A un anno dalla scomparsa del grande alpinista ecco le sue 80mila fotografie da inviato e giornalista. L’archivio, gestito da Contrasto, racconta viaggi al di là delle vette. Rossana Podestà: la lezione era “vivere”. Smise di cercare la verticalità, la montagna lo aveva tradito e andò per altri orizzonti
di EMANUELA AUDISIO
Partì primo e sempre bene. Anticipò mode e tendenze. Era un uomo aperto, fatto per stare all’aperto. Outdoor, into the wild, ambiente, no logo. Il cielo sopra la sua testa era sempre pulito. E la temperature mai mite: o troppo caldo o troppo freddo. Il look era perfetto: semplice, funzionale, curato. Molto meglio di Bruce Lee con un serpente boa tra le mani, più bello di James Bond mentre scala un vulcano, un Rambo ecologista che si cuce gli scarponi, più sexy di Phelps quando nuota tra ippopotami e coccodrilli. Lui non era mai Lost. Era Mister Avventura: sempre in missione. Non un agente speciale, ma un uomo normale. Con uno stile e un’eleganza tutta sua: a torso nudo, in t-shirt, con il jeans strappato sotto il ginocchio, come va di moda oggi, ma lui per l’incornata di un bufalo. Mai un logo in evidenza, li scuciva.
Walter Bonatti se n’è andato un anno fa. Ma la sua voglia di andare è rimasta intatta nelle sue cartoline dal mondo: in 80 mila scatti fotografici, ora in gestione all’agenzia Contrasto. Tra Salgari, Jack London, Melville per chi è nato a metà secolo e Indiana Jones, Chatwin e The Avengers per chi è nato dopo, passando per Lévi Strauss. Perché ad un certo punto Walter smise di cercare verticalità, la montagna lo aveva tradito, e andò per altri orizzonti: mari, fiumi, foreste, giungle, deserti, vulcani. Tra animali preistorici e tribù sconosciute. Nelle correnti del mondo, anche in quelle proibite. Viaggiò in piena libertà per Epoca, quando l’Italia era ben contenta di avere una casa e di starci. Si espose, si mischiò, studiò vite e comportamenti: dei cacciatori di teste e dei crateri. Prima conosceva e si faceva conoscere, passava tre-quattro mesi nell’ambiente scelto, tra indigeni e animali, solo dopo fotografava. Quando né gli altri né lui erano più estranei. C’erano da fare 2.500 chilometri da solo in canoa sul fiume Yukon in Alaska sulle tracce dei cercatori d’oro? Semplice.
Aveva iniziato a fotografare nel’58, quando la tecnologia davanti all’infinito doveva arrendersi. “Al polo del freddo, in Siberia, a meno 65 gradi, le pellicole a colore si sbriciolavano, ero costretto a mettermi al collo più macchine fotografiche, con ognuna un clic e basta, sfilarsi i guanti a quelle temperature significava congelarsi le mani”. Il Nevado Rondoy sulle Ande peruviane il suo primo servizio da professionista. “Rimasi affascinato dalle valli, dalle genti, dagli indios. Ma il materiale pesava, ero solo, stavo fuori dai 3 ai 6 mesi, spesso dove abbandonare pezzi, l’eccedenza bagaglio superava il quintale. Per fotografarmi inventai l’autoscatto a onde radio, un centralina con tre pulsanti, che copriva un raggio di 500 metri, mettere il cavalletto con il filo era impossibile, visto che gli animali lo mangiavano. I lettori protestarono: perché Bonatti dice di essere solo quando nella foto è a 200 metri dall’obbiettivo? Dovetti spiegare in un servizio il mio sistema”.
A Walter piacevano: natura scorbutica e tempeste perfette. Nel ’67 maremoto ai Caraibi per il ciclone Beulah: “Mi legai con una corda lunghissima ad un amico e mi buttai tra le onde perché volevo fotografare da vicino, se andava male, lui mi avrebbe recuperato”. Nel ’66 c’è il bivacco in Tanzania. “Mi fermai a dormire nella giungla accanto a una pozzanghera di fango putrido, ma arrivò un branco di leopardi assetati. La notte dopo pensai fossi meglio stare sotto un albero, ma scelsi il giaciglio di un leopardo che lì portava a frollare i resti delle sue prede, e mi toccò arrampicarmi sui rami”.
Rossana Podestà, per 30 anni compagna di vita e di avventure, che ha curato per Rizzoli un nuovo libro (“Walter Bonatti. Una vita libera”) ricorda: “Walter non era altezzoso, si accucciava davanti agli animali, ai leoni, e restava lì immobile per giorni. Voleva farsi accettare, vivere la loro vita. In Patagonia abbiamo sofferto la fame, a Comodoro Rivadavia abbiamo noleggiato una vecchia autoambulanza da un prete, e poi c’inoltravamo a piedi nelle valli, ma un calcolo sbagliato delle razioni ci ha lasciato per due giorni senza cibo, ci ha salvato la scorta di pasta di un giapponese, morto purtroppo sotto un albero crollato. E in Kamchatka, ai confini del mondo, una penisola tra lo stretto di Bering, l’Oceano Pacifico e il Mare di Okhotsk, quando la giovane guida russa ci ha visti arrivare con i capelli bianchi ha detto: no, no, a voi non vi porto, siete vecchi. Teneva Walter per mano, e lui mi faceva l’occhietto, come per dire: accontentiamolo. Quando ha visto Walter scalare il vulcano, senza corde, entrarci dentro, è rimasto a bocca aperta e non ha più parlato. Al rientro mi ha chiesto come si chiamasse Walter. E il giorno dopo è venuto in aeroporto a scusarsi: sorry sir, sorry”.
Bonatti non dava mai colpe alla natura, anche se in Tanzania era stato assalito da tre bufali eccitati. “Due mi sono passati accanto, il terzo mi ha centrato. Mi ha salvato la mia abilità di ex ginnasta, ho fatto una specie di salto mortale, e ho evitato di ricadere sulle corna di quello di più aggressivo. Avevo sbagliato io a muovermi, il sole era allo zenith, ho rotto un equilibrio naturale. Spesso gli uomini hanno più colpe degli animali”. Era fatto così Walter: pure quando la vita andava storta, riusciva a restare dritto. E la sua lezione è sempre quella: bisogna vivere e viversi.
Walter Bonatti, dall’Alaska alle Ande
A un anno dalla scomparsa del grande alpinista, ecco alcune delle sue 80mila fotografie da inviato e giornalista. L’enorme archivio, gestito da Contrasto, racconta viaggi al di là delle vette.
(Foto dall’archivio dell’agenzia fotografica Contrasto)