Anche i drammi della crisi economica e lo scontro tra politica e antipolitica fanno parte del sillabario della prima puntata di Quello che (non) ho, il viaggio nel mondo delle parole di Fabio Fazio e Roberto Saviano.
Quello che (non) ho – titolo che è un dichiarato omaggio a Fabrizio de André – è un vero e proprio reading, un raduno civile fatto di incontri, testimonianze, canzoni, monologhi. L’idea centrale del racconto poggia sulla convinzione che una parola è il veicolo per raccontare l’esperienza significativa di un’esistenza: per questo ciascuno degli ospiti porta in studio la sua parola “cara”, raccontando una storia, leggendo un brano o cantando una canzone.
Le parole sono declinate in tanti modi, dalle parole “da buttare” a quelle “depredate”, da quelle “non mantenute” a quelle “d’autore”, dalle parole “d’ordine”, che siano un auspicio per il futuro, a quelle gergali, per dirlo “in altre parole”.
Roberto Saviano ha scelto di iniziare dalla più scottante attualità: il suo monologo affronta il tema della crisi economica attraverso i drammi personali di chi, in modo trasversale, paga sulla propria pelle le conseguenza di una situazione difficile, mentre a guadagnarci sono le mafie.
Sul senso delle parole politica ed antipolitica e, ovviamente, su ciò che questo confronto rappresenta nel momento attuale, intervengono Gad Lerner e Marco Travaglio.
Quello che (non) ho è un racconto a più voci che si snoda lungo tre linee narrative: l’emotività suscitata dalle parole e dagli incontri, l’attualità dei monologhi di Roberto Saviano e la comicità di Luciana Littizzetto ospite fissa delle tre serate e degli altri artisti che si aggiungeranno a rotazione ogni sera a partire da Paolo Rossi.
Quello che (non) ho è anche un racconto musicale nel quale le canzoni sono scelte ed interpretate per la loro capacità di essere parola, memoria, dunque parte integrante di un discorso che punta a suscitare emozioni attraverso titoli che ormai sono considerati veri e propri inni di libertà e di protesta. Sarà Elisa, per tutte e tre le serate, a questo racconto in musica fatto attraverso cover di canzoni leggendarie. In questa prima puntata intervengono anche Raphael Gualazzi e i Litfiba.
Il dialogo tra Fabio Fazio e Roberto Saviano, questa volta, prendendo spunto dal titolo del programma sarà tra “quello che ho” e “quello che non ho”.
Pubblicati per la prima volta in un libro gli appunti per un album a cui il cantautore stava lavorando pochi mesi prima che morisse. Una sorta di requiem per la fine del secolo musicato da quattro autori
di GINO CASTALDO
Fabrizio De André
ROMA – Era il buio l’ultima visione di Fabrizio De André, erano gli oscuri bagliori della decadenza del secolo morente ad affascinarlo, e il suo nuovo disco avrebbe dovuto intitolarsi Notturni, un progetto di cui è rimasto poco o nulla, idee e appunti sparsi, tracce di un grande e ambizioso sogno artistico. E sarebbe riduttivo pensare che l’idea fosse dovuta solo al presagio della sua fine, all’incombenza della morte. Un Requiem, forse, un’esplorazione profonda e lacerante delle forme della notte, per descrivere un mondo in cui il buio della ragione cominciava a prendere il sopravvento sui lumi della civiltà.
Era nota l’intenzione e a confortarla c’erano testimonianze e alcuni brevi frammenti ritrovati tra i suoi fogli. Ma ora un paio di documenti inediti gettano nuova luce sul progetto. Li riporta Riccardo Bertoncelli in una nuova edizione ampliata del suo libro Belin, sei sicuro?. Il primo, il più illuminante è un foglio di appunti che appartiene a Oliviero Malaspina, il cantautore che negli ultimi tempi della vita di De André era spesso al suo fianco. L’ha scritto insieme a Faber, ragionando appunto su questa nuova visione, e riporta alcune delle idee sulle quali De André si stava arrovellando negli ultimi mesi della sua vita. Nel foglio appare una sorta di scaletta che indica la probabile scansione dell’opera. “Punto uno: Storia di Paolino Cannone”, nome ovviamente inventato ma riferito a un amico sardo scomparso, a cui forse sarebbe stata dedicata una parte del progetto, che in un altro
documento viene definito così: “Vita, miracoli, morte e ascensione di Paolino Cannone, Munchausen di Gallura, Paolino del Cannonau”. “Punto due: la cecità del potere”, e su questo punto De André indicava due riferimenti letterari, Camus e Celine. “Punto tre: morte per morte, il nichilismo e la sua spiritualità, l’uomo vocato alle estreme conseguenze del male”. “Punto quattro: Notturno come fenomeno fisico e atmosferico” e molto verosimilmente il riferimento, come indicato più in basso nel documento, sarebbe stato al De Rerum Natura di Lucrezio.
E c’è anche un ulteriore capitolo, un quinto punto intitolato semplicemente “Notturno d’amore”, seguito da un punto interrogativo. Forse un’ipotesi di riserva, visto che a quanto si sapeva Notturni doveva essere un’opera con quattro capitoli, quattro diversi pezzi musicali commissionati a diversi musicisti, ovvero Mauro Pagani, Piero Milesi, Mark Harris e probabilmente Luciano Berio. Di fronte alla diversità di questi autori lo stesso De André ebbe a dire che il problema non c’era: “perché la mia voce incolla tutto”, come spiegò a Milesi, dopo avergli consigliato di leggersi “La palude definitiva” di Giorgio Manganelli perché forse il suo pezzo avrebbe dovuto ispirarsi proprio a quel libro.
Il documento continua con altri riferimenti letterari da prendere in considerazione: la Bibbia, poi Lobo, riferito allo scrittore portoghese Antonio “Lobo” Antunes e soprattutto un nome, Cutolo, proprio lui il boss Raffaele Cutolo a cui De André aveva non troppo velatamente dedicato la sua celebre canzone Don Raffaè e col quale aveva poi avuto un scambio epistolare al punto che dal carcere Cutolo gli aveva inviato alcune sue poesie. Racconta Malaspina nel libro di Bertoncelli che lui e De André avevano isolato una frase di Cutolo sulla giustizia che forse sarebbe stata provocatoriamente posta come epigrafe dell’opera.
Da Mark Harris arriva un’altra sorpresa. Il progetto sembrava nebuloso, ancora troppo embrionale per prendere una forma definita, eppure lui ha ritrovato tra i suoi fogli una pianificazione del lavoro che aveva sottoposto a De André. Farebbe pensare che tutto sommato l’idea fosse più avanzata di quanto ritenuto fino a questo momento. Per quanto riguarda i testi c’è poco. Solo alcuni frammenti in possesso della Fondazione governata da Dori Ghezzi. Uno di questi lo trovammo all’Università di Siena, dove sono conservati tutti i documenti e dove è in corso da anni un attento lavoro di catalogazione. Era sul retro di un libro e diceva: “Notturno delle raganelle, notturno del vento, un intero raggio di sole (la raganella disidradata sul vetro inaridì/evaporò/bevve il sangue verde) Il falco gira, e gli attribuiscono infamie, e arriva l’acqua, come sempre in ritardo”. Una pallida eco di un progetto che avrebbe come di consueto segnato un punto fondamentale della storia della musica popolare italiana e più in generale della nostra cultura.
Mauro Pagani gli aveva chiesto se volesse una musica solare, positiva o qualcosa di negativo, di cupo. Fabrizio rispose: “Cupo? Altro che cupo, deve essere il Requiem di questo secolo”. In realtà l’11 gennaio del 1999 si spense la vita di De André lasciandoci un vuoto che niente e nessuno potrà mai colmare.
L’ho sentito troppo spesso per stupirmi ancora: erano solo dalla parte sbagliata. Come se si trattasse di una opinione, un accidente: come se quella scelta, di là o di qua, fosse un argomento secondario. Come se non fosse, quella scelta, fondamentale per il giudizio storico. Un dettaglio. Capita. Si è cercato di equiparare una parte e l’altra, di unire, nella stessa commemorazione, chi lottava per la libertà e chi per l’oppressione.
La Repubblica di Salò non era il primo fascismo che qualche incauto revisionista giudica positivo. La Repubblica di Salò era solo l’ultimo atto di pochi disperati di quel regime, che tentavano, al prezzo di una guerra civile, di rovesciare il tavolo della Storia. È a questi che dovremmo tributare lo stesso sentito ringraziamento che tributiamo a coloro che per la libertà, non per la dittatura, versarono il sangue? Un’ipocrita quanto inquietante conciliazione post mortem da concedere ai repubblichini solo perché oggi esiste una maggioranza in Parlamento che somiglia pericolosamente, negli uomini e nel populismo, a quel regime che essi sostenevano.
No. I partigiani erano diversi dai repubblichini. Nel giorno in cui si ricorda la liberazione di Genova, Torino e Milano dal nazifascismo ad opera dei partigiani (e dovremmo ricordarlo a certi politicanti che il 25 aprile ricordano solo gli Alleati) non possiamo sopportare che anche i membri dell’ultimo baluardo fascista siano ricordati come bravi ragazzi, cittadini valorosi, che avevano semplicemente scelto la parte sbagliata.
Alla fine, però, noi la pietasnon la neghiamo neppure a loro. Ma in quanto sentimento umano, verso chi è morto. Anche se, a giudicare dal trattamento e dal linciaggio riservato a certe persone, da Enzo Baldoni a Vittorio Arrigoni, ogni tanto verrebbe da comportarci come loro e negare anche quel sentimento a metà tra la pietà e il rispetto che spetta a tutti gli umani. Ma noi, anche in questo, siamo diversi. Perché, in fondo, noi restiamo umani. O, almeno, ci proviamo.
Mio padre aveva un sogno comune
condiviso dalla sua generazione
la mascella al cortile parlava
troppi morti lo hanno tradito
tutta gente che aveva capito.
E il bambino nel cortile sta giocando
tira sassi nel cielo e nel mare
ogni volta che colpisce una stella
chiude gli occhi e si mette a sognare
chiude gli occhi e si mette a volare.
E i cavalli a Salò sono morti di noia
a giocare col nero perdi sempre
Mussolini ha scritto anche poesie
i poeti che strade creature
ogni volta che parlano è una truffa.
Ma mio padre è un ragazzo tranquillo
la mattina legge molti giornali
è convinto di avere delle idee
e suo figlio è una nave pirata
e suo figlio è una nave pirata.
E anche adesso è rimasta una scritta nera
sopra il muro davanti casa mia
dice che il movimento vincerà
il gran capo ha la faccia serena
la cravatta intonata alla camicia.
Ma il bambino nel cortile si è fermato
si è stancato di seguire gli aquiloni
si è seduto tra i ricordi vicini i rumori lontani
guarda il muro e si guarda le mani
guarda il muro e si guarda le mani
Il Comune: «Anche la canzone, quando è di alto livello, diventa nuova letteratura e poesia popolare»
Fabrizio De Andrè
BOLOGNA – Cambio di nome per le scuole medie Dante Alighieri, che d’ora in poi saranno le «De Andrè». Il via libera è arrivato dal Comune: nell’ultima seduta, la giunta guidata dal sindaco Virginio Merola, richiesta di un parere dall’Ufficio scolastico regionale, ha dato il proprio benestare al cambio di nome voluto dall’istituto comprensivo 18, che ha stabilito con una propria delibera del 15 novembre 2011 di intitolare la scuola secondaria di primo grado statale ex Dante Alighieri (ex succursale delle Gandino), di via Asiago, nel quartiere Porto, al cantautore genovese morto l’11 gennaio 1999. Alla richiesta era già stato dato responso positivo dal Consiglio di quartiere del Porto.
LA DECISIONE DEL COMUNE – «La produzione artistica di Fabrizio De Andrè, ponendo l’attenzione verso gli esclusi e verso il senso profondo della libertà interiore, ha saputo dimostrare – argomenta la delibera del Comune – che anche la canzone, quando è opera di elevato livello, si configura come nuova letteratura e nuova poesia popolare e che, proposta ai ragazzi con l’immediatezza del linguaggio musicale, può avviarli ed accompagnarli in un percorso di appropriazione della cultura in tutte le sue forme espressive sino alle più complesse».
QUANDO CANCELLIERI DISSE DI NO – Naturalmente, le polemiche in città partono immediate. E il Comune cerca di smorzarle: «Dante Alighieri era solo un soprannome – spiega l’assessore alla Cultura, Alberto Ronchi – Noi non cambiamo nomi a vie, piazze, giardini e scuole già intitolate. Tantomeno lo faremmo nel caso del Sommo Poeta». Fatto sta che a Bologna quelle scuole erano conosciute finora come le Dante Alighieri. Tanto che, quando la scuola aveva fatto la stessa richiesta di intitolazione al commissario Anna Maria Cancellieri (che «resse» la città al tempo delle dimissioni del sindaco Delbono), lei rispose di no dicendo: «Dante è Dante. Io adoro De Andrè ma forse come modello culturale Dante è un po’ di più». Insomma, la «sfida» è sempre stata tra Dante e De Andrè.
01.05.1958 La rivolta dello scrittore alla musica di Sanremo
Quel giorno intona «Dove vola l’avvoltoio» a un corteo, anticipando di sei anni «La guerra di Piero» di De André Altre ne vennero. Lui e gli amici le chiamavano Cantacronache Ma non convinsero i discografici. Così si autoprodussero
Primo maggio 1958. Italo Calvino fa il suo esordio come «cantautore». Ma cantautore per davvero. E aveva pure la voce da baritono, finto baritono, quello da troppe sigarette. Al corteo della Cgil a Torino gli altoparlanti gracchiano la canzone Dove vola l’avvoltoio, scritta da Calvino, musicata da Sergio Liberovici. È una canzone con i partigiani buoni, o perlomeno dalla parte giusta, e i nazisti-avvoltoi cattivi. E contro la guerra. E per dire che non era, quella «canzonetta», una divagazione ludica di un già grande scrittore (aveva ormai pubblicato Il barone rampante e Il visconte dimezzato) leggete il confronto tra i versi del più grande cantautore italiano, Fabrizio De André, e quelli di Calvino.
De André, La guerra di Piero, 1964: «Lungo le sponde del mio torrente/ Voglio che scendano i lucci argentati/ Non più i cadaveri dei soldati/ Portati in braccio dalla corrente».
Calvino, Dove vola l’avvoltoio, 1958: «Nella limpida corrente/ Ora scendon carpe e trote/ Non più i corpi dei soldati/ Che la fanno insanguinar».
Era successo che un gruppo di scrittori e musicisti non ne potevano più delle canzonette che spopolavano a Sanremo, le definivano «figlie di una musica gastronomica» e avevano inventato una combriccola che si chiamava «Cantacronache». Il loro slogan era: «Evadere dall’evasione». Se l’erano inventato l’impiegato Rai Straniero, l’architetto Amodei e l’avvocato Jona. Erano giovani intellettuali torinesi, torinesi di cultura Einaudi per intenderci, che s’erano messi in testa di scrivere canzoni — come testimonia Francesco Giuffrida — in cui la realtà, i problemi grandi e piccoli di tutti i giorni, fossero il nucleo centrale della composizione, con buona pace delle mamme piangenti, dei vecchi scarponi, delle casette in Canadà, dei papaveri e papere.
A Calvino, come a Franco Fortini, l’idea piace da morire e scrive abbastanza in fretta un pugno di canzoni: Dove vola l’avvoltoio, Canzone triste, Oltre il ponte, Il padrone del mondo, Sul verde fiume Po, Turin-la nuit. Canzoni lunghe, a volte con ritornelli ossessionanti, di impegno politico, sociale, civile, dove c’è di mezzo la guerra, la pace, la Resistenza, la giustizia, l’ingiustizia, ma anche la fantasia delle favole che ti fanno tornare in mente le Fiabe italiane. Forse lo sa, o forse no, ma anche il Re degli Ignoranti, Adriano Celentano, è debitore a Calvino. La struggente favola di Celentano: Chi non lavora non fa l’amore evoca la Canzone triste di Calvino che a sua volta evoca la leggenda di Lady Hawk. «Erano sposi, lei s’alzava all’alba/ prendeva il tram, correva al suo lavoro./ Lui aveva il turno che finiva all’alba/ entrava in letto e lei ne era già fuori».
Calvino fa tutto questo per passione, non s’aspetta mai più al mondo che dall’altra parte del mondo qualcuno si accorga delle sue «canzonette». E invece…
Invece ecco che cosa succede in un caffè di New York nel 1959 dove incontra le allieve di un corso d’italiano e la loro professoressa. «Vogliono cantarmi, le ragazze — scrive Calvino in una lettera a Liberovici — una canzone italiana. Bene, dico io, già rassegnato a sentire la solita canzonetta napoletana o radiofonica in omaggio all’italiano di passaggio. Una ragazza ha una chitarra, suona, le altre cantano e cosa cantano? Eravamo in sette… in sette è l’incipit di Sul verde fiume Po… E poi tutte le strofe, una dopo l’altra… Questo per dimostrarti come Cantacronache sia popolare anche oltreoceano».
Bella soddisfazione per quell’accrocchio (molto snob ma molto sincero) di giovani intellettuali, musicisti, scrittori, salottieri abituali che si incontravano da Giulio Einaudi, da Luciano Foa, da Elsa de’ Giorgi e cantavano, senza paura di essere abbastanza stonati, le canzoni da loro scritte e musicate. Presa confidenza, il gruppo che, tra gli altri, comprendeva Fausto Amodei, Franco Fortini, Ignazio Buttitta, Valentino Bucchi, Margherita Galante Garrone, Giovanni Arpino, Gianni Rodari, cominciò a girare per l’Italia riempiendo quelle salette da cinquanta, cento quando andava bene, posti che erano i circoli culturali, le sedi sindacali, i ritrovi ricreativi ma anche i teatri veri per portare un’emozione più forte ma meno facile di rose-fior-amor alla Nilla Pizzi e successori. Per Calvino l’esperienza di Cantacronache fu anche una terapia. Era immalinconito perché sentiva la frustrazione di essere inutile rispetto al progetto gramsciano di cambiare la società attraverso il ruolo di scrittore. Forse con le canzoni…
Ma le prime esperienze discografiche non furono un grande successo. Ricordano Giovanni Straniero e Carlo Rovello nel libro Cantacronache, i cinquant’anni della canzone ribelle (Zona editore) che dopo la delusione di un «grande spettacolo mancato in un grande teatro» il gruppo ripiegò sull’idea di fare un vero disco di vinile. E ricordano così la presunta soluzione del dilemma: «Quello spettacolo di cronaca cantata con il quale il gruppo avrebbe dovuto esibirsi, alla fine naufragò, anche per mancanza di spazi adeguati. In quegli anni non erano ancora sorti i locali di cabaret. A quel punto, Liberovici e compagni pensarono di affidare l’esecuzione delle loro prime canzoni a cantanti professionisti. A tale scopo si fecero ricevere presso la casa editrice Cetra di Torino, senza però ottenere alcun risultato. Il primo disco, intitolato Cantacronache sperimentale, fu quindi inciso con mezzi di fortuna, in un negozio di dischi. Liberovici contattò una giovane cantante, Franca di Rienzo, che si esibiva con i «Quattro del muretto di Alassio», la quale prestò la sua voce ai testi dei torinesi. Anche in questo caso il Cantacronache fece scuola. Nasceva l’idea dell’autoproduzione, che avrebbe aperto la strada alle etichette discografiche indipendenti. Un altro tentativo di lanciarsi sul mercato discografico fu esperito a Milano, dove il gruppo presentò le sue composizioni alla casa discografica Ricordi. L’esito fu ancora negativo, ma lo stesso Nanni Ricordi, sentendo quei brani, cominciò a concepire l’idea di una canzone diversa. Nonostante questi insuccessi discografici, Italo Calvino e altri letterati che gravitavano attorno all’Einaudi incoraggiarono il Cantacronache a proseguire la sua attività. L’esordio davanti a un pubblico veramente numeroso avvenne al Premio Viareggio. In quella circostanza, i membri del gruppo eseguirono personalmente le loro composizioni, riscuotendo un certo successo».
E ancora oggi, Cantacronache può rivendicare di aver inventato la figura del cantautore: «Da quel giorno, rinfrancati da quell’esperienza gli Amici Torinesi decisero che avrebbero cantato da soli le loro canzoni, non avendo trovato cantanti professionisti disposti a farlo».
In realtà i cantanti che amano portare in giro le parole di Calvino ci sono ancora oggi. I Modena City Ramblers, un gruppo che piace non soltanto ai vecchi rimbambiti ma anche ai giovani svegli, ancora adesso cantano Oltre il ponte, di Calvino, naturalmente. E Grazia Di Michele, che ha partecipato per tre volte al Festival di Sanremo, dice: «Quando con Maria Rosaria Omaggio abbiamo inventato lo spettacolo Chiamalavita per l’Unicef, che aveva il senso di far qualche cosa per i bambini più sfortunati del mondo, ci è venuto in mente Calvino con e per le sue canzoni. Le abbiamo cantate e alla fine molti ci hanno chiesto: ma davvero quei testi erano di Calvino? E chi poneva questa domanda era anche chi conosceva i libri di Calvino. Immaginate quanto sarebbe contento lui, adesso, a sapere quanto siano ancora emozionanti le sue “canzonette”».
L’Idea del comitato punta a raccogliere 20.000 firme e altrettanti contributi di 10 euro per mettere in piedi il progetto. Brassens morto nel 1981, è stato un cantautore, un poeta, uno scrittore e un attore francese
Una statua popolare per rendere omaggio a un cantante che ha fatto la storia della Francia e della canzone francese e per farlo chiedere 10 euro a 20.000 cittadini. È questa l’idea del comitato “Une statue pour Georges Brassens”, che nato dall’iniziativa di qualche fan, sta cercando di mobilitare soldi e persone alla causa. “Le statue non celebrano mai i miti popolari”, è la denuncia del comitato, che partendo da internet, il mezzo democratico per eccellenza, vuole fare una rivoluzione anche nel mondo della rappresentazione pubblica. Uomini di stato, politici, militari, pensatori: questi i protagonisti storici delle nostre piazze, mentre a Parigi, come dicono i promotori della campagna, raramente si trova una statua dedicata ad un mito popolare, ad un mito che riguarda la gente e non solo le istituzioni.
Dumas, Parmentier, La Fontaine sono i soli esempi di personaggi vicini al contesto popolare che si possono trovare per le vie, immortalati in qualche strada. Per il resto è tutto un Napoleoneo Charles De Gaulle. “È triste”, affermano i promotori, “che per ricordare i personaggi che hanno segnato la nostra società, sia rimasto solo “google image” o qualche foto su internet. Se la cultura ufficiale ha trasformato tutto in un ricordo pomposo, è ora di riprenderci quella cultura.” È così che comincia il manifesto di una battaglia perché il mito Brassens, il cantautore conosciuto in Italia anche grazie a Fabrizio De André, che ne tradusse alcune canzoni come ad esempio “Attenti al Gorilla” o “Morire per delle idee”, possa avere anche lui una statua nel centro parigino sotto cui potersi ritrovare. Un’idea per riprendersi lo spazio pubblico, quello di parchi e giardini e per farlo ricordando un pezzo importante della cultura popolare francese.
Georges Brassens morto nel 1981, è stato un cantautore, un poeta, uno scrittore e un attore francese. Dopo il debutto nel famoso teatro parigino “Olympia”, la sua carriera lo portò in giro per il mondo, anche se la sua storia rimane legata alla casa dell’Impasse Florimont. “La mauvaise réputation” (1953), “Le pornographe” (1958), “Les copains d’abord” (1964), solo alcuni dei dischi che fanno la storia di Brassens.
“Una statua in strada, nelle piazze”, continua il manifesto, “è quanto di più popolare possa esistere. Totalmente diverso dai quadri nelle sale dei musei o dalle esposizioni private.”E allora ecco la sfida: trovare 20.000 sottoscrittori e amici di Brassens che possano donare 10 euro ciascuno per poter avere finalmente una statua dedicata al cantante, alla sua celebre pipa e sedia su cui era solito appoggiare il piede mentre cantava. “Non vogliamo” hanno continuato i fan, “istituzionalizzare l’immagine di Brassens, ma al contrario vogliamo far sì che le generazioni successive possano ricordarlo in tutta la semplicità che lo ha contraddistinto”. Il progetto da finanziare è stato sottoposto al nipote del cantautore, Serge Cazzani, che lo ha subito approvato. Lo scultore scelto è Thierry Delorme, artista originario di Ginevra. L’associazione dal nome “Une statue pour Brassens” ha uno statuto giuridico ed attraverso il sito internet si propone di raccogliere le donazioni del popolo e della gente comune e la soglia di 10 euro serve proprio per indicare il carattere democratico dell’idea. “All’inizio”, hanno concluso gli organizzatori, “eravamo molto fermi sulla questione donazioni: volevamo assolutamente che non ci fossero grandi sponsor o somme di denaro di privati che si impossessassero del nostro progetto. Negli ultimi giorni però, a causa delle numerose richieste abbiamo deciso di aprire anche a qualche donazione superiore, ma che provenga sempre dai cittadini che ci vengono a cercare su internet e non da sponsor o grandi istituzioni”.
La chiamavano bocca di rosa
metteva l’amore, metteva l’amore,
la chiamavano bocca di rosa
metteva l’amore sopra ogni cosa.
Appena scese alla stazione
nel paesino di Sant’Ilario
tutti si accorsero con uno sguardo
che non si trattava di un missionario.
C’è chi l’amore lo fa per noia
chi se lo sceglie per professione
bocca di rosa né l’uno né l’altro
lei lo faceva per passione.
Ma la passione spesso conduce
a soddisfare le proprie voglie
senza indagare se il concupito
ha il cuore libero oppure ha moglie.
E fu così che da un giorno all’altro
bocca di rosa si tirò addosso
l’ira funesta delle cagnette
a cui aveva sottratto l’osso.
Ma le comari di un paesino
non brillano certo in iniziativa
le contromisure fino a quel punto
si limitavano all’invettiva.
Si sa che la gente dà buoni consigli
sentendosi come Gesù nel tempio,
si sa che la gente dà buoni consigli
se non può più dare cattivo esempio.
Così una vecchia mai stata moglie
senza mai figli, senza più voglie,
si prese la briga e di certo il gusto
di dare a tutte il consiglio giusto.
E rivolgendosi alle cornute
le apostrofò con parole argute:
“il furto d’amore sarà punito-
disse- dall’ordine costituito”.
E quelle andarono dal commissario
e dissero senza parafrasare:
“quella schifosa ha già troppi clienti
più di un consorzio alimentare”.
E arrivarono quattro gendarmi
con i pennacchi con i pennacchi
e arrivarono quattro gendarmi
con i pennacchi e con le armi.
Il cuore tenero non è una dote
di cui sian colmi i carabinieri
ma quella volta a prendere il treno
l’accompagnarono malvolentieri.
Alla stazione c’erano tutti
dal commissario al sagrestano
alla stazione c’erano tutti
con gli occhi rossi e il cappello in mano,
a salutare chi per un poco
senza pretese, senza pretese,
a salutare chi per un poco
portò l’amore nel paese.
C’era un cartello giallo
con una scritta nera
diceva “Addio bocca di rosa
con te se ne parte la primavera”.
Ma una notizia un po’ originale
non ha bisogno di alcun giornale
come una freccia dall’arco scocca
vola veloce di bocca in bocca.
E alla stazione successiva
molta più gente di quando partiva
chi mandò un bacio, chi gettò un fiore
chi si prenota per due ore.
Persino il parroco che non disprezza
fra un miserere e un’estrema unzione
il bene effimero della bellezza
la vuole accanto in processione.
E con la Vergine in prima fila
e bocca di rosa poco lontano
si porta a spasso per il paese
l’amore sacro e l’amor profano.
Boca de rosa
La llamaban Boca de rosa
ponía el amor, ponía el amor,
la llamaban Boca de rosa
ponía el amor sobre cada cosa.
Nada más bajar en la estación
en el pueblecito de Sant’Ilario
todos se dieron cuenta con una mirada
de que no se trataba de un misionero.
Hay quien el amor lo hace por aburrimiento
quien se lo elige por profesión
Boca de rosa ni una cosa ni la otra
ella lo hacía por pasión.
Pero la pasión a menudo conduce
a satisfacer las propias ganas
sin indagar si el deseado
tiene el corazón libre o tiene esposa.
Y fue así que de un día para otro
Boca de rosa se echó encima
la ira funesta de las perritas
a las que había sustraído el hueso.
Pero las comadres de un pueblecito
no brillan desde luego por iniciativa
las contramedidas hasta ese punto
se limitaban a la invectiva.
Se sabe que la gente da buenos consejos
sintiéndose como Jesús en el templo,
se sabe que la gente da buenos consejos
si ya no puede dar mal ejemplo.
Así una vieja que nunca había sido esposa
sin hijos jamás, sin más ganas de nada,
se tomó la molestia y de seguro el gusto
de dar a todas el consejo justo.
Y dirigiéndose a las cornudas
las apostrofó con palabras ingeniosas
“el hurto de amor será castigado
-diijo- por el orden constituido”.
Y aquéllas fueron al comisario
y dijeron sin parafrasear:
“Esa asquerosa tiene ya demasiados clientes
más que un consorcio alimentar”.
Y llegaron cuatro gendarmes
con los penachos, con los penachos,
y llegaron cuatro gendarmes
con los penachos y con las armas.
El corazón tierno no es una dote
de la cual estén colmados los guardias civiles
pero esa vez a coger el tren
la acompañaron de mala gana. [*]
En la estación estaban todos
desde el comisario hasta el sacristán
en la estación estaban todos
con los ojos rojos y el sombrero en la mano,
para despedir a quien por un poco
sin pretensiones, sin pretensiones,
para despedir a quien por un poco
trajo el amor al pueblo.
Había un cartel amarillo
con un escrito en negro
decía: “Adiós Boca de rosa,
contigo se va la primavera”.
Pero una noticia un poco original
no necesita de ningún periódico
como una flecha del arco se dispara
vuela veloz de boca en boca.
Y en la estación siguiente
mucha más gente que cuando se fue
quien manda un beso, quien tira una flor,
quien reserva para dos horas.
Incluso el párroco que no desprecia
entre un miserere y una extremaunción
el bien efímero de la belleza
la quiere al lado en procesión.
Y con la Virgen en primera fila
y Boca de rosa no muy lejos
se lleva de paseo por el pueblo
el amor sagrado y el amor profano.