giugno 1788. I diari e le lettere che compongono l’Italiänische Reise furono pubblicati in tre volumi, per la prima volta in forma integrale, nel 1829. Il viaggio nel Belpaese rappresentò per Goethe un “risveglio pagano”, e da questo risveglio trasse le sue conclusioni anche per la vita privata: il poeta mise “la testa a posto” (a modo suo, certo) e scelse Christiane Vulpius (1765, †1816), sorella del romanziere Ch. A. Vulpius, come compagna di vita. Dei cinque figli nati da questa relazione (il matrimonio fu nel 1806) sopravvisse solo il primogenito: August (1789, †1830).
Articolo di Peter Patti (peterpatti.geo@yahoo.com) tratto dal suo sito “Goethe”
www.eloyed.com/goethe.htm
Come si viaggiava nel Settecento
Nel Settecento, viaggiare comportava il dover sopportare vere torture fisiche. Christian Friedrich von Lüder scrisse:
“Si dice le strade tedesche siano in ottimo stato, ma non è vero. Solo alcune di esse sono veramente agibili. I passeggeri soffrono, e tremano quando la carrozza passa accanto ai burroni. Ci sono torrenti da guadare, paludi inospitali… spesso non resta che scendere e proseguire a piedi” (1780).
Federico il Grande, il “Re Fritz” prussiano, lasciò peggiorare apposta lo stato delle vie di comunicazione del suo regno: per rendere difficile l’avanzata di eventuali truppe nemiche. I suoi sudditi, soprattutto i contadini, si rallegravano di ciò. La regola era : “Tanto peggiori sono le strade, quanto più a lungo dovranno rimanere i forestieri nei nostri paraggi; e, più a lungo rimangono, più soldi devono sborsare”.
La margravia di Bayreuth descrisse così un viaggio in quell’epoca:
“Mentre discendevamo una parete a picco, una ruota della carrozza si staccò dal suo asse. Se non fosse stato per il soccorso da parte di alcuni pastori, che frenarono la diligenza aggrappandosi alle sue ruote posteriori, saremmo precipitati nel baratro”.
E Wolfgang Amadeus Mozart si lamentava col padre:
“…non si può chiudere occhio per un solo minuto. Queste carrozze ci strattonano fin dentro all’anima! E i sedili: duri come pietra! Da Wasserburg in poi, temevo che non sarei mai arrivato a Monaco di Baviera…”
Anche in Italia lo stato delle strade era pessimo. “La mattina del giorno fissato, dopo sette mesi di permanenza a Verona, caricati i bagagli necessari per una assenza non brevissima, salimmo in carrozza alla volta di Roma. Senonché, parve al Cielo che quello non fosse il giorno giusto per mettersi in viaggio, tant’è che, appena poche miglia fuori da Verona, la diligenza centrò in pieno una buca e si rovesciò disfacendosi completamente. […] A casa, il Viola era furioso non solo con il padrone della diligenza, ma con gli operai che non controllavano le strade, con i preposti che non controllavano gli operai e con i magistrati che non controllavano i preposti.” (Da: La Contessa Marianna, di Giuseppe Alù. Arnoldo Mondadori Editore, 1989.)
In Francia le cose andavano molto meglio. I grand chemins erano ben curati, accuratamente livellati col pietrisco. Ogni anno Luigi XV stanziava la somma di sei milioni di livres per la manutenzione di piste e ponti carrai. In questo modo le carrozze non si danneggiavano troppo in fretta e il commercio tra Parigi e Marsiglia fioriva. In Inghilterra la situazione era invece simile a quella tedesca. Il giramondo Arthur Young raccomandò: “Evitate le infernali piste di campagna come fossero il demonio”.
In Germania e altrove, le carrozze dovevano seguire per legge degli itinerari fissi, passando non lontano da postazioni di gendarmi: per evitare eventuali rapine. Spesso i ladri bloccavano la strada con vari ostacoli, oppure segavano a bella posta le assi della diligenza durante una sosta. Attorno ai viaggiatori giravano come corvi i borsaioli, e il postiglione pretendeva dai passeggeri la mancia, altrimenti li trattava in malo modo. Nel prezzo della “corsa” erano compresi svariati dazi, quale la tassa per i ponti; spesso però sui fiumi non c’era alcun ponte, e così dei furbi contadini costruirono enormi zattere con tavole di abete per traghettare sull’altra sponda cavalli, carrozza e viaggiatori: a pagamento, s’intende. Nelle taverne ed osterie disseminate sulla pista, giocatori molto esperti (veri bari) sfidavano i forestieri per alleggerirli di buona parte della pecunia. Molte erano le cameriere che esercitavano un secondo mestiere: quello di entraineuse, come diremmo oggi usando del tatto. Julius von Rohr consigliava: “Non dare mai confidenza alle donne non sposate che ti rivolgono la parola alle stazioni postali, soprattutto se giovani e belle, perché ti faranno poi pagare a profusione i loro servigi.”
Nel tanto decantato Sud, si recavano solitamente uomini alla ricerca di avventure galanti. Decantato Sud? Goethe era stato avvertito: “Sta’ sempre all’erta! Nei boschetti si possono nascondere briganti. Tieni il fucile a portata di mano!”
Le Alpi erano sicuramente il tratto più faticoso. “I passeggeri devono spesso scendere per consentire ai cavalli di riposarsi e, a ogni ripida salita, spingere la carrozza“ (von Lüder). Ma, una volta superate le Alpi, ecco il “Giardino Italia”! Vigneti, alberi di frutta, distese di fiori… e un cielo straordinariamente azzurro. Nei centri urbani la gente era più vivace e allegra di quella delle città nordeuropee. Le spiagge erano splendide… e vuote. Vuote, sì, in quanto bagnanti ancora non ce n’erano: saltuariamente, solo qualche italiano si “avventurava” a mare…
Articolo di Peter Patti (peterpatti.geo@yahoo.com) tratto dal suo sito “Goethe”
www.eloyed.com/goethe.htm