Il maggior numero di certificazioni dop, igp, stg, la maggioranza di aziende agricole bio, l’agricoltura con minor impatto ambientale. Inoltre l’Italia è al primo posto in Europa nella creazione di valore aggiunto per ettaro e nella sicurezza alimentare. A 100 giorni da Expo i numeri che fanno grande il nostro agroalimentare
“Dal maggior numero di certificazioni alimentari a livello comunitario alla leadership nel numero di imprese che coltivanobiologico, ma anche il primato nella creazione di valore aggiunto per ettaro e quello nella sicurezza alimentare mondiale con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici fuori norma, senza dimenticare il fatto che l’agricoltura italiana è tra le più sostenibilidal punto di vista ambientale per la ridotta emissione di gas ad effetto serra”.
Il bilancio dei primati conquistati dal made in Italy agroalimentare a 100 giorni dall’apertura dell’Expo è tracciato da Coldiretti che si riferisce al modello produttivo dell’agricoltura italiana come campione nella produzione di valore aggiunto per ettaro. Infatti questo – sottolinea la Coldiretti – “è più del doppio della media europea dei 27 Paesi, iltriplo del Regno Unito, il doppio di Spagna e Germania, e il 70% in più dei cugini francesi. Non solo siamo i primi anche in termini di occupazione, con 7,3 addetti ogni cento ettari a fronte di una media Ue di 6,6″.
L’Italia è “al vertice della sicurezza alimentare mondiale con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici (0,2%), quota inferiore di quasi 10 volte rispetto alla media europea (1,9%) e non è quindi un caso il fatto che con 43.852 imprese biologiche (il 17% di quelle europee) siamo i campioni europei del settore. L’agricoltura italiana – sostiene la Coldiretti – è peraltro tra le più sostenibili con 814 tonnellate per ogni milione di euro prodotto dal settore, non solo l’agricoltura italiana emette il 35% di gas serra in meno della media Ue, ma fa decisamente meglio di Spagna (il 12% in meno), Francia (35%), Germania (39%) e Regno Unito (il 58% di gas serra in meno)”.
Infine siamo “il Paese più forte al mondo per prodotti ‘distintivi’ , con 268 prodotti Dop e Igp e 4.813 specialità tradizionali regionali, seguita a distanza da Francia, 207, e Spagna, 162. Nel settore vinoinoltre l’Italia conta su ben 332 Doc, 73 Docg e 118 Igt”.
Gli imprenditori agricoli italiani, “con il loro lavoro hanno costruito unaagricoltura di straordinaria qualità, con caratteri distintivi unici, con una varietà e un’articolazione che non ha uguali al mondo- afferma il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo – questo modello produttivo replicabile in ogni parte del pianeta è il contributo per uno sviluppo sostenibile che l’Italia deve sapere offrire all’Expo”.
Agli americani il controllo della società del bianco di Fabriano con un investimento di 758 milioni di euro e un premio del 5% sui valori di Borsa degli ultimi sei mesi. Si allunga l’elenco delle imprese made in Italy che lasciano il paese
di GIULIANO BALESTRERI
MILANO – Indesit allunga l’elenco, ormai senza fine, delle imprese made in Italy che lasciano il paese. L’annuncio è arrivato questa mattina, prima dell’apertura dei mercati: il controllo della società del bianco di Fabriano passa dalla famiglia Merloni a Whirlpool. Il gruppo americano rileva il 66,8% delle azioni con diritto di voto, corrispondenti al 60,4% del capitale con un investimento di 758 milioni di euro e un premio del 5% sui valori di Borsa degli ultimi sei mesi. Whirpool lancerà poi un’Opa sulle rimanenti azioni Indesit.
è stato l’ultimo pochi mesi fa, ma prima era toccato a Krizia, Loro Piana e perfino Poltona Frau passata da Luca Cordero di Montezemolo – che ambiva a un ruolo di ambasciatore del made in Italy all’estero – agli americani di Haworth. Continue dimostrazioni dell’incapacità del paese di fare sistema, di portare avanti una qualunque politica industriale che favorisca la creazione di campioni nazionali o anche solo di distretti capaci di crescere e competere a livello internazionale. L’Italia resta così condannata al nanismo industriale, perfino alla presenza di eccellenze che il mondo invidia.
Per completare l’operazione di oggi, in attesa dei via libera di antitrust e del tribunale di Ancona, Whirlpool ha contemporaneamente sottoscritto accordi di compravendita di azioni con la holding della famiglia Merloni Fineldo per una partecipazione pari al 42,7% del capitale di Indesit, con alcuni membri della famiglia per una partecipazione pari al 13,2% del capitale e con Claudia Merloni per una quota del 4,4%. “L’accordo ha l’obiettivo di dotare Indesit di tutti gli strumenti per costruire un futuro solido e sostenibile – ha affermato Gian Oddone Merli, amministratore delegato di Fineldo – Whirlpool ha dimostrato di essere il partner giusto con benefici molteplici, non ultimo la possibilità di permettere al proprio know-how e ai propri prodotti di raggiungere una scala davvero globale”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Jeff Fetting, numero uno del gruppo americano: “Ci aspettiamo che questa opportunità posizioni il nostro business europeo su un percorso di crescita e di continua creazione di valore. Whirlpool valuta i progetti di acquisizione basandosi su complementarietà strategica, creazione di valore per gli azionisti, e un elevato livello di fiducia nella propria capacità di portare a termine l’operazione”.
Le reazioni. Preoccupati per il passaggio di mano i sindacati, a cominciare dalla Fim Cisl di Fabriano che per voce di Andrea Cocco chiede “al ministero dello Sviluppo economico un incontro urgente” sottolineando che “l’accordo sindacale dello scorso dicembre con Indesit è oggi l’unico elemento di continuità industriale e lavorativa. Senza quell’accordo sul piano da 83 milioni di investimenti negli impianti italiani di Indesit e una serie di ammortizzatori sociali, oggi che l’azienda cambia di proprietà non avremo nulla in mano”. Condivide la posizione Gianluca Ficco, responsabile nazionale
elettrodomestici della Uilm Uil: “Il piano industriale deve essere portato avanti, l’accordo firmato nel dicembre 2013 è pienamente valido, indipendentemente dalla proprietà di Indesit Company”. Fiom, invece, teme un rischio sovrapposizione delle attività.
Il celebre prodotto della Ferrero di Alba è tra i simboli del Made in Italy. Tra i consumatori, nella classifica mondiale il primo posto se lo aggiudica la Germania, seguito dalla Francia e poi dall’Italia. Per festeggiare mezzo secolo anche un francobollo speciale delle Poste
di LUDOVICA AMOROSO
ROMA – Se decidessimo di mettere in fila tutti i vasetti di Nutella prodotti in un solo anno, raggiungeremmo una lunghezza pari ad 1,7 volte la circonferenza della Terra. La storia della Nutella inizia cinquant’anni fa, nel 1964, quando dalla celebre fabbrica di Alba uscì la prima confezione di questa eccellenza tutta italiana. L’intuizione di Michele Ferrero fu quella di cambiare nome alla “Supercrema” prodotta nel dopoguerra da suo padre – un pasticcere – che utilizzò le nocciole come pragmatica risposta alla carenza di cacao e di zucchero. E ne migliorò la formula, a tal punto da farla diventare la più famosa crema spalmabile alle nocciole e cacao venduta al mondo.
Oggi, grazie all’impegno di 30 mila collaboratori negli undici stabilimenti produttivi di Nutella, circa 110 milioni di famiglie nel mondo ne fanno uso ogni anno, dando vita ad un fatturato di 8.1 miliardi di euro. Per i suoi 50 anni, Ferrero ha dato il via ad un programma di festeggiamenti che si svolgerà durante l’arco di tutto l’anno, coinvolgendo 50 paesi al mondo. Un caleidoscopio di eventi (il cui culmine si concentrerà il 17 e il 18 maggio), presentati questa mattina a Roma, in una conferenza stampa che ha ospitato gli interventi del Ministro per lo Sviluppo Economico Federica Guidi, del Presidente di Sezione del Consiglio di Stato Antonio Catricalà, del Presidente di Poste Italiane Luisa Todini,
e naturalmente del Presidente della Ferrero Spa, Francesco Paolo Fulci. Con l’aggiunta di un ulteriore riconoscimento di prestigio per una grande storia di successo Made in Italy. La presentazione ufficiale di un francobollo celebrativo, realizzato da Poste Italiane per questo speciale anniversario di Nutella.
“Dalla Russia al Canada, Dal Medio Oriente alla Cina, dagli Stati Uniti all’Australia: la Nutella ha varcato frontiera su frontiera, diventando un’icona e un punto di riferimento in un mondo sempre più tormentato”, ha dichiarato Francesco Paolo Fulci. Un brand del made in Italy “che non smette di crescere, uno dei pochi prodotti al mondo che, dalla sua nascita, porta con sè il segreto della longevità, rimasta costante nel tempo”.
Sono 350 mila le tonnellate di Nutella che vengono prodotte ogni anno, secondo i dati riportati nell’ultimo rapporto Ocse, che ha definito il prodotto come primo esempio della catena del valore mondiale nel contesto agroalimentare, perché la sua filiera tocca proprio tutti i continenti. Quali sono i maggiori consumatori? Nella classifica mondiale il primo posto se lo aggiudica la Germania, seguito dalla Francia e poi dall’Italia. Solo nel nostro Paese l’83% delle famiglie ogni anno acquistano Nutella almeno una volta, con una media di consumo pro capite pari ad un chilogrammo. E la Campania è la regione italiana che ne consuma di più. “Credo che Nutella abbia contribuito a celebrare moltissimi compleanni in giro per il mondo”, ha ironizzato il Ministro per lo Sviluppo Economico Federica Guidi, sottolineando come il prodotto in questione sia l’emblema della genialità dell’imprenditoria italiana. “Perciò oggi tocca a noi celebrare quello di Nutella”.
Decidere di realizzare un francobollo, poi, “è un valore per il nostro Paese”, ha dichiarato il Presidente di Poste Italiane, Luisa Todini, ringraziando Antonio Catricalà che ha avuto il merito di proporre questa iniziativa, indirizzata ad un pubblico in crescita: un milione e mezzo i filatelici in Italia, 200 milioni nel mondo. “Una proposta che ha visto sin da subito l’unanimità della Consulta, perché il marchio è considerato un’icona nazionale”, ha sottolineato Antonio Catricalà. E alla domanda: “C’è mai stato un progetto di quotazione in borsa?” Il Presidente Fulci ha risposto: “Uno dei motivi per cui Ferrero ha sempre rifuggito da operazioni finanziarie in grande stile è il bisogno di utile e la pressione costante imposta dagli azionisti. Se, invece, si vogliono realizzare grandi prodotti, c’è bisogno di tempo, di pazienza, e di buona volontà”.
Per il vino italiano l’occasione è d’oro: far brindare Asia, Russia e Sudamerica con noi
di Mara Accettura
I cinesi lo vogliono rosso (bianco è il colore del lutto) e lo bevono soprattutto negli hotel di lusso, per questioni di business. I russi preferiscono farsi un bicchiere a casa, possibilmente dolce e con le bollicine. I brasiliani distinguono a malapena un sidro da un prosecco. E gli indiani, che possono bere solo a partire dai 25 anni, prediligono quello fruttato, sempre prima dei pasti.
Ognuno a modo suo. Oggi le importazioni italiane in questi Paesi costituiscono il 4% del totale (5 miliardi di euro). Quisquilie. Ma una cosa è certa: i BRIC hanno sete. In Cina l’amore per il vino sta crescendo a un ritmo tale che nel 2016 quel Paese sarà il più grosso consumatore mondiale (oggi è il quinto). E Hong Kong è diventato il mercato di aste di qualità più importante, superando Londra e New York. «È passato anche il tempo in cui il vino più popolare che trovavi nei ristoranti di lusso – l’unico italiano – era il Pinot grigio… toscano. Allora lo allungavano con i cubetti di ghiaccio, cosa che all’inizio facevano pure i riccaccioni americani della West Coast», dice Ian D’Agata, enologo e nuovo consulente scientifico di Vinitaly International. «Ora i clienti guardano le etichette, discernono, si stanno costruendo una cultura, trainata anche dalla cucina».
Le cifre sono impressionanti. Nel 2000 i cinesi bevevano 10 milioni e 700mila ettolitri di vino, nel 2012 sono diventati 17.817.000 (+67%): su una popolazione di un miliardo e 300 milioni è più di un litro a testa. In particolare negli ultimi 5 anni il consumo di vino rosso è triplicato. Nel 2013 i cinesi hanno stappato 1860 milioni di bottiglie, superando i 1800 milioni della Francia e i 1700 dell’Italia, un record mondiale. «Ci sono 32 città con più di un milione di abitanti», continua D’Agata. «Solo Shangai ne ha 24 milioni. Con certi numeri è ovvio che chi vuole continuare a vinificare non può prescindere da questo super power». E deve anche farlo in fretta perché la concorrenza è spietata. In prima battuta i francesi (46% dell’importato) e poi australiani, spagnoli, cileni. In confronto noi siamo dei nani: il 6% e anche in leggero calo.
«No, non abbiamo vita facile», spiega Stevie Kim, coreana-americana, manager director di Vinitaly International. «Primo, perché il vino italiano è complicato. I francesi hanno 5 vitigni, in Italia ce ne sono 500. Immaginate lo sforzo per far capire la differenza tra un Chianti e un Chianti classico a uno che a malapena sa dov’è la Toscana». La biodiversità è speculare al nostro carattere: «Siete un popolo creativo e originale ma ingestibile. Guardate i francesi: vero, il loro vino è penetrato in Cina già dagli anni 80, grazie anche agli inglesi che avevano Hong Kong. Ma i francesi si sono mossi all’unisono, creando joint venture con i produttori locali. Gli italiani no, sono divisi in mille consorzi e associazioni. Troppo individualisti. Impossibile creare una strategia comune». Vinitaly sta cercando di battere nuove strade tra cui l’e-commerce, anche se per il momento Vinitaly Wine club vende solo in Europa.
Diversa la situazione in Russia, che è passata da 4.700.000 ettolitri ai 10.394.000 nel 2012. Lì, con la nostra fetta del 29% dell’importato, siamo leader indiscussi in termini di valore (fonte WineMonitor). Ci vengono dietro Francia (23%) e Spagna (9%). «L’esplosione c’è stata negli ultimi dieci anni, quando la nuova middle class ha iniziato a viaggiare di più ed è diventata più avventurosa nei gusti», dice Eleonora Scholes, editore del magazine online russo Spazio Vino. «I russi sono big spender e amano ostentare. Per loro bersi una bottiglia di vino con l’etichetta italiana è un po’ come comprarsi Gucci e Prada: un pezzo di lifestyle». E non scelgono nemmeno male. «A parte lo stereotipo del vino dolce e un debole per Asti Spumante (abbiamo una quota del 63% in bollicine), i russi scelgono dal Chianti al Valpolicella al Lambrusco e amano anche i cosiddetti “premium” come Brunello, Amarone, Barolo e Barbaresco».
Ma far conoscere il vino è diventato complicato, non solo perché scarseggiano gli importatori, la burocrazia è soffocante, e tasse e margini di guadagno della grande distribuzione piuttosto alti (una bottiglia che da noi costa sugli 8 euro, qui in un supermercato arriva a 25). «Dal primo gennaio di quest’anno Putin ha vietato la pubblicità di alcol, persino di articoli di giornale che parlano di alcolici. Non è più possibile neanche informare», dice Scholes. «Quindi il vino il consumatore se lo deve andare a cercare da solo».
Il Brasile, 200 milioni di persone, notoriamente beve di preferenza birra e il consumo pro capite di vino (soprattutto frizzante) è al momento di mezzo litro a testa, soprattutto importato.
«La classe media sta crescendo e stime ottimiste dicono che nei prossimi dieci anni si arriverà a 6 litri», dice Dirceu Vianna, wine director di Coe Vintners. Grazie all’immigrazione (San Paolo ha la più grande comunità di italiani nel mondo) l’Italia – come il Portogallo – non se la cava male: il 12% dell’import. «Ma deve vedersela», continua Vianna, «con Cile e Argentina che godono degli accordi privilegiati Mercosul» (cioè il mercato comune sudamericano).
In ultimo c’è l’India, ma tra i quattro è il Paese al momento meno interessante: «Praticamente non esiste», taglia corto Stevie Kim. Il mercato dei bevitori è minuscolo, un’élite, anche se ammonta pur sempre a 24 milioni di persone. «È un mercato a lungo termine», dice Subhash Arora, presidente del Delhi Wine Club e dell’Indian Wine Academy. «Attualmente gli indiani bevono 22-25mila ettolitri all’anno di cui 2.790 importati, ma ci aspettiamo un incremento annuale del 15-20% per l’importato e del 20-25% per il prodotto locale nei prossimi 5 anni». Lì siamo in coda a francesi e australiani. «La middle e la upper middle class, soprattutto chi viaggia e apprezza la cucina italiana ama il Barolo, il Brunello e i supertoscani, ma sono molti costosi. Dopo una promozione intensa il prosecco sta guadagnando terreno».
Gli ostacoli: troppa burocrazia, mancanza di importatori, tasse altissime, divieti religiosi e anagrafici, leggi diverse da Stato a Stato. «Arbitrarie e irrazionali», le definisce Arora. Per esempio l’articolo 47 della Costituzione scoraggia espressamente il consumo di alcolici, anche se alcuni governi locali promuovono la viticoltura. E il governo centrale preme perché tutto l’invenduto dell’anno venga restituito.
Ma perché il mercato estero del vino è diventato così importante? «Perché noi italiani beviamo sempre meno: un calo del 27% dal 2000 al 2012», dice Denis Pantini, project leader di WineMonitor. «La quantità dei nostri consumi è ormai pari a quella esportata ed è sostenuta dagli ultrasessantenni che bevono ai pasti. I giovani sono orientati ad altri alcolici come la birra e con la crisi è diminuita anche la spesa media per famiglia, assestandosi sui 12 euro al mese. Detto ciò, il mercato nazionale resta importante soprattuto per le imprese più piccole».
Su questo fronte non siamo un’eccezione, il problema è comune alla Francia (-12%) e alla Spagna (-34%). Con queste cifre tutti guardano fuori confine. E una bella spinta l’hanno data anche i finanziamenti dell’UE: «Invece di spendere per distruggere le eccedenze si cerca di promuovere fuori dall’Europa. Grazie agli stanziamenti OCM (Organizzazione Comune di Mercato), le aziende possono viaggiare per il marketing coprendo le spese al 50 per cento», dice Giancarlo Gariglio, responsabile di Slowine, il sito interamente dedicato al vino di Slowfood. Cifre considerevoli: dal 2014 al 2020 l’Italia ha a disposizione 337 milioni di euro, contro i 280 della Francia.
Non bisogna illudersi troppo però: la vitis vinifera è rigogliosa anche in questi paesi. In Russia il 70% del vino è autoctono, anche se, secondo Scholes, una grossa parte di quello etichettato russo viene in realtà da altri paesi. Il Brasile è il quinto produttore dell’emisfero sud dopo Argentina, Australia, Cile e Sudafrica. La Cina stessa ha più di 390mila ettari coltivati a vite (più degli Usa!) e 400 cantine concentrate nella regione Ningxia. Risultato: l’80% del bevuto è locale. Chi lo ha assaggiato, come Mike Veseth, blogger di Wine Economist e autore di Wine Wars, ricorda esperienze totalmente disgustose ma anche dei passabili Cabernet Franc«di gusto acerbo, come di uve non mature». Forse qualcosa va perso nella “traduzione”, ma in ogni caso chi ha voglia di contraddire un miliardo e 300mila persone? «Oggi i migliori Bordeaux della regione Ningxia, che ho provato di recente, sono veramente buoni, quindi il trend è in ascesa», continua Veseth. Magari tra qualche anno li vedremo sugli scaffali dei nostri supermercati.
Alla peggio è già pronto il piano B.: se non si riesce a vendere abbastanza vino, vendere i vigneti: «La Cina ha cominciato a comprarsi gli chateaux Bellefont Belcier intorno a Bordeaux», dice D’Agata, «come se fossero squadre di calcio, con grande fastidio dei francesi». Pare che ora lo stia facendo anche in Toscana: «Ricevo un sacco di email di gente che vuole fare incetta, preoccupata che la Cina si beva tutto», dice Veseth. Lui l’ha soprannominata “sindrome cinese” e la sintetizza così: «Abbiamo il sogno che la Cina acquisti tutte le merci che cerchiamo di venderle, ma anche la paura che ci restituirà il favore comprandosi i nostri mercati».
QUANTO SI BEVE ITALIANO NEL MONDO
Germania 36%
UK 17%
USA 31%
Canada 20%
Cina 7%
Giappone 14%
Russia 20%
Svizzera 34%
Brasile 12%
India 10%
Il prosecco batte lo champagne. Nel 2013, per la prima volta, in termini di bottiglie vendute nel mondo, il vino frizzante italiano è in testa alla classifica con 307 milioni di bottiglie vendute contro 304 milioni per il suo rivale di sempre.
Il riconoscimento al Cavallino rampante arriva da Brand-finance: il marchio, valutato 4 miliardi, è stato scorporato da Fiat: gli addetti ai lavori temono un trasferimento all’estero degli asset immateriali
MILANO – In pista non vince più, ma il marchio Ferrari si aggiudica la palma del brand più influente del mondo. Il Cavallino rampante di Marello ha messo in riga Coca Cola e PricewaterHouseCoopers. Alle spalle della “rossa” anche big come Google e Walt Disney che pure in termini di numeri surclassano la controllata Fiat. Quando si tratta di “potere” o di “influenza”, però, le cose cambiano, almeno secondo l’annuale classifica di Brand-finance che riguarda i 500 marchi più noti al mondo e che lo scorso anno era già stata capeggiata dalla Ferrari lo scorso anno
Secondo Brand-finance “il Cavallino rampante su sfondo giallo è immediatamente riconoscibile in tutto il mondo anche dove non ci sono ancora le strade. Nel suo paese natale e tra i suoi molti ammiratori in tutto il mondo la Ferrari ispira molto più della lealtà al brand, più di un culto e una devozione quasi religiosa”.
Abbastanza per spiegare la decisione del Lingotto di scorporare il marchio nell’ottica di valorizzare al massimo i singoli brand. Basti pensare che Maranello può contare su 64 contratti di licenza stipulati in tutto il mondo e 28 di franchising (anch’essi distribuiti nei cinque continenti): stando alle stime del management, il ramo d’azienda dovrebbe chiudere il 2013 con un giro d’affari di 92,5 milioni, un
margine operativo lordo di 52,4 milioni e un risultato netto pari a 50,8 milioni. Numeri di tutto rispetto, se si pensa che tutta la Ferrari nel 2012 aveva registrato un fatturato di 2,43 miliardi e utili netti di 244 milioni.
E infatti, nonostante Ferrari sia il marchio più influente al mondo, in termine di valore, prosegue Brand-finance, il marchio si piazza in 350/a posizione con un valore di quattro miliardi di dollari. Nelle prime dieci posizioni per influenza del marchio in quarta posizione si è classificata la società finanziaria americana McKinsey, seguita da Google, da Unilever, da Hermes, da Rolex, da Red Bull e dalla Walt Disney.
A preoccupare gli addetti ai lavori, però, è l’ipotesi che lo scorporo sia il preludio di un trasferimento all’estero degli asset immateriali del gruppo Fiat. Il gruppo del Lingotto – come detto – ha deciso di conferire il marchio Ferrari a una nuova società, separandolo dalle attività di automotive. L’intento dell’operazione potrebbe essere quello di trasportare all’estero gli asset che generano utili, come marchi e i brevetti, facilmente trasferibili, e lasciare in Italia quelle che generano i costi, come le attività produttive.
Dal kit per taroccare il Valpolicella al Barbera rumeno, che è incredibilmente bianco. L’elenco dei prodotti tipici del Made in Italy realizzati e confezionati all’estero è lungo e comico. Non fosse che vale decine di miliardi, “ruba” posti di lavoro e genera un danno d’immagine notevole alle aziende italiane
MILANO – Il “tipico” pandoro viene dall’Argentina, il salame veneto è insaccato in Cina; oppure il formaggio Asiago, che porta quel nome italico nonostante sia prodotto negli Usa, ma anche un kit pronto all’uso per falsificare il Parmigiano Reggiano o produrre il Valpolicella ben lontano dal Belpaese. Il catalogo dei prodotti “made in Italy” ma a centinaia di chilometri di distanza dall’Italia farebbe sorridere se non fosse che la contraffazione e la falsificazione dei prodotti alimentari fa perdere all’Italia oltre 60 miliardi di euro di fatturato, che potrebbero generare reddito e lavoro in un difficile momento di crisi.
E’ l’accusa di uno studio della Coldiretti, presentato a Fieragricola. L’associazione denuncia che è in atto un salto di qualità dell’agropirateria internazionale che è arrivata a colpire i prodotti più rappresentativi dell’identità alimentare nazionale, con danni economici e di immagine non più sostenibili per l’agricoltura italiana. La denominazione “Parmigiano Reggiano” resta la più copiata nel mondo, con il “parmesan” diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone; ma in vendita c’è anche il “parmesao” in Brasile, il “regianito” in Argentina, ma anche “pamesello” in Belgio. “Ma ora – continua la coldiretti – c’è addirittura la possibilità di acquistare (in Gran Bretagna, negli Usa o in Australia) un kit per fare il pregiato formaggio
italiano, ovviamente senza dare alcuna importanza al latte utilizzato”.
Una vera e propria truffa che colpisce anche i vini italiani più prestigiosi come il Valpolicella, che può essere “taroccato” con un miracoloso kit che promette di ottenerlo in pochi giorni con miscugli di polveri e mosto. La gamma dei prodotti alimentari falsificati si è allargata ed è ora possibile trovare sul mercato- precisa la coldiretti – formaggi come il pecorino friulano, il romanello e il crotonese prodotti in Canada o la gorgonzola sauce realizzata in Germania. Anche i falsi salumi made in Italy tirano a livello internazionale: dalla “mortadela siciliana” rumena, al salame tipo Milano fatto in Brasile, dal “cacciatore salami” e la “soppressata salami” prodotti in Canada, al prosciutto cotto Villa gusto diffuso in Germania.
Per i primi piatti, prosegue ancora l’associazione, sono “sconsigliati” i “maccaroni mit tomatensauce” o gli “gnocchi rucola-parmesan” prodotti in Germania o la “palenta” realizzata in Croazia, magari con il sugo fatto con “San Marzano pomidori pelati” coltivati negli States. Anche l’olio e il vino rientrano nei prodotti italiani fortemente imitati all’estero dove si possono trovare il pompeian oil del Maryland (Stati Uniti) così come il falso Chianti americano, ma anche il kressecco o il meer-secco tedeschi che imitano l’inarrivabile Prosecco e persino il Barbera rumeno che, tuttavia non è rosso, ma incredibilmente bianco.
Il comune denominatore degli esempi di imitazione e contraffazione di prodotti agroalimentari italiani, conclude la Coldiretti, è l’opportunità, per un’azienda all’estero, di ottenere sul proprio mercato di riferimento un vantaggio competitivo associando indebitamente ai propri prodotti l’immagine del made in Italy apprezzata dai consumatori stranieri, senza alcun legame con il sistema produttivo italiano e facendo concorrenza sleale nei confronti dei produttori nazionali impegnati a garantire standard elevati di qualità.
Il fondo Charme e Moschini cedono il 58,6% della società d’arredamento a Haworth per 2,96 euro ad azioni dopo averla quotata a 2,1 euro nel 2006. L’azienda Usa lancerà un’Opa e procederà al delisting. L’ex numero uno di Confindustria diceva: “Il made in Italy è tutto”. Il faro della Consob sull’operazione
di GIULIANO BALESTRERI
MILANO – Poltrona Frau saluta l’Italia e allunga la lista dei marchi storici passati nelle mani di investitori stranieri. A vendere, questa volta, sono gli ambasciatori del made in Italy azionisti del fondo Charme Investments che insieme a Moschini cederanno agli americani di Haworth la loro partecipazione del 58,6% (di cui 51,3% posseduto da Charme e il restante 7,3% da Moschini) nel capitale di Poltrona Frau a 2,96 euro per azione (la società era stata quotata in Borsa nel 2006 a 2,1 euro per azione): un’operazione che porterà nelle casse degli azionisti circa 240 milioni di euro. La cessione si concluderà entro aprile, quando Haworth lancerà un’Opa con l’obiettivo di delistare la società da Piazza Affari. Sull’operazione ha acceso un faro la Consob per valutare l’andamento dei titoli in Borsa prima e dopo l’annuncio.
A stupire è che questa volta a vendere siano – tra gli altri – Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle e Nerio Alessandri di Tecnogym, azionisti di Charme e strenui difensori dell’italianità. Proprio Montezemolo, già ambasciatore del made in Italy, non ha mai perso occasione per difendere lo stile e il design italiano di Poltrona Frau, nel cui portafoglio sono presenti altri marchi d’eccellenza come Cassina e Cappellini:
Adesso il pallino del design italiano passerà a Haworth, società americana del Michigan fondata nel 1948 dalla famiglia Haworth, che ancora ne detiene il 100%. Con oltre 1,4 miliardi di dollari di ricavi nel 2013 e circa 6.000 dipendenti, la società dal 2011 è già partner di Poltrona Frau per la distribuzione del canale ufficio in Nord America. Dal 2005 è guidata dall’italiano Franco Bianchi.
“Questa operazione – commenta Franco Moschini, presidente di Poltrona Frau – è la realizzazione di un grande sogno iniziato dal 2003 con il fondo Charme, ossia la creazione del più importante polo mondiale dell’arredamento di lusso e questo porterà grandi benefici allo sviluppo internazionale del gruppo e alla conseguente crescita dei nostri siti produttivi”. Sulla stessa lunghezza d’onda Matteo Cordero di Montezemolo, figlio di Luca e ad di Charme: “Dopo un ciclo di investimento durato più di 10 anni questa operazione rappresenta la miglior conclusione del percorso di Charme in Poltrona Frau”.
Di certo per il fondo Charme è tempo di dismissioni all’insegna del made in Italy: dopo aver ceduto lo scorso anno il 20% della società biomedicale Bellcobi (con sede a Miradola), ieri è stata venduta per 500 milioni di euro l’italiana Octo Telematics (società che produce scatole nere per il mercato delle assicurazioni auto) ai russi di Renova e oggi è arrivato l’addio a Poltrona Frau.
MILANO – Come denunciato dalla Coldiretti, il concetto di Made in Italy si è sempre più vestito di connotazioni straniere nel corso degli ultimi anni. Gli agricoltori offrono una carrellata dei prodotti e dei marchi passati in mani straniere (o comunque in parte influenzati dall’estero), dal 1988 ad oggi.
2013 Chianti classico. Per la prima volta un imprenditore cinese ha acquistato una azienda agricola del Gallo Nero. Riso Scotti. Il 25% è stato acquisito dalla società alla multinazionale spagnola Ebro Foods.
2012 Pelati AR – Antonino Russo. Nasce una nuova società denominata Princes Industrie Alimentari srl, controllata al 51 per cento dalla Princes, a sua volta nelle mani della giapponese mitsubishi. Star. Passata al 75% nelle mani spagnole del gruppo agroalimentare di Barcellona Gallina Blanca. Eskigel. Produce gelati in vaschetta per la grande distribuzione – Panorama, Pam, Carrefour, Auchan, Conad, Coop. Ceduta agli inglesi con azioni in pegno a un pool di banche.
2011 Parmalat. Acquisita dalla francese Lactalis. Gancia. Acquisita al 70% dall’oligarca russo Rustam Tariko. Fiorucci-salumi. Acquisita dalla spagnola Campofrio Food Holding. Eridania Italia. La società dello zucchero ha ceduto il 49% al gruppo francese Cristalalco.
2010 Boschetti alimentare. Cessione alla francese Financière Lubersac, che detiene il 95% Ferrari Giovanni Industria Casearia. Ceduto il 27% alla francese Bongrain Europe.
2009 Delverde Industrie Alimentari. La società della pasta è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata che fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata.
2008 Bertolli. Venduta a Unilever, poi acquisita dal gruppo spagnolo Sos. Rigamonti salumicio. Ddivenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb international. Orzo Bimbo. Acquisita da Nutrition&Santè del gruppo Novartis. Italpizza. Ceduta all’inglese Bakkavor Acquisitions Limited.
2006 Galbani. Acquisita dalla francese Lactalis. Carapelli. Acquisita dal gruppo spagnolo Sos Sasso. Acquisita dal gruppo spagnolo Sos Fattorie Scaldasole. Venduta a Heinz, poi acquisita dalla francese Andros.
2003 Peroni. Acquisita dall’azienda sudafricana Sabmiller. Invernizzi. Acquisita dalla francese Lactalis, dopo che nel 1985 era passata alla Kraft.
1998 Locatelli. Venduta a Nestlè, poi acquisita dalla francese Lactalis. San Pellegrino. Acquisita dalla svizzera Nestlè.
1995 Stock. Venduta alla tedesca Eckes a.G., poi acquisita dagli americani della Oaktree Capital Management.
1993 Antica gelateria del corso. Acquisita dalla svizzera Nestlè.
1988 Buitoni. Acquisita dalla svizzera Nestlè. Perugina. Acquisita dalla svizzera Nestlè.