Biografia di Benito Mussolini (1883-1945): da rinnegato pacifista e socialista a “duce” del fascismo con il sostegno dei Savoia, dell’aristocrazia, degli industriali e degli agrari contro le rivendicazioni sociali degli operai e dei contadini, “Cesare & Napoleone” da operetta con espressioni mimiche tipiche di un buffone e di un babbeo, fino ad arrivare ad essere prima l’ispiratore e poi un servo succube del nazismo e di Hitler. Tra i suoi crimini e quelli del fascismo da ricordare l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (rivendicato orgogliosamente da Mussolini), la distruzione di decine di Case del Popolo, gli assalti sanguinari alle sedi dei partiti di opposizione socialista e comunista, lo squadrismo fascista, le manganellate e le somministrazioni di olio di ricino agli oppositori, l’assassinio di Giovanni Amendola, di don Giovanni Minzoni e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, il licenziamento dei non fascisti, l’aver svenduto l’Italia al Vaticano ed al clericofascismo con il “Concordato” del 1929, l’istituzione dell’OVRA (la Gestapo italiana) e dei Tribunali Speciali che condannarono alla detenzione migliaia di antifascisti (tra cui Antonio Gramsci) con l’esecuzione di parecchie condanne a morte, la spietata repressione e le deportazioni in Libia, la guerra di aggressione all’Etiopia con l’uso di gas asfissianti vietati dalle convenzioni internazionali, il sostegno al dittatore fascista Francisco Franco durante la Guerra di Spagna ed i bombardamenti terroristici sulle città spagnole (anche gli aviatori fascisti italiani furono direttamente responsabili di proprie “Guernica”), la vergogna delle leggi razziali contro gli ebrei, l’aver coinvolto l’Italia impreparata nella seconda guerra mondiale a fianco dei nazisti tedeschi e dei fanatici militaristi giapponesi, la “pugnalata alle spalle” alla Francia quando era già in ginocchio (che non ci è mai stata perdonata), i crimini di guerra commessi dalle truppe di occupazioni italiane in Libia, Abissinia, Grecia, Jugoslavia ed Unione Sovietica, il trasporto di armamenti e munizioni su navi neutrali della Croce Rossa, l’aver mandato i soldati a combattere senza armamenti adeguati e scarpe di cartone nelle gelide steppe russe, la guerra civile scatenata in Italia dopo l’8 settembre 1943 con la repressione antipartigiana ed antioperaia, insieme agli alleati nazisti con le continue stragi di civili dalle Fosse Ardeatine a Civitella in Val di Chiana, a Cavriglia, a Marzabotto, a S.Anna di Stazzema, ecc., i campi di concentramento, deportazione e sterminio di Fossoli, Bolzano e la Risiera di San Sabba a Trieste ed infine le torture sadiche e le fucilazioni indiscriminate, che ebbero il loro epilogo prima a Dongo con l’esecuzione Di Mussolini e degli altri gerarchi fascisti e poi in piazzale Loreto a Milano alla fine di aprile del 1945, non a caso proprio nello stesso luogo dove il 10 agosto 1944 erano stati fucilati 15 partigiani, lasciati “esposti” per l’intera giornata come monito terroristico verso la popolazione.
Sono apparse nei giorni scorsi sulla strada provinciale che collega Pontestazzemese a Levigliani. Sul gesto indagano i carabinieri che, grazie a una testimonianza, avrebbero già individuato il responsabile. Il sindaco Sillicani: “Non si tratta di uno stazzemese. Atto abominevole, ora almeno chieda scusa”
STAZZEMA. Sono apparse negli ultimi giorni lungo la via Provinciale tra Pontestazzemese e Terrinca. Almeno 25 svastiche, alcune disegnate addirittura al contrario, che imbrattano i muri lungo la strada e che hanno provocato lo sdegno della popolazione che, in questi luoghi più che altrove, non può non gurdare con orrore al simbolo del nazismo.
E lo sdegno aumenta in considerazione del fatto che le svastiche che imbrattano i muri lungo la strada sono apparse a pochi giorni dall’anniversario della strage di Sant’Anna di Stazzema. Una offesa intollerabile per chi le ha viste, un insulto alle 560 vittime di Sant’Anna commemorate lunedì alla presenza delle istituzioni e del ministro Maria Chiara Carrozza.
L’azione non è passata inosservata ed anzi ci sarebbero dei testimoni oculari che hanno già raccontato ciò che hanno visto alle autorità. Sulle svastiche è infatti stata avviata una indagine. Se ne sono occupati i vigili urbani ma la vicenda è seguita anche dai carabinieri. E a quanto pare, proprio grazie ad alcune testimonianze, gli inquirenti avrebbero già individuato un responsabile del gesto.
Il sindaco di Stazzema: “L’autore non è uno stazzemese”. “Con grande soddisfazione, sembra che sia stato individuato il responsabile del gesto. Non è uno stazzamese, ma un signore che abita nella piana versiliese”. Le parole sono di Michele Sillicani, sindaco di Sant’Anna di Stazzema. “Vorrei sottolineare un aspetto: sono stati i nostri cittadini che hanno visto il probabile autore e l’hanno descritto ai carabinieri”. L’uomo in questione abiterebbe nel comune di Pietrasanta (ASCOLTA L’INTERVISTA).
Alcuni siti per una documentazione storica che demolisce un inganno bipartizan :
La destra utilizza a man bassa la vicenda delle Foibe per occultare i crimini commessi dall’occupazione italiana in Jugoslavia. Sui testi scolastici tutto tace sui crimini dell’occupazione italiana in Libia e Corno D’Africa. La sinistra le va dietro adeguandosi alle tesi revisioniste. La verità, la giustizia e il senso della storia vengono così manipolati.
Leggete, documentatevi prima che i “Grandi Fratelli” facciano sparire tutto. Un grazie a Lucignolo per aver assemblato e segnalato il tutto.
(Central register of war criminals and security sospects)
Registro dei criminali di guerra e dei sospetti accertati.
Lista dei ricercati confermati da Nazioni Unite – Commissione per i crimini di guerra (1945?) rintracciata dalla storica Caterina Abbati presso Wiener Library a Londra
Il mito degli italiani “brava gente” e’ fondato sulla rimozione storica dei crimini di guerra commessi dall’ esercito italiano nelle ex colonie africane e nei territori occupati della II guerra mondiale. La nostra storia ufficiale e’ una storia di rimozioni profonde. Come sempre, nascondere i crimini, le atrocita’ di ieri serve a legitimmare quelli di oggi.
La costruzione di una memoria pubblica ufficiale, istituzionalizzata, serve le esigenze di legittimazione del potere, quale che esso sia, nessuno si senta escluso; serve a costruire la giustificazione del presente stato di cose.
“Il revisionismo e il negazionismo si occupano di storia e di eventi storici esclusivamente per legittimare gli assetti politici egemoni.Il revisionismo, nel dibattito attuale, rappresenta una posizione politica, che poco ha in comune con la ricerca storiografica.La storia viene sostanzialmente usata come strumento di lotta politica immediata attraverso i media.
Senza una potente proiezione sui media non sarebbe possibile il fenomeno del revisionismo storico.La normalizzazione ideologica funzionale ai progetti politici del blocco sociale oggi dominante passa attraverso la Tv, i giornali, le reti telematiche…”
Le “identita’ collettive”, le forme culturali dominanti ormai vengono generate dall’ indottrinamento mediatico e dalle fiction.
Lo storico Peppino Ortoleva in proposito scrive: “Le vicende collettive sono risucchiate in storie individuali, i documenti vengono drammatizzati al fine di sollecitare le emozioni del pubblico; le testimonianze individuali, di diverso valore e significato, vengono messe sullo stesso piano, confondendo il giudizio storico con la solidarietà umana con i testimoni privilegiando le fonti sonore e visive e sollecitando molto l’immaginario. Viene dato, infatti, molto spazio al racconto vissuto, alla memoria attualizzata, all’equiparazione morale di esperienze politiche diverse, rapportate al singolo soggetto e non al giudizio storico sull’evento ricordato. A volte, viene legittimato l’invenzione della tradizione e la rifunzionalizzazione della memoria al presente, con aggiustamenti, oblii, accorpamenti, manipolazioni.
Si potrebbe parlare di “narrazione in diretta” della storia, che segue regole di semplificazione e di efficacia comunicativa, che sono obiettivamente diverse dalle corrette procedure dello storico, ma che produce effetti di conoscenza molto più estesi e penetranti nella formazione della memoria pubblica del passato nel presente.” http://www.novecento.org/ricerche/memlau_4.htm
Nel Terzo Reich (scrive Enzo Collotti) “l’uso pubblico della storia rappresenta il cuore della cultura politica del nazionalsocialismo”. Nel corso del Terzo Reich la storia diventa propaganda tout court così perdendo ogni autonomia epistemologica. E’ propaganda per la rinascita della nazione, per la potenza tedesca, per la preparazione alla guerra.
In altre parole siamo di fronte a un caso nel quale «l’uso pubblico della storia corrisponde ad una ricostruzione del passato in relazione alle esigenze poste dai nuovi quadri sociali. Come durante il nazionalsocialismo la discriminate fra ricerca storiografica e la sua strumentalizzazione ideologica viene meno.Il revisionismo ha un carattere eminentemente pratico-politico, tipico di ogni ideologia:e’ dunque strumento di legittimazione politica e non di conoscenza storiografiza. pressante bisogno di riannodare gli studi storici alla realtà quotidiana degli interessi politici del momento
Quando si perde la facoltà della memoria, sia personale che collettiva, si è inevitabilmente esposti al decisionismo, perché la scelte non nascono sul terreno della responsabilità, che esige legami stabili, fondati storicamente, ma sulla capacità persuasiva di parole e immagini che fanno presa sulla sfera emotiva legata all’istante, sulla ipnosi degli spot
(Bonhoeffer)
la più o meno presunta buona fede di quei protagonisti non permette che si accetti di considerare la loro posizione come equiparata a chi lottò e morì per la libertà e la pace contro il partito unico, la persecuzione razziale, una cultura di morte e distruzione. http://www.geocities.com/Athens/Olympus/1997/opin1.htm
Riscrivere la storia dell’Italia risorgimentale: è questo, non da ora, uno degli obiettivi di una parte – la più integralista – del mondo cattolico italiano. http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/000920f.htm
Nell’idea secondo cui la storia sarebbe riducibile ad una semplice sommatoria di singoli casi personali, ciascuno dei quali deve essere considerato per se stesso -nella sua irripetibile individualità esistenziale- e dunque come tale sempre giustificabile, si fonda l’impossibile parificazione revisionistica tra i combattenti partigiani e i “ragazzi di Salò”. Si è “buoni” o “cattivi”, si è salvati o dannati dalla storia, non tanto per i motivi e per le idee di cui si è stati portatori ma -tutti indifferentemente, partigiani o brigatisti neri, vittime o carnefici- per la parte che singolarmente si è saputo recitare nel teatrino del passato. http://www.partigiani.de/nachkrieg/pisiit.htm
Nel corso della Seconda guerra mondiale circa 40.000 italiani furono strappati dalle loro case dai militi della Repubblica Sociale o dalle truppe tedesche di occupazione e deportati nei Lager che i nazisti avevano allestito in tutta Europa per l’eliminazione fisica di milioni di uomini, di donne e di bambini: oppositori politici, ebrei, zingari, omosessuali, Testimoni di Geova. http://www.deportati.it/fmenu.htm
Documentario sui crimini di guerra italiani durante l’occupazione della Grecia (1940-1943), con focus sulla strage di Domenikon, in Tessaglia, e riferimenti ad altri crimini compiuti dal Regio esercito in Jugoslavia e Africa. Regia di Giovanni Donfrancesco. Consulenza storica di Lidia Santarelli.
Con la partecipazione di Stathis Psomiadis (nipote di uno dei trucidati di Domenikon) e alcuni superstiti del massacro, e interventi di storici come Filippo Focardi, Lutz Klinkhammer e altri, oltreché del sostituto procuratore militare Sergio Dini.
Una coproduzione GA&A Productions e ERT, in associazione con Fox Channels Italy, RTI e Histoire e in collaborazione con la Radiotelevisione della Svizzera Italiana.
Dopo l’archiviazione dell’eccidio di Stazzema, dalla Germania sono arrivati nuovi verdetti sulle stragi naaziste.
Nello specifico si tratta di tre assoluzioni e tre ergastoli, da parte della Corte militare d’appello, per la lunga scia di sangue che i militari tedeschi della Divisione corazzata ‘Hermann Goering’ si sono lasciati alle spalle durante i rastrellamenti sull’Appennino tosco-emiliano nella primavera del 1944.
La triplice assoluzione lascia però di fatto senza colpevoli due dei quattro eccidi contestati agli imputati, quello avvenuto nella zona di Monte Morello (Firenze) e quello di Mommio di Fivizzano (Massa Carrara). CI FURONO 400 VITTIME. Gli imputati, oggi novantenni, sono stati giudicati perché ritenuti responsabili di numerosi eccidi di civili compiuti sull’Appennino tosco-emiliano nella primavera del 1944.
Le vittime furono circa 400.
Secondo l’accusa i sei imputati avrebbero a vario titolo «contribuito a cagionare la morte di numerosi privati cittadini italiani che non prendevano parte alle operazioni militari, fra cui donne, anziani e bambini inermi, agendo con crudeltà e premeditazione».
Tutto ciò, «agendo in parte in ossequio alle direttive del comando d’appartenenza, in parte di propria iniziativa e, senza necessità e senza giustificato motivo, nell’ambito e con finalità di ampie spedizioni punitive contro i partigiani e la popolazione civile che a quelli si mostrava solidale». TRE SONO MORTI. Gli ex militari rinviati a giudizio furono 12. Il tribunale di Verona, il 6 luglio 2011, ne condannò 9 all’ergastolo, assolvendone tre.
Il processo d’appello, ha visto dunque sei imputati: l’allora capitano dell’esercito tedesco Helmut Odenwald, di 93 anni, l’ex tenente Erich Koeppe (93), i sottotenenti Hans Georg Karl Winkler (90) e Ferdinand Osterhaus (95), il caporale, e poi sergente, Alfred Luhmann (87) e il sergente Wilhelm Stark (92).
La Corte militare d’appello ha assolto Odenwald, Koeppe e Osterhaus e confermato l’ergastolo a Winkler, Luhmann e Stark.
La conferma della condanna di primo grado era stata sollecitata dal procuratore generale Antonio Sabino, mentre i difensori degli imputati avevano chiesto l’assoluzione.
I sei imputati hanno risposto di quattro episodi distinti
Ostaggi dei nazisti.
Le uccisioni sono state raggruppate, nel capo di imputazione, in quattro episodi.
Il primo riguarda la morte di circa 156 civili, avvenuta il 18 e il 20 marzo 1944 in varie località dei comuni di Montefiorino (Modena) e Villa Minozzo (Reggio Emilia): Monchio, Susano, Costrignano, Civago e Cervarolo.
Per le uccisioni del 18 marzo è stata confermata la condanna nei confronti di Luhmann, mentre sono stati assolti Osterhaus e Odenwald.
Per le vittime del 20 è stata invece confermata la condanna di Stark. CONDANNATI IN PRIMO GRADO, POI ASSOLTI. Poi c’è stata l’uccisione di 14 cittadini, tra cui tre ragazzi di soli 17 anni, avvenuta il 10 aprile nella zona di Monte Morello (Firenze), a Ceppeto e Cerreto Maggio, due località dei comuni di Sesto Fiorentino e Vaglia.
Gli unici due condannati in primo grado, Koeppe e Odenwald, sono stati assolti.
Ben 200, invece, le persone trucidate in varie zone del monte Falterona, proprio al confine tra la Toscane e l’Emilia Romagna, tra il 13 e il 18 aprile.
Tra le località in cui la divisione Goering ha colpito, uccidendo anche donne e bambini, ci sono Vallucciole, Stia, Pratovecchio, Partina, Moscaio, Castagno d’Andrea, Badia Prataglia, Caprese Michelangelo, Santa Maria Serelli.
Condanna all’ergastolo confermata per Luhmann, Stark e Winkler, assoluzione per Koeppe e Odenwald. ISTITUZIONI PARTI CIVILI. Venti, infine, le persone ammazzate il 4 e il 5 maggio a Mommio, una frazione di Fivizzano (Massa Carrara).
Anche questo episodio è rimasto senza colpevoli perché Osterhaus, Stark e Winkler, condannati in primo grado all’ergastolo, sono stati tutti assolti. Molte le parti civili costituite nel processo. Oltre a numerosissimi parenti delle vittime anche, tra l’altro, la presidenza del Consiglio dei ministri, l’Anpi, le Regioni Toscana ed Emilia Romagna, le province di Reggio Emilia, Modena, Firenze, Massa Carrara e Arezzo, i Comuni dei territori dove sono avvenute le stragi.
La sentenza rende giustizia ai morti secondo la deputatat Pd Ghizzoni
Soddisfazione, ma anche perplessità per le assoluzioni nel processo d’appello. A dirlo è stato l’avvocato Andrea Speranzoni, difensore della Provincia di Mondea, dei Comuni di Palagano e San Godenzo, oltre che di 92 familiari delle vittime costituitesi parti civili.
«Siamo soddisfatti perché è stata affermata la responsabilità penale di tre degli imputati, all’esito di un processo rigoroso, ma ci lascia perplessi l’assoluzione degli altri tre, nei cui confronti riteniamo siano state raccolte prove altrettanto valide», ha spiegato l’avvocato, «confidiamo che la procura generale dopo aver letto le motivazioni della sentenza proporrà ricorso in Cassazione nei loro confronti». RICONOSCIUTA STRAGE. Parla di giustizia invece la deputata modenese Manuela Ghizzoni (Pd), presidente della Commissione Cultura della Camera.
«Anche se con 68 anni di ritardo, oggi si è giunti ad una sentenza definitiva che rende giustizia, con la condanna di tre imputati, su una orribile pagina della nostra storia, per quella che è riconosciuta come la strage più feroce perpetrata nella provincia di Modena. Ora attendiamo le motivazioni che hanno portato alla sentenza». A MONCHIO UCCISE 150 PERSONE. Ghizzoni ha ricordato in particolare la strage di Monchio.
«Dopo la condanna in primo grado arriva oggi una parziale conferma che riporta alla luce una verità dimenticata: il 18 marzo 1944 a Monchio, Susano e Costrignano, le truppe naziste, guidate da reparti della divisione corazzata Hermann Goring, trucidarono 150 persone, in rappresaglia contro la costituzione delle brigate partigiane sull’Appennino modenese», ha aggiunto la deputatta del Pd, aggiungnedo: «Ora abbiamo la responsabilità di tenere viva la memoria di quanto accaduto, perché solo attraverso la conoscenza del sacrificio e dell’impegno di quanti hanno perso la vita in difesa della democrazia e contro la barbarie nazista è possibile sconfiggere la cultura della violenza e della sopraffazione».
Il caporale Alfred Stork è accusato di aver preso parte materialmente alla strage in cui furono uccisi 117 ufficiali italiani, prigionieri di guerra e appartenenti alla Divisione Acqui. L’avvocato: “E’ innocente, obbedì a degli ordini”. Archiviazione per altri due soldati
Il gup del tribunale militare di Roma, Giorgio Rolando, ha rinviato a giudizio Alfred Stork, ex sottufficiale della Wehrmacht, ora 89enne, accusato di aver preso parte materialmente all’eccidio di Cefalonia, il 27 settembre 1943, quando alla “casetta rossa” furono uccisi almeno 117 ufficiali italiani, prigionieri di guerra e appartenenti alla Divisione Acqui. La prima udienza del processo nei confronti dell’ex caporale tedesco è stata fissata per il 19 dicembre.
All’incriminazione dell’ex caporale tedesco gli inquirenti, coordinati dal procuratore militare di Roma Marco De Paolis, sono arrivati nell’ambito dell’inchiesta a carico di Otmar Muhlhauser, l’ex ufficiale morto nel luglio 2009 mentre era in corso l’udienza preliminare nei suoi confronti. Dalle indagini su Muhlhauser emersero dei sospetti anche nei confronti di altri due soldati della Wehrmacht, Gregor Steffens e Peter Werner, anch’essi quasi novantenni. Nei loro confronti, però il gip del tribunale militare ha disposto l’archiviazione, su richiesta dello stesso pm, ritenuto che non è stato trovato “alcun riscontro all’ipotesi accusatoria”.
Non è stato così per il caporale del 54esimo battaglione “Cacciatori da montagna” Stork: gli inquirenti ritengono di avere le prove della sua partecipazione “materiale” alla fucilazione di ufficiali alla Casetta Rossa, il 24 settembre 1943. A cominciare dalla sua confessione. Sentito nel 2005 dai magistrati tedeschi, infatti, Stork ammise di aver fatto parte di uno dei due plotoni di esecuzione attivi quel giorno.
Con il rinvio a giudizio dell’ex militare si riapre una delle vicende giudiziarie più lunghe e controverse del dopoguerra, che – a parte la condanna “simbolica” inflitta dal tribunale di Norimberga al generale Hubert Lanz (12 anni, ma ne scontò solo tre) – ha visto concludersi in un nulla di fatto tutti i numerosi processi che si sono svolti in Italia e in Germania. Nessun colpevole per una strage la cui entità, in termini di vittime, è anch’essa controversa. Il numero complessivo dei caduti è oscillato a lungo da un minimo di 5mila uomini ad un massimo di oltre 10mila, in pratica l’intera Divisione Acqui: oggi, anche in base alle conclusioni dello stesso consulente tecnico della procura militare di Roma, Carlo Gentile, si tende a ritenere che nell’isola greca morirono circa 2.300 militari, un quarto in combattimento e gli altri fucilati dopo la resa; altri 1.500 affogarono nei naufragi delle navi con cui venivano deportati.
Soddisfatto il capo della Procura militare di Roma Marco De Paolis: “Speriamo di poter rendere un omaggio alla memoria dei nostri soldati caduti e di dare una risposta alle aspettative da lungo tempo attese da parte dei famigliari delle vittime. E’ un atto di giustizia”. A queste parole si aggiunge il commento di Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri, tra i soldati fucilati dai nazisti di Cefalonia: ”Serve ai giovani per far capire l’importanza della responsabilità personale: è giusto che ciascuno si assuma la responsabilità dei propri crimini, senza addebitarli ad altri. Per questo motivo mi sono costituita parte civile”. ”Gli ex nazisti a questi processi non si presentano mai – prosegue – non accettano di essere processati. Non nutro rancore nei confronti di Alfred Stork, anche lui è una vittima, responsabile, della violenza nazista”. L’ex caporale tedesco, 89 anni, con molta probabilità difficilmente sarà in aula per l’inizio del processo. I loro occhi non si incroceranno. Ma Marcella De Negri lancia un messaggio a Stork: “A me è piaciuto – spiega – ciò che è stato fatto in Sudafrica dopo l’apartheid. Sono disposta a perdonarlo se l’ex sottuficiale nazista si presentasse ed ammettesse le proprie responsabilità, o accettasse almeno una rogatoria internazionale”, come è stato chiesto dalla Procura militare di Roma.
Le fa eco Paola Fioretti, figlia del capo di stato maggiore Giovambattista Fioretti, un’altra vittima di Cefalonia (fu ucciso solo 4 giorni dopo il suo arrivo nell’isola greca): “Il perdono – dice – deve essere ragionato, ma sarebbe fondamentale anche per il mio spirito per conciliare gli affetti con la necessità di fare chiarezza, e il bisogno di pace”.
Sosterrà l’assoluzione, invece, l’avvocato Marco Zaccaria, legale di Stork: “Dal punto di vista umano, e come italiano, condanno ciò che hanno fatto Stork e il suo battaglione a Cefalonia. Ma l’ex sottufficiale tedesco non poteva sottrarsi agli ordini diretti di Hitler, ordini che l’ex caporale si è limitato ad eseguire, altrimenti sarebbe stato fucilato lui stesso. In base agli articoli 47 e 52 del Codice militare tedesco dell’epoca, avevo chiesto il proscioglimento in quanto Stork ha obbedito a un ordine diretto del Fuehrer”.
“Ci sono tutte le esimenti riconosciute dal Diritto penale internazionale – prosegue Zaccaria – che dovrebbero portare al proscioglimento di Stork”. Poco distante, nel corridoio del primo piano della Procura militare di Roma, davanti all’aula delle udienze preliminari, c’è anche Massimo Filippini, figlio del maggiore Federico Filippini, fucilato il 25 settembre 1943 sull’isola greca. Non mostra soddisfazione per il rinvio a giudizio di Stork, e scuote la testa: “La responsabilità di quelle morti -dice- è anche di Badoglio che inviò a Cefalonia l’ordine di resistere prima della dichiarazione di guerra firmata il 13 ottobre”.
È il 1929 e l’allora capo del governo italiano, il dittatore fascista Benito Mussolini (Rod Steiger) deve confrontarsi con la ventennale guerriglia intrapresa dai locali arabi e berberi di Libia che si battono contro il colonialismo italiano e le sue rivendicazioni di una “quarta sponda”, a simboleggiare un rinato Impero Romano sul suolo d’Africa.
L’Italia aveva occupato la regione, che era parte dell’Impero Ottomano, nel 1911-1912, sconfiggendo i turchi che occupavano il Paese. Nel film Mussolini nomina, come successore di Pietro Badoglio, il generale Rodolfo Graziani (Oliver Reed), sesto Governatore di Libia, sicuro che un militare di tale credito saprà schiacciare la rivolta e ristabilire la pace e la sicurezza dei coloni italiani, in gran parte provenienti dalle regioni povere del Sud Italia, dal Veneto e dall’Emilia.
Ad ispirare e guidare la resistenza è Omar al-Mukhtar (Anthony Quinn). Insegnante di professione, guerrigliero per dovere, Omar al-Mukhtar si è votato ad una lotta che non potrà vedere vinta nel corso della propria vita. Un imperialista contro un idealista con un’ideologia nazionalista.
Omar al-Mukhtar ed i suoi uomini si avvalevano di armi obsolete. Graziani controllava il Nordafrica con la forza dell’esercito italiano, aeroplani e carri armati furono impiegati per la prima volta nel deserto. Una dotazione primitiva non poteva reggere il confronto con delle armi moderne – come si afferma anche nel film – e malgrado il loro coraggio i libici soffrirono pesanti perdite (ma nel film si vedono morire quasi esclusivamente soldati italiani, in particolare camicie nere, i cui ufficiali si distinguono per efferatezza).
Nonostante tutto ciò, essi impegnarono per venti anni gli italiani impedendo loro di conseguire una vittoria completa. Nel film poi pochi cavalieri berberi amati di fucili, sconfiggono più volte le colonne italiane con le autoblindo e le mitragliatrici, che si scontrano, in maniera poco credibile, tra loro. In una scena vi è una carica di beduini a cavallo, armati di fucili, contro carri armati italiani, e questi cominciano a esplodere uno dopo l’altro, perché entrano in un campo minato, preparato con esplosivo rubato da un deposito di munizioni in un’azione precedente.
In una scena Omar al-Mukhtar mostra il suo vero e più intimo lato umano rifiutandosi di uccidere un giovane ufficiale superstite di un agguato, riconsegnandogli addirittura la bandiera italiana catturata in combattimento. Omar al-Mukhtar dice che nell’Islam non si uccidono i soldati prigionieri, ma si lotta solo per la propria patria e solo se mossi dalla necessità; altrimenti si deve odiare la guerra. Lo sceneggiatore farà successivamente uccidere quel tenente italiano alle spalle e a tradimento da un altro ufficiale italiano, appartenente alla milizia fascista.
Nel film al-Mukhtar viene catturato dalle truppe nazionali italiane (mentre in realtà fu catturato da uno squadrone di regolari libici a cavallo, inquadrati nell’Esercito italiano).
Nelle riprese è presente anche un raro documento di una veduta aerea del campo di concentramento che gli italiani crearono in Libia per rinchiudere i dissidenti. In alcune scene vengono usati i gas per combattere i ribelli ed è rappresentato un bombardamento aereo su un’oasi nel deserto.
Il film appare ambientato nel 1931, anno in cui Graziani – figura chiave del film – fu nominato vice governatore della Cirenaica, una delle due regioni libiche.
L’arresto di Omar al-Mukhtar da una foto dell’epoca
Note
Il leone del deserto (in arabo: أسد الصحراء, Asad al-ṣaḥrāʾ ), realizzato nel 1981 per la regia di Moustapha Akkad, è un film storico, basato sulla vita del condottiero senussita libico Omar al-Mukhtar, che si batté contro l’esercito italiano precedentemente alla seconda guerra mondiale, interpretato da Anthony Quinn.
Il film è stato censurato impedendone la distribuzione in Italia, in quanto “lesivo all’onore dell’esercito italiano”, dove è stato trasmesso in televisione solo nel 2009 a distanza di quasi trent’anni.
Il regista e produttore siriano Mustafà Akkad fu ucciso in Giordania nel 2005 in un attentato kamikaze di terroristi di al-Qāʿida ad Amman.
Censura in Italia
Le autorità italiane hanno vietato la proiezione del film nel 1982 perché, nelle parole del presidente del consiglio Giulio Andreotti, «danneggia l’onore dell’esercito». Il veto fu posto dall’allora sottosegretario agli Affari Esteri Raffaele Costa.
Fu anche intentato un procedimento contro il film per “vilipendio delle Forze Armate”. La pellicola non fu mai distribuita nel Paese, dove resta tuttora introvabile nelle videoteche, anche se più facilmente reperibile tramite Internet.
Nel 1987 fu bloccata la proiezione dalla Digos in un cinema di Trento, ci fu così un processo che si concluse però con un nulla di fatto.
L’anno seguente venne proiettato semi-ufficialmente nel festival di Riminicinema a Rimini.. In seguito è stato proiettato non ufficialmente in altri festival senza alcuna interferenza da parte delle autorità.
Craxi promise di mandarlo in onda sulla RAI, ma la promessa non fu mantenuta.
In occasione della sua prima visita ufficiale in Italia, il 10 giugno 2009, il leader libico Mu’ammar Gheddafi si presentò all’aeroporto italiano di Ciampino con appuntata al petto la fotografia che ritrae l’arresto di al-Mukhtār, accompagnato dall’ormai anziano figlio dell’eroe libico. In quell’occasione, la piattaforma televisiva Sky annunciò la proiezione del film l’11 giugno, replicandolo più volte, ponendo così fine a un caso di censura durato quasi trent’anni.
Produzione
Il film venne girato a Hollywood, a Roma e Latina (si intravedono della città la Casa del Combattente e la Cattedrale di san Marco) e in Libia, nel deserto e nel Fezzan.
Il film Il leone del deserto fu parzialmente finanziato con 35 milioni di dollari da Mu’ammar Gheddafi, il quale chiese l’inclusione di una scena storicamente inesatta che mettesse in cattiva luce i Senussi, in modo da separare la figura di al-Mukhtar, suo riferimento ideale, da quella di re Idris I, capo dei Senussi e cacciato dalla rivolta di Gheddafi.
Il film è stato ripetutamente trasmesso dalla televisione libica, per diffondere la visione storica di Gheddafi il quale è rappresentato da bambino presente all’impiccagione di al-Mukhtar. Questa circostanza è un mero falso, in quanto Gheddafi nacque nel 1942, vale a dire alcuni anni dopo la morte di al-Mukhtar.
Critica
Lo storico inglese Denis Mack Smith ha scritto sulla rivista Cinema nuovo: “Mai prima di questo film, gli orrori ma anche la nobiltà della guerriglia sono stati espressi in modo così memorabile, in scene di battaglia così impressionanti; mai l’ingiustizia del colonialismo è stata denunciata con tanto vigore… chi giudica questo film col criterio dell’attendibilità storica non può non ammirare l’ampiezza della ricerca che ha sovrinteso alla ricostruzione”.
Il leone del deserto
Titolo originale Lion of the Desert
أسد الصحراء
Paese di produzione Libia
Anno 1981
Durata 172 min.
Colore Colore
Audio Sonoro
Genere Guerra, Storico
Regia Moustapha Akkad
Sceneggiatura H.A.L. Craig
Interpreti e personaggi
* Anthony Quinn: Omar al-Mukhtar
* Oliver Reed: Generale Rodolfo Graziani
* Rod Steiger: Benito Mussolini
* Irene Papas: Mabrouka
* John Gielgud: Sharif el-Gariani
* Raf Vallone: Colonnello Diodice
* Andrew Keir: Salem
* Gastone Moschin: Colonnello Tomelli
I bambini di Sant’Anna di Stazzema, sono diventati un simbolo e questo girotondo l’immagine cristallizzata di uno degli ultimi momenti felici prima di essere trucidati dalla Ss naziste in quella che resterà una delle più buie e tragiche pagine di storia.
La strage di Sant’Anna documentata dagli archivi fotografici degli Usa
Un vecchio del paese guarda il luogo dove sono stati sepolti 150 civili (di cui 28 bambini) uccisi dai nazisti come risposta alle azioni delle brigate partigiane che operavano nella zona.
Enrico Pieri con la madre e due sorelle. Enrico è l’unico sopravvissuto della strage del 12 agosto 1944
Il monumento che ricorda le vittime di Sant’Anna di Stazzema
Quattro giorni dopo l’archiviazione dell’inchiesta della Procura di Stoccarda sulle responsabilità di otto ex Ss nell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, il capo dello Stato esprime rammarico in un messaggio al sindaco di Bellona, teatro di altri crimini nazisti. “La memoria della strage sia di insegnamento alle nuove generazioni”
ROMA – “Registriamo con profondo rammarico le sconcertanti motivazioni con le quali è stata disposta, in Germania, l’archiviazione di procedimenti giudiziari contro soggetti accusati di partecipazione diretta a efferate stragi naziste”. E’ un passaggio del messaggio che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del 69° anniversario dell’eccidio di Bellona, ha inviato al sindaco Filippo Abbate.
Il “rammarico” e lo “sconcerto” di Napolitano sono riferiti alla decisione della giustizia tedesca di archiviare l’inchiesta 1nei confronti di otto ex funzionari delle Ss, accusati di avere partecipato alla strage di Sant’Anna di Stazzema, località toscana, fra Lucca e Massa, una rappresaglia che il 12 agosto del 1944 costò la vita a 560 civili italiani durante la seconda guerra mondiale. Per la carneficina, la giustizia italiana è ha emesso dieci condanne all’ergastolo 2, di cui tre confermate in Cassazione.
Nel messaggio, reso noto dal Quirinale, il capo dello Stato rivolge un “pensiero commosso alle 54 vittime innocenti travolte, insieme a tantissime altre, dall’inumana barbarie del nazifascismo che funestò l’Italia in quel tragico periodo della nostra storia. La memoria della strage deve essere perpetuata, affinché quelle vite così tristemente e assurdamente spezzate, siano sempre di monito e insegnamento per le nuove generazioni e le inducano a profondere ogni possibile sforzo per la costruzione di un mondo fondato sui valori di libertà, pace e dignità della persona, sanciti dalla Carta costituzionale”
“Nello stesso tempo – prosegue Napolitano – registriamo con profondo rammarico le sconcertanti motivazioni con le quali è stata disposta, in Germania, l’archiviazione di procedimenti giudiziari contro soggetti accusati di partecipazione diretta a efferate stragi naziste. Idealmente presente, formulo a lei, signor Sindaco, ai familiari delle vittime e alla cittadinanza tutta, i sentimenti della mia partecipe vicinanza”.
Le parole del presidente della Repubblica giungono quattro giorni dopo l’archiviazione e due giorni dopo il commento sulla vicenda di Michael Georg Link 4, ministro tedesco agli Affari europei, ospite a Palazzo Chigi. “Il governo federale continuerà ad assumersi la responsabilità storica” dei crimini commessi per mano dei tedeschi, aveva assicurato Link, comprendendo “il dolore delle persone interessate e la loro forte delusione”. Il ministro si era poi detto “sicuro che la procura di Stoccarda non abbia preso con facilità questa decisione. Ma la magistratura può decidere solo nel quadro delle leggi esistenti”.
Se in Germania si archivia, l’accertamento della verità nelle aule di giustizia italiane continua. E si torna a parlare dell’eccidio di Cefalonia, avvenuto il 24 settembre del 1943. E’ stata rinviata al 19 ottobre, al Tribunale militare di Roma, l’udienza preliminare nel procedimento a carico di Alfred Stork, ex militare della Wehrmacht, 89 anni, accusato di aver partecipato materialmente alle fucilazioni della Casetta Rossa, dove furono passati per le armi almeno 117 ufficiali italiani, prigionieri di guerra e appartenenti ai reparti della Divisione Acqui.
Il procuratore militare di Roma, Marco De Paolis, ha depositato altro materiale documentario. A verbale anche le testimonianze di 10 ex militari tedeschi, che si aggiungono ai quattro faldoni dell’inchiesta. Questa mattina l’ex sottufficiale Stork non era sul banco degli imputati. E non ha depositato una memoria difensiva. La sua difesa è affidata all’avvocato Marco Zaccaria.
“Bengasi” e “Cirenaica” sono nomi che in Italia pronunciamo con troppa inconsapevolezza. E invece, prima di farlo, dovremmo lavarci la bocca col sapone. In Cirenaica gli abusi, le ruberie, le deportazioni di massa e i massacri compiuti dal nostro imperialismo sono a monte di una lunga catena di eventi che, serpeggiando, si allunga fino alle ultime 48 ore.
A Bologna, “la Cirenaica” è un rione della prima periferia est, diviso a metà da Via Libia, e chissà in quante altre città la toponomastica ricorda i tempi in cui la Libia era “nostra”.
Nel 1911 festeggiammo il cinquantenario dell’Unità d’Italia invadendo quelle terre; solo vent’anni dopo terminammo di “riconquistarle”; dieci anni dopo le riperdemmo (ma nel ’42 il film di Genina terminava con un auspicio che oggi è diventato un “what if”).
Durante il governo Berlusconi, con uno sconcio trattato, abbiamo trasformato la Libia nel gendarme/carceriere di migliaia di migranti, gente da fermare prima che attraversasse il Mare nostrum.
Appena l’anno scorso abbiamo festeggiato il centocinquantenario dell’Unità d’Italia – nonché il centenario della prima invasione – unendoci ai bombardamenti NATO, e in fondo tutto torna: nel 1911 la Libia fu la prima terra a essere bombardata dal cielo, e a bombardarla fummo noi. Erano ancora tempi lo-tech e le distruzioni avvenivano un po’ alla buona, coi piloti che lanciavano bombe a mano sui bersagli. Cento e uno anni dopo, a Bengasi arrivano i droni, lo ha annunciato Obama. I droni. Se non è progresso questo…
Ma non siamo gli unici a festeggiare gli anniversari e a giocare col numero 11: 11 settembre 2001, 11 settembre 2012, 11 anni. In Libia, tutta la merda riparte daccapo. Sempre. E l’Italia, come ha sempre fatto dal 1911, troverà il modo di sguazzarci.
Non solo abbiamo rimosso gran parte di questa storia (ben venga il finale di Bengasi a riassumerla in un’unica, potente immagine!), ma dedichiamo vie, parchi e sacrari agli sterminatori che allagarono la Libia di sangue.
Unire quel che appare diviso: ciò che succede ad Affile ha molto a che fare con ciò che succede a Bengasi. Non aver fatto i conti con quel che l’Italia fece a Bengasi ha prodotto lo scempio di Affile. Se non analizziamo lo scempio di Affile e non gli diamo la dovuta importanza, non capiremo nemmeno cosa ci lega, ancora e nonostante tutto, ai destini di Bengasi e della Cirenaica.