di Natascia Gargano, FpS Media
«Ormai i medici che scelgono l’obiezione sono il 90 per cento», denuncia la Lega dei ginecologi. Spesso per motivi che con la coscienza non c’entrano niente. Il risultato? «Liste d’attesa infinite, donne che vanno all’estero, altre che si rivolgono di nuovo alle mammane»
(27 dicembre 2011)
«C’è una parte consistente di medici che obietta per motivi che con la coscienza non hanno nulla a che fare», denuncia da tempo Carlo Flamigni, ginecologo e membro del Comitato nazionale di Bioetica. Non è facile trovarsi da soli a dire “sì” in un reparto di obiettori, malvisti quando non vessati dai colleghi. La parte del Don Chisciotte non si addice a tutti, soprattutto quando i mulini a vento sono il tuo primario o il direttore dell’ospedale. E poi, semplicemente, non si fa carriera, tutto il giorno in trincea a fare aborti. Specie se i vertici dell’ospedale sono di nomina politica e di area cattolica (o addirittura ciellina). E così qualcuno, per non finire al confino, sceglie il “no”. Gli altri 1.655, intanto, solo nel 2009 si sono sobbarcati 118.579 interruzioni di gravidanza. A farne le spese ovviamente sono le donne, che si ritrovano meno medici a disposizione, liste di attesa più lunghe e interventi non di rado fissati allo scadere del 90° giorno.
Che non fili tutto liscio, lo accenna lo stesso ministero nella sua ultima relazione al Parlamento: «Percentuali elevate di tempi di attesa oltre le due settimane vanno valutate con attenzione a livello regionale in quanto possono segnalare presenza di difficoltà nell’applicazione della legge». Ebbene, ad aspettare oltre due settimane è il 40 per cento delle donne. E, in alcuni casi, l’attesa dura anche un mese e più. «Come conseguenza le donne spaventate hanno ricominciato a prendere l’aereo per rivolgersi a strutture estere, mentre qualche obiettore in ospedale ha tirato fuori dai cassetti del suo studio privato gli strumenti per abortire», continua Flamigni. «Per non parlare dell’uso dei farmaci non legali, del fiorire delle pillole abortive sul mercato nero e degli aborti fai da te delle immigrate straniere». Insonna, torna l’incubo delle mammane, quel fantasma combattuto ma mai del tutto sconfitto dalla legge 194. Le ultime stime disponibili, parziali e riferite solo alle italiane, risalgono al 2005: 15 mila aborti clandestini, la maggior nell’Italia meridionale. Da allora non se ne sa più nulla. Sul fatto che l’obiezione di coscienza così allargata stia, nei fatti, svuotando di contenuti la 194, non sono però tutti d’accordo: «Non credo proprio che l’aborto sia ostacolato dalla presenza di obiettori. E poi non esiste alcun diritto di aborto, esiste invece un diritto alla vita e un diritto all’obiezione di coscienza. Le tre cose stanno su un piano diverso: prima viene il diritto alla vita, poi all’obiezione, quindi, in ultimo, la possibilità per la donna di abortire», ribatte Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita e deputato europeo.
C’è anche chi fa notare «ben altre mancanze» del servizio pubblico, come la dottoressa Paola Bonzi, dal 1984 alla guida del Centro di aiuto alla vita, il consultorio privato all’interno della Mangiagalli, la più grande “maternità” di Milano: «L’articolo 5 della legge prevede che gli enti pubblici mettano in campo tutti gli aiuti affinché le persone rinuncino ad abortire. Invece le donne si trovano da sole, prima e dopo. L’ospedale, ad esempio, non ce ne invia nessuna, le donne arrivano da noi con il passaparola. C’è una gravissima mancanza del servizio pubblico nell’offrire sostegno alle donne». Che sia dunque tempo di modificare la 194? «Di sicuro è necessario organizzare l’assistenza sanitaria in modo da garantire che la legge venga rispettata su tutto il territorio nazionale», dice Ignazio Marino, che è anche presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficienza del Servizio sanitario nazionale: «Chi ha compiti istituzionali, come il direttore generale di un ospedale, ha il dovere di disporre del personale sufficiente per eseguire le interruzioni di gravidanza. E lo deve fare anche programmando le assunzioni».
Qualcuno ci ha provato con un bando per i consultori regionali, in un territorio che conta il 79,4 per cento di medici obiettori. Ma non è andata a finire bene. Quel qualcuno è Nichi Vendola e la delibera della giunta pugliese che prevedeva «il progressivo riposizionamento del personale sanitario che solleva obiezione di coscienza» è stata subito impugnata davanti al tribunale amministrativo. Ricorso accolto, il Tar ha giudicato la clausola discriminatoria ed «espulsiva», quindi lesiva dei diritti degli obiettori e del principio di uguaglianza.
La questione è ingarbugliata, come sottolinea Chiara Lalli nel suo libro “C’è chi dice no” (il Saggiatore), «perché l’articolo 9 della 194 non entra nei dettagli di come gestire sia la possibilità di fare obiezione sia la possibilità per la donna di abortire». Se, infatti, il singolo medico può rifiutarsi di praticare l’aborto, la struttura sanitaria è in ogni caso obbligata a garantire il servizio. Ma in che modo, non è chiaro. «Stiamo studiando i casi per sollevare la questione di legittimità della legge di fronte alla Corte costituzionale», spiega Marilisa D’Amico, docente di Diritto costituzionale all’Università Statale di Milano, «bisogna agire non negando l’obiezione di coscienza, che è un diritto fondamentale, ma modificando l’articolo 9 perché imponga agli ospedali l’onere di dotarsi del personale non obiettore necessario per l’effettiva attuazione della 194». Magari nel rispetto di quella parola che il testo della legge ripete per ben quattro volte: dignità.
ROMA – La cura dei figli, soprattutto in tenerissima età, in Italia continua a essere un compito da donne e la vita lavorativa deve necessariamente adattarsi alla condizione di madre anche in relazione all’indisponibilità di servizi di supporto adeguati alle proprie esigenze in termini di costi, orari, vicinanza alla zona di residenza e presenza di personale specializzato. La conferma arriva dallo studio Istat focalizzato su “La conciliazione tra lavoro e famiglia”. Che, tra l’altro, evidenzia come le donne occupate a tempo pieno sognino di potersi dedicare di più alla cura del proprio nucleo affettivo, mentre le impiegate part-time sono in maggioranza soddisfatte dell’equilibrio tra tempo dedicato al lavoro e tempo dedicato alla famiglia. Profonda la differenza tra Nord e Sud: nel Mezzogiorno e nelle Isole è occupato il 34,6% delle madri, contro un valore quasi doppio (68,8%) rilevato per quelle che risiedono nel Settentrione.
Stop al lavoro per il 37% delle madri. Sono 702 mila le occupate con figli minori di otto anni che dichiarano di aver interrotto temporaneamente l’attività lavorativa per almeno un mese dopo la nascita del figlio più piccolo: il 37,5% del totale delle madri occupate. L’assenza temporanea dal lavoro per accudire i figli continua a riguardare, invece, solo una parte marginale di padri. Anche il congedo parentale è utilizzato prevalentemente dalle donne, riguardando una madre occupata ogni due, a fronte di una percentuale del 6,9% dei padri.
Donne, part-time favorisce l’equilibrio. Circa il 40% delle occupate con un orario full time desidererebbe dare più spazio al lavoro di cura, mentre avere un’occupazione part-time sembra consentire una migliore allocazione del tempo: il 69,2% delle occupate a tempo parziale, 1 milione 424 mila donne, non vorrebbe modificare l’organizzazione della propria giornata, contro il 57% di chi lavora a tempo pieno. Ciò nonostante, non sono poche (438 mila donne pari al 30,8%) le occupate part-time che vorrebbero bilanciare meglio il rapporto tra tempi di attività di cura e tempi destinati al lavoro: per il 15,6% di queste i carichi familiari sono così pesanti che risulta impossibile dedicare più tempo al lavoro.
Quattro italiani su dieci si occupano di cura e assistenza. In generale, dall’indagine emerge che quasi quattro italiani su dieci dedicano tempo ad assistenza e cura e circa un terzo degli occupati con figli è insoddisfatto del tempo dedicato alla famiglia. Sono infatti circa 15 milioni 182 mila (il 38,4% della popolazione di riferimento), spiega l’Istat, le persone che nel 2010 dichiarano di prendersi regolarmente cura di figli coabitanti minori di 15 anni, oppure di altri bambini, di adulti malati, disabili o di anziani. Il 27,7% delle persone tra i 15 e i 64 anni ha figli coabitanti minori di 15 anni, il 6,7% si prende regolarmente cura di altri bambini e l’8,4% di adulti o anziani bisognosi di assistenza.
Insoddisfatto il 35,8%. Quasi tre milioni e mezzo di occupati con figli o con altre responsabilità di questo tipo (il 35,8% del totale) vorrebbe modificare l’equilibrio tra lavoro retribuito e lavoro di cura: il 6,7% dedicando più tempo al lavoro extradomestico e il 29,1% trascorrendo più tempo con i propri figli o altre persone bisognose di assistenza. I due terzi degli uomini e il 61,2% delle donne dichiara, invece, di non voler modificare lo spazio dedicato a queste due dimensioni della vita quotidiana, con quote più ampie tra i padri (66,1%) e tra le donne occupate che si prendono regolarmente cura di bambini (non figli coabitanti) (68,2%), meno elevate tra le madri (59,2%). Nel Mezzogiorno è più alta la percentuale (70% tra gli uomini e 63,2% tra le donne) di quanti affermano di non voler cambiare il rapporto tra lavoro e famiglia; inoltre, in questa ripartizione sono maggiormente rappresentate le persone che lavorerebbero di più (6,9% per gli uomini e 10% per le donne).
Più tempo alla famiglia o al lavoro? Manager e operai, rapporto inverso. Tra i dirigenti, gli imprenditori o i liberi professionisti sono più numerosi quanti modificherebbero l’organizzazione della propria vita a favore del tempo destinato alla famiglia (42,9% degli uomini e 43,7% delle donne). Gli operai, invece, più degli altri lavoratori, seppure in una piccola quota, vorrebbero dare più spazio al lavoro retribuito (7,8% tra gli uomini e 14% tra le donne).
Blob sul ricco entourage dell’ex premier Berlusconi e delle sue sortite durante l’anno 2011
Meu amor essa é a última oração
Pra salvar seu coração
Coração não é tão simples quanto pensa
Nele cabe o que não cabe na despensa
Cabe o meu amor!
Cabem três vidas inteiras
Cabe uma penteadeira
Cabe nós dois
Cabe até o meu amor, essa é a última oração
Pra salvar seu coração
Coração não é tão simples quanto pensa
Nele cabe o que não cabe na despensa
Cabe o meu amor!
Cabem três vidas inteiras
Cabe uma penteadeira
Cabe nós dois
Cabe até o meu amor, essa é a última oração
Pra salvar seu coração
Coração não é tão simples quanto pensa
Nele cabe o que não cabe na despensa
Cabe o meu amor!
Cabem três vidas inteiras
Cabe uma penteadeira
Cabe essa oração
Avversari e detrattori immaginavano per lui un tramonto fiammeggiante, un’uscita di scena drammatica, come nel finale del Caimano. Seguaci e ammiratori – a cominciare dal più convinto e appassionato tra loro, se stesso – confidavano al contrario nell’apoteosi della sua ascesa al Quirinale, la consacrazione che avrebbe pacificato l’Italia sotto il suo sorriso benevolo. Nessuno aveva mai pensato nemmeno per un minuto che Silvio Berlusconi avrebbe lasciato Palazzo Chigi quasi di soppiatto. E soprattutto, fatta eccezione per qualche sparuto gruppo di manifestanti occasionali, nella generale indifferenza.
Eppure finisce proprio così. Le sue dichiarazioni di ieri, in cui assicura i sostenitori di essere sempre «in pista», fanno sorridere. Quando ripete ancora che serve una riforma istituzionale per rendere «governabile» l’Italia irrita come una barzelletta raccontata troppe volte. La verità è che per Silvio Berlusconi non c’è più nessuna pista, né alcun campo in cui scendere.
L’uomo che ha segnato più di chiunque altro l’ultimo ventennio della politica italiana esce di scena così: salutato in Europa dalle risate di scherno dei capi di governo francese e tedesco, nel mondo dall’ostilità di un presidente degli Stati Uniti che si rifiuta platealmente di nominarlo, in patria da un silenzio indifferente e annoiato. È la pietra tombale su ogni velleità di riscatto. A Silvio Berlusconi è capitata la cosa peggiore che potesse capitargli, e che per tanti anni aveva tentato in ogni modo di scongiurare: è diventato vecchio. Da un giorno all’altro, come per il venir meno di un incantesimo, la sua figura politica è diventata anacronistica. Le sue mosse appaiono fuori tempo, le sue dichiarazioni fuori tema, le sue battute fuori luogo. In poche parole: ha stancato. È passato poco più di un mese dalle sue dimissioni. Eppure, a ripercorrere quelle convulse giornate di inizio novembre, sembra di parlare di un’altra epoca. Forse perché è proprio così.
Il culmine del potere berlusconiano porta per comune accordo una data precisa: 25 aprile 2009. Il giorno in cui il premier celebra la festa della Liberazione a Onna, la città distrutta dal terremoto del 6 aprile. Gli scandali e le polemiche sull’uso politico della Protezione civile sono lontanissimi: il governo del fare, che ha ripulito Napoli e assicurato un ricovero a tutti i terremotati, viene esaltato a reti unificate. Le riprese televisive dei funerali delle vittime, con il presidente del Consiglio che lascia il suo posto tra le autorità per mescolarsi alle famiglie, fanno il paio con le immagini dell’anziana signora cui il premier ha ricomprato la dentiera smarrita nella catastrofe. Nel discorso di Onna Berlusconi parla già da presidente della Repubblica. I suoi indici di popolarità sono alle stelle. I commentatori s’inchinano. L’apoteosi è a un passo. Poi qualcosa s’incrina. Il primo problema, è che dopo il 25 aprile, a Onna, viene il 26, a Casoria: il diciottesimo compleanno di Noemi Letizia. Quindi le sconcertanti dichiarazioni di Veronica Lario, che denuncia le frequentazioni di minorenni da parte di un premier malato, dal quale si appresta a chiedere il divorzio. È un fulmine a ciel sereno. Lo svolgersi imprevedibile e rapidissimo degli eventi è ben rappresentato dal modo in cui Bruno Vespa lo accoglie, il 5 maggio, a Porta a Porta. «L’avevamo invitata nei giorni scorsi – esordisce – perché domani fa un mese dal devastante terremoto che ha colpito l’Aquila e tanti centri dell’Abruzzo, per fare il punto della situazione, ma in questi giorni lei è sui giornali anche per altre ragioni e quindi è fatale che si cominci da questo. S’aspettava questa tempesta sulla sua vicenda familiare?».
È questo il primo masso a staccarsi dal blocco di consenso berlusconiano, e rotola a valle con crescente velocità. A partire dalle parole di Veronica Lario, trascina con sé le polemiche sulle candidature alle europee, che si estenderanno dalla Lombardia del caso Minetti alla Puglia del caso D’Addario. Di qui i primi attacchi dei finiani contro il «velinismo», la violenta risposta della stampa berlusconiana contro Fini, fino alla rottura finale tra i due, in un’inarrestabile corsa verso il basso.
L’apparente tenuta alle regionali del 28 marzo 2010 non fa che prolungare l’agonia. E neanche di molto: alla direzione del 22 aprile il Pdl esplode davanti alle telecamere, con Berlusconi che chiede dal palco le dimissioni di Fini da presidente della Camera e lui che risponde dalla platea: «Che fai, mi cacci?». Come sempre nell’avventura politica di Berlusconi, questioni politiche e personali s’intrecciano inestricabilmente. Contano umane debolezze – per dir così – e personali insofferenze. Da tutto questo emerge però non solo un criterio di selezione delle candidature, ma più in generale un modo di gestire il potere. Il processo pubblico in direzione e la campagna di stampa contro Fini mandano un messaggio inequivocabile sulla concezione della democrazia di quello che appare ancora come l’uomo più potente d’Italia.
È l’altra faccia, quella meno rassicurante, del modello antipolitico che Berlusconi ha incarnato per vent’anni. Un’idea di democrazia incentrata sulle esigenze della «governabilità», nella convinzione che ogni contrappeso, ogni manifestazione di dissenso all’interno del governo o del partito sia un tradimento, una congiura, un complotto. Quando però l’intolleranza del capo mostra la sua faccia più brutale, incapace di tollerare persino la modestissima fronda finiana, la reazione di rigetto è inevitabile. Tanto più che a questo strapotere, che governa per quasi tutto il decennio, non si accompagnano risultati apprezzabili. La crisi, occultata dalla propaganda, morde la carne viva dell’Italia. Il bilancio del decennio, dal punto di vista economico e sociale, è una spaventosa stagnazione. E le prospettive per il futuro non sono migliori. Il modello politico-istituzionale incentrato sul capo carismatico mostra al tempo stesso i suoi inquietanti limiti democratici e la sua clamorosa inefficienza operativa. Dopo la scissione finiana e la risicata fiducia del 14 dicembre 2010, la tragedia si trasforma in farsa. Il governo del fare affonda in una palude di compromessi paralizzanti, con un corteo di leader improvvisati a capo di formazioni dai nomi improbabili.
I risultati dei referendum e delle amministrative di Milano e Napoli certificano la fine del berlusconismo. Ma i meccanismi istituzionali e la stessa costituzione del partito personale-proprietario consentono al fantasma del leader di continuare a occupare la scena, pur non essendo più in grado di prendere alcuna decisione, come è ormai evidente a tutti, non solo in Italia.
Quando mercati finanziari e capi di governo europei presentano infine il conto, l’esperienza politica berlusconiana è giunta ormai a un tale grado di consunzione da non avere più nemmeno bisogno del colpo di grazia. Silvio Berlusconi non viene scacciato da una rivolta popolare, ma semplicemente rimosso dalla coscienza pubblica, come un peccato di gioventù. E questo forse è il motivo per cui oggi, mentre tutto il Paese paga il prezzo di quel peccato collettivo, le sue rare apparizioni televisive fanno più tenerezza che rabbia, come quei canali che la sera trasmettono ancora telefilm anni 80. Fa l’effetto di una vecchia puntata di Arnold, che magari abbiamo trovato esilarante in passato, ma che vista adesso, dopo pochi minuti di nostalgia, si rivela subito noiosissima.