A Lampedusa ci sono due buche. In una ci stanno i morti, nell’altra i vivi. Hanno una caratteristica in comune: sono tutti senza nome. Sono due buche che stanno fuori dal piccolo centro abitato, una in Contrada Cala Pisana, l’altra in Contrada Imbriacola. Sono rispettivamente il cimitero e il centro di accoglienza per stranieri del quale sentiamo parlare spesso e male. Secondo i dati del Ministero dell’Interno può accogliere 381 stranieri, ma il sindaco Giusi Nicolini dice che attualmente ce ne sono più di mille di cui oltre cento sono bambini. La andiamo a vedere questa buca. In fondo ad una strada c’è un cancello. Si sentono le voci di quelli che stanno dentro, ma è più corretto dire fuori. Fuori dagli edifici che non possono contenerli tutti. Accasciati a terra, divisi in gruppetti. Uno cerca di ripararsi dal sole con le copertine d’emergenza che vediamo in televisione, quelle che sembrano d’alluminio.
Abbiamo fatto la richiesta per entrare, ma non ci hanno autorizzato. Perché? Per motivi di sicurezza? La sicurezza di chi? La nostra? La sicurezza di chi non ha mai visto luoghi come questo e immagina che l’Italia sia un paese civile? Di chi non trova scandaloso che ci siano tre persone dove una starebbe stretta?
Saliamo sulla collina accanto al centro. Filippo Miraglia dell’Arci mi dice «da lì si vede tutto». Ecco la buca! Un mucchietto di edifici prefabbricati bianchi col tetto rosso. In fondo c’è lo stabile che bruciò. È vuoto e pericolante. Sotto i pochi alberi all’interno della rete ci sono gli stranieri senza nome. Dovrebbero restare qui per un massimo di 48 ore, ma due eritrei appoggiati alla rete col filo spinato ci dicono che sono arrivati da una settimana, un siriano da 15 giorni. Giusi dice che possono restare per settimane ammassati lì dentro. E poi? Vengono trasferiti e se in 18 mesi di fermo non è stato possibile rimandarli al loro paese tocca liberarli. È difficile sapere chi siano. Molti non dicono né il luogo di provenienza, né il nome. Molti stati non rispondono, sono in guerra, hanno altri problemi. E poi gli stranieri non sono venuti in Italia facendo traversate terrificanti per farsi rimandare indietro. Sono qui perché si vogliono salvare da conflitti e miseria. Non vogliono che gli siano prese le impronte digitali, nemmeno richiedono l’asilo perché temono di dover restare in Italia che è un paese difficile per i rifugiati. E poi se ne vogliono andare dai parenti che stanno in altre nazioni europee.
Molti dopo un anno e mezzo saranno liberati. Gli si dirà «adesso tornatevene a casa». Ci andranno? No, perché hanno rischiato di morire pur di scappare. Hanno sofferto rinchiusi in una galera che è peggio delle peggiori prigioni italiane. E l’hanno fatto senza aver compiuto reati. Perciò non se ne andranno a casa. Qualcuno sogna il ricongiungimento e cercherà di scappare in un paese migliore del nostro. Qualcun altro, condannato alla clandestinità, resterà in Italia. Non potrà avere un lavoro regolare e s’arrangerà accettando qualche lavoro pesante in cambio di una paga umiliante, ma non si lamenterà mai. Non se lo potrà permettere. E se venisse nuovamente fermato dalle forze dell’ordine? Non potrà essere condannato ad una nuova detenzione perché non ha compiuto alcun reato e anche perché la sua galera se l’è già scontata una volta. Dovrà pagare una multa con soldi che non ha e poi sarà invitato nuovamente a tornarsene al suo paese. E nuovamente resterà in Italia a fare lo schiavo e a tenere la testa bassa per non farsi vedere.
Qualcuno di loro delinquerà e finirà in galera. Ma questo è un discorso diverso. Ognuno di noi può interrogarsi e dare giudizi. In queste righe voglio parlare dell’enorme maggioranza che vorrebbe vivere onestamente e non ne ha la possibilità. A quegli esseri umani io darei la cittadinanza italiana senza stupide discussioni. Se la meritano più degli italiani disonesti che hanno una carta d’identità in tasca.
Ci sono due buche a Lampedusa, una in Contrada Imbriacola, l’altra in Contrada Cala Pisana. Nella prima ci sono più di mille stranieri senza nome. Molti di loro resteranno ombre anonime per molto tempo. Forse per sempre.
Nell’altra c’è un cimitero con tanti morti italiani. Hanno la foto sulla lapide. Ci sono quelle in bianco e nero che mostrano visi sereni con baffi d’altri tempi e signore antiche col fazzoletto in testa. Ci sono le foto a colori stampate su fogli di plastica che li ritraggono accanto al mare o con lo sfondo di un bel tramonto. Ma poi ci sono le fosse senza nomi, croci di legno con un numero. Giusi Nicolini ha voluto che ci si scrivesse qualcosa. Su una leggo che «all’alba del 21 gennaio 2009 una barca giunge al molo di Cala Pisana. A bordo 53 migranti stremati ed il corpo senza vita di un giovane ragazzo di circa 20 anni e di probabile origine sub Sahariana. Qui riposa»
Il 17 marzo del 2012 i morti trovati in un’altra piccola imbarcazione sono 5 ed hanno un’età stimabile tra i 20 e i 30 anni. La scritta sulla lapide accanto dice che un anno prima n’era morto un altro della stessa età. Nell’aprile del 2009 c’è il mare grosso e in mezzo una barca con 153 migranti. C’è una ragazza morta tra loro. Il suo nome lo sappiamo dal fratello Austin che sta accanto a lei.
Quel giorno vengono soccorsi dal mercantile turco Pinar che se li carica, cambia rotta e si dirige verso Lampedusa per salvargli la vita. Questa storia me la ricordavo poco e male, ma sulla lapide mi rileggo che «per quattro interminabili giorni la Pinar rimane a 25 miglia a sud di Lampedusa bloccata da un assurdo braccio di ferro tra governo Maltese e governo italiano che si rifiutano di accogliere il mercantile. Soltanto il 20 aprile viene autorizzato l’ingresso della nave nelle acque territoriali italiane. I migranti vengono finalmente accolti a Lampedusa. Qui riposa Ester Ada. Nata in Nigeria l’11 maggio 1991».
Dunque, come sempre succedono molte cose, molte più cose di quelle che entrano in un giornale, in un blog, in un servizio televisivo, in telegiornale o anche in un’intera giornata di letture e di ricerche in rete, sui giornali, in televisione o anche al bar.
Una cosa che mi ha colpito di questi ultimi giorni è la gambizzazione di Adinolfi, ma soprattutto la rivendicazione di questo nucleo Olga, di questo FAI. Mi ha colpito molto per tanti motivi; il primo è che è strano che questo gruppo si definisca FAI, quando il FAI che conosciamo da qualche decennio è tutt’altra cosa: la Federazione Anarchica Italiana che, l’ultima volta che è stata armata, è stata durante la seconda guerra mondiale, durante il periodo della lotta di liberazione nazionale e della lotta partigiana.
L’eccidio delle Fosse Ardeatine è il massacro compiuto a Roma dalle truppe di occupazione della Germania nazista il 24 marzo1944, ai danni di 335 civili e militari italiani, come atto di rappresaglia in seguito a un attacco partigiano contro le truppe germaniche avvenuto il giorno prima in via Rasella. Per la sua efferatezza, l’alto numero di vittime, e per le tragiche circostanze che portarono al suo compimento, è diventato l’evento simbolo della rappresaglia nazista durante il periodo dell’occupazione.
Le “Fosse Ardeatine”, antiche cave di pozzolana site nei pressi della via Ardeatina, scelte quali luogo dell’esecuzione e per occultare i cadaveri degli uccisi, sono diventate un monumento a ricordo dei fatti e sono oggi visitabili.
Entrata alle fosse
Inquadramento storico
10 settembre 1943 soldati italiani cercano di contrastare i nazisti presso porta San Paolo
Sottoposta pro forma alla sovranità della RSI, con lo status di “città aperta”, Roma era in realtà governata solo dai comandi germanici, e lo divenne anche formalmente dopo lo sbarco di Anzio, il 22 gennaio 1944, quando l’intera provincia romana venne dichiarata “zona di operazioni”. Il feldmarescialloAlbert Kesselring, comandante del fronte meridionale, nominò capo della Gestapo di Roma, conferendogli direttamente il controllo dell’ordine pubblico in città, l’ufficiale delle SSHerbert Kappler, già resosi protagonista della razzia del ghetto ebraico e della successiva deportazione, il 16 ottobre1943, di 1.023 ebrei romani verso i Campi di sterminio.
La campagna del terrore avviata da Kappler, con frequenti rastrellamenti ed arresti di antifascisti e semplici sospetti nei vari carceri romani (fra cui il più tristemente famoso fu quello di via Tasso), sgominò in breve quasi ogni gruppo della resistenza romana, che si ritrovò a perdere prima gli elementi militari, quindi quelli trotzkisti di “Bandiera Rossa“. Anche gli aderenti a “Giustizia e Libertà” e al Partito Socialista e i sindacalisti socialisti (come Bruno Buozzi) subirono forti decimazioni negli arresti compiuti dalle varie polizie tedesche, da quella italiana e dalle bande italiane sotto controllo tedesco (come la Banda Koch). Solo i GAP comunisti mantenevano una buona efficienza operativa.
Il fatto che Roma venisse a trovarsi nelle immediate retrovie del fronte ingenerò la convinzione che la città fosse pienamente teatro di guerra. È in questo contesto che i quadri comunisti della Resistenza romana giunsero alla determinazione di reagire con le armi e di attaccare militarmente l’occupante con un’azione che avesse un forte valore simbolico: venne infatti scelto come data il 23 marzo, anniversario della fondazione dei fasci di combattimento.
L’attacco di via Rasella
Il 23 marzo 1944 ebbe luogo l’attacco contro l’11a compagnia del III battaglione dell’SS-Polizeiregiment “Bozen” in via Rasella, per iniziativa di partigiani dei GAP Gruppi di Azione Patriottica delle brigate Garibaldi, che ufficialmente dipendevano dalla Giunta militare che era emanazione del Comitato di Liberazione Nazionale. Quanto all’appartenenza del Polizeiregiment “Bozen” alle SS, esistono versioni discordanti, in quanto la denominazione, pur solo formale, del reparto in SS-Polizeiregimenter avvenne solo il 16 aprile 1944, 24 giorni dopo l’attentato.[2] Tale reparto fu segnalato come bersaglio da Giorgio Amendola, poiché lo vedeva “passare ogni pomeriggio” “in pieno assetto di guerra”, lasciando poi al comando partigiano “assoluta libertà d’iniziativa”[3], non per eventuali responsabilità dei soldati che vi appartenevano.
L’attacco venne compiuto da 12 partigiani.[4] Fu utilizzata una bomba a miccia ad alto potenziale; collocata in un carrettino per la spazzatura urbana, confezionata con 18 kg di esplosivo misto a spezzoni di ferro e dopo l’esplosione furono lanciate alcune bombe a mano. Vennero uccisi 32 militari dell’11a Compagnia del III Battaglione del Polizeiregiment Bozen[5] e un altro soldato morì il giorno successivo (altri nove sarebbero deceduti in seguito). L’esplosione uccise anche due civili italiani, Antonio Chiaretti, partigiano della formazione Bandiera Rossa, ed il tredicenne Piero Zuccheretti.[6]
La rappresaglia
Alla notizia dell’attentato, il generale Kurt Mälzer comandante della piazza di Roma, accorso sul posto, parlò stravolto di una rappresaglia molto grave e dello stesso parere fu inizialmente Hitler.
Successivamente vari ragionamenti condussero a quantizzare la rappresaglia, e la decisione del comando nazista fu la conta di 10 ostaggi fucilati per ogni tedesco ucciso. La fucilazione di 10 ostaggi per ogni tedesco ucciso fu ordinata personalmente da Adolf Hitler, dopo aver vagheggiato apocalittiche proporzioni di 50 ad 1[senza fonte], la distruzione dell’intero quartiere (che comprende il Quirinale) e la deportazione da Roma di 1000 uomini per ogni tedesco ucciso. La convenzione dell’Aia del 1907 non fa un esplicito riferimento alla rappresaglia,[7] mentre la Convenzione di Ginevra del 1929, relativa al Trattamento dei prigionieri di guerra, fa esplicito divieto di atti di rappresaglia nei confronti dei prigionieri di guerra nell’Articolo 2.[8] Dal punto di vista internazionale l’argomento rappresaglia era contemplato nei codici di diritto bellico nazionali, in cui si faceva riferimento ai criteri della proporzionalità rispetto all’entità dell’offesa subita, della selezione degli ostaggi (non indiscriminata) e della salvaguardia delle popolazioni civili. Alcuni di questi aspetti furono violati: nella selezione degli ostaggi, poiché si procedette alla fucilazione anche di personale sanitario, infermi e malati ed inoltre poiché non risulta che sia stata eseguita da parte tedesca alcuna seria indagine per appurare l’identità dei responsabili dell’attacco, né si attesero le 24 ore di consuetudine affinché gli stessi si consegnassero spontaneamente, condizioni necessarie per la legittimità dell’azione di rappresaglia. Com’è noto, infatti, non venne neppure affisso il consueto bando nelle pubbliche piazze, limitando l’affissione, secondo la testimonianza dell’ambasciatore Roberto Caracciolo, ai soli uffici tedeschi.[9]
Nella scelta delle vittime, furono privilegiati criteri di connessione con la resistenza militare monarchica e coi i partigiani, e di appartenenza alla religione ebraica, e se in un primo tempo si tese ad escludere persone rastrellate al momento e/o detenuti comuni, successivamente, per raggiungere il numero di vittime volute, un certo numero di ostaggi fu poi costituito da reclusi condannati (o in attesa di processo) per delitti di natura non politica. Costoro furono prelevati, insieme a militari, membri attivi della resistenza e ad altri antifascisti, dal carcere romano di Regina Coeli, dove erano tenuti prigionieri. Nella consegna degli ostaggi, le autorità carcerarie romane frapposero ostacoli di ordine burocratico, nella speranza che gli autori dell’attentato si consegnassero entro le 24 ore, sospettando che i tedeschi avrebbero potuto vendicarsi ugualmente.[10] La strage iniziò infatti nemmeno 23 ore dopo l’agguato partigiano.
Dalle salme identificate (322 su 335) si ricava che circa 39 erano ufficiali, sottufficiali e soldati appartenenti alle formazioni clandestine della Resistenza militare, circa 52 erano gli aderenti alle formazioni del Partito d’Azione e di Giustizia e Libertà, circa 68 a Bandiera Rossa, un’organizzazione comunista trockijsta non legata al CLN, e circa 75 erano di religione ebraica. Altri, fino a raggiungere il numero previsto, furono detenuti comuni. Quindi circa metà dei giustiziati furono partigiani detenuti; di questi, cinquanta furono individuati e consegnati ai nazisti dal questore fascista Pietro Caruso, dietro minaccia da parte tedesca di procedere con un rastrellamento arbitrario del quartiere di Piazza Barberini.[11] Non mancarono tuttavia tra gli uccisi i rastrellati a caso e gli arrestati a seguito di delazioni dell’ultim’ora.
L’esecuzione
Il massacro fu organizzato ed eseguito da Herbert Kappler, all’epoca ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca a Roma, già responsabile del rastrellamento del Ghetto di Roma nell’ottobre del 1943 e delle torture sui partigiani detenuti nel carcere di via Tasso.
L’ordine di esecuzione riguardò 320 persone, poiché inizialmente erano morti 32 soldati tedeschi. Durante la notte successiva all’attacco di via Rasella morì un altro soldato tedesco e Kappler, di sua iniziativa, decise di uccidere altre 10 persone. Erroneamente, causa la “fretta” di completare il numero delle vittime e di eseguire la rappresaglia, furono aggiunte 5 persone in più nell’elenco ed i tedeschi uccisero anche loro.
I tedeschi, dopo aver compiuto il massacro, infierendo sulle vittime, fecero esplodere numerose mine per far crollare le cave ove si svolse il massacro e nascondere, o meglio rendere più difficoltosa, la scoperta di tale eccidio.
I sopravvissuti del Polizeiregiment “Bozen”, si rifiutarono di vendicare in quel modo i propri compagni uccisi.[12]
L’esecuzione iniziò dopo sole 23 ore dall’attacco di Via Rasella, e venne resa pubblica ad esecuzione avvenuta. La stessa segretezza avvolse la notizia ufficiale dell’attentato subìto dalle truppe occupanti, notizia diffusa assieme a quella della rappresaglia per ragioni propagandistiche secondo una direttiva del Minculpop.[13]
Processi ai responsabili dell’eccidio
Nel dopoguerra, Herbert Kappler venne processato e condannato all’ergastolo da un tribunale italiano e rinchiuso in carcere. La condanna riguardò i 15 giustiziati non compresi nell’ordine di rappresaglia datogli per vie gerarchiche. Colpito da un tumore inguaribile, con l’aiuto della moglie riuscì ad evadere dall’ospedale militare del Celio e a rifugiarsi in Germania, ove morì pochi anni dopo. Anche il principale collaboratore di Kappler, l’ex-capitano delle SS Erich Priebke, dopo una lunga latitanza in Argentina, è stato arrestato ed estradato in Italia, ove, processato, è stato condannato all’ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine. Anche Albert Kesselring, catturato a fine guerra, fu processato e condannato a morte il 6 maggio1946 da un Tribunale Alleato per crimini di guerra e per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, ma la sentenza fu commutata nel carcere a vita. Nel 1952 fu scarcerato per motivi di salute e fece ritorno in Germania, dove si unì ai circoli neonazisti bavaresi. Morì nel 1960 per un attacco cardiaco.
Il monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine
L’interno del sacrario
Subito dopo la fine della guerra il comune di Roma bandì un concorso per la sistemazione delle cave ardeatine e la costruzione di un monumento in ricordo delle vittime dell’eccidio nel luogo stesso in cui avvenne: le cave di pozzolana della via Ardeatina; fu il primo concorso d’architettura nell’Italia liberata[14][15]
Dalle due fasi del concorso uscirono vincitori ex aequo due gruppi: quello formato dagli architetti Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, Mario Fiorentino e dallo scultore Francesco Coccia e quello formato dagli architetti Giuseppe Perugini e Mirko Basaldella. Ai due gruppi fu assegnato l’incarico di un progetto comune per la costruzione di un sacrario, la sistemazione del piazzale e il consolidamento delle gallerie fatte esplodere dai nazisti dopo l’eccidio: quello che è stato chiamato monumento, o mausoleo, ai martiri delle Fosse Ardeatine.
Edgarda Ferri, “Uno dei tanti – Orlando Orlandi Posti ucciso alle Fosse Ardeatine. Una storia mai raccontata” – Le Scie Mondadori, marzo 2009
Orlando Orlandi Posti – A cura di Loretta Veri, Roma ’44. Le lettere dal carcere di via Tasso di un martire delle Fosse Ardeatine, Roma, Donzelli, 2004
Attilio Ascarelli – Arrigo Palladini (testi di), Fosse Ardeatine. Geografia del dolore, Roma, Anfim, 2001, p. 217
Franca Caputo – Giorgio Caputo, La speranza ardente. Storia e memoria del movimento studentesco antifascista, Roma, Il Tipografo, 1998, pp. 176-184
Enzo Collotti – Renato Sandri – Frediano Sassi (a cura di), Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2001, vol. II p. 382
Martino Contu, I Martiri Sardi delle Fosse Ardeatine. I militari, Cagliari, AM&D Edizioni, 1999, pp. 59, 60, 61, 63, 69, 70
Edgarda Ferri, Uno dei tanti, Mondadori, 2009
Mimmo Franzinelli (a cura di), Ultime lettere dei condannati a morte e di deportati della Resistenza. 1943-1945, Milano, Mondadori, 2005, pp. 191-192
Giorgio Mastino Del Rio, Ho invocato un morto, Roma, Magi Spinetti editore, 1948
Sergio Piccioni, Roma 1944: le Fosse Ardeatine, Firenze, La Nuova Italia, 1968
Mario Avagliano – Gabriele Le Moli, Muoio innocente. Lettere di caduti della Resistenza romana, Milano, Mursia 1999
J. Staron, Fosse Ardeartine e Marzabotto. Storia e memoria di due stragi tedesche, Bologna, Il Mulino, 2007
La Buona Battaglia – Don Pietro Pappagallo (2006) Con Flavio Insinna
Iscrizione commemorativa
ANFIM
L'”Associazione nazionale famiglie italiane martiri caduti per la libertà della patria” (ANFIM), si formò nel 1944 con lo scopo di dare un nome e una degna sepoltura ai fucilati nell’eccidio. In seguito ha mantenuto il ricordo dei martiri delle Fosse Ardeatine, di Forte Bravetta, di La Storta. L’associazione promuove visite guidate al mausoleo ardeatino e produce materiale storico e documentario.[20]
Bibliografia
Robert Katz, Morte a Roma. Il massacro delle Fosse Ardeatine, Milano, Il Saggiatore, 2004. ISBN 978-88-515-2153-0
Lorenzo Baratter, Le Dolomiti del Terzo Reich, Milano, Mursia, 2005. ISBN 978-88-425-3463-1
Francesco Danieli, Un libro vivente di Storia d’Italia. Corrado De Rossi, fra Roma e Nardò, nel ricordo delle Fosse Ardeatine, in «Spicilegia Sallentina», III (2008), pp. 141-143.
La Storia siamo noi, “Morte a Roma” ampio documentario storico, documenti e testimonianze sull’Eccidio delle Fosse Ardeatine e l’attacco di via Rasella.
Mi affascinano le contraddizioni dei protagonisti di quest’epoca
Quando Mario Martone mi parla del film al quale sta lavorando manca ancora un anno o due alle celebrazioni per il centocinquatesimo dell’Unità d’Italia. Dice che nel suo film non si occuperà di un evento importante come la Repubblica Romana del 1849 ma che sarebbe una storia adatta a me. Un po’ come ho fatto in quella dell’eccidio alle Fosse Ardeatine, Radio Clandestina, che debuttò undici anni fa al Teatro di Roma quando era diretto da lui e che nacque da una sua proposta. A me il Risorgimento non interessa e mi fanno tristezza le celebrazioni con le bandiere e le corone dei fiori. Né mi interessa andare alla ricerca di anniversari per pescare finanziamenti. Gli americani infilano la bandiera da tutte le parti e a vederli un po’ da lontano pare proprio che ci credano. Loro ne hanno bisogno per cancellare il senso di colpa per un genocidio che è costato un numero incalcolabile di nativi e per inventarsi un baraccone nel quale si finga di essere tutti fratelli, ex-italiani immigrati con gli ex-schiavi deportati, ex-ebrei-sopravvissuti con ex-galeotti inglesi, eccetera. Ma per noi, che abbiamo imparato a parlare l’italiano perché ci siamo comprati la televisione a rate, la bandiera è un simbolo che sventola allo stadio, sui tetti delle case in costruzione e, ultimamente, sui soldati rimpatriati morti. Ascolto le storie di Mario Martone, sembrano interessanti ma io penso che mi interesserò di qualcos’altro e che il 2011 non lo celebrerò col tricolore e quartetto Mazzini-Garibaldi-Cavour-Vittorio Emanuele.
Poi mi sono messo a leggere con un po’ di curiosità e il primo pregiudizio saltato è proprio quello del quartetto. Garibaldi era un eroe quando combatteva per i Savoia a Marsala o a Bezzecca ma diventata un terrorista quando arrivava a Mentana o in Aspromonte (dove furono gli «italiani» a sparargli ad una gamba). Cavour si fece notare quando un pezzo consistente di Risorgimento rivoluzionario e insurrezionalista aveva già segnato un ventennio di storia e fu un antimazziniano e monarchico convinto. Quanto poco fosse rivoluzionario Vittorio Emanuele lo si può immaginare dal fatto che portava la corona in testa. Mazzini, invece, era considerato un terrorista non solo dagli austriaci ma, soprattutto, dai governanti italiani. Nel 1870, quando i bersaglieri passavano attraverso la breccia di Porta Pia, lui aveva tentato l’ennesima insurrezione (stavolta contro lo Stato Italiano) e se ne stava in galera. Accanto a queste contraddizioni che poco si conciliano con l’infinita parata di monumenti che li raffigura insieme, che li accomuna nel marmo e nel bronzo, che in tanti anni di retorica gli ha attribuito scuole, strade e piazze, ci sono altri personaggi non meno interessanti. Penso per esempio a Felice Orsini e Carlo Pisacane, morti a distanza di un anno, il primo ghigliottinato e il secondo fatto a pezzi dai contadini di Sanza. Orsini perse la testa per aver lanciato un po’ di bombe contro Luigi Bonaparte, quel Presidente che, nonostante fosse a capo della Repubblica Francese, fu l’artefice della distruzione della Repubblica Romana e del ritorno di sua maestà Pio IV sul trono papale. Nel ’49 parve strano che proprio un repubblicano francese fosse il primo nemico dei repubblicani romani ma, dopo un paio d’anni, Bonaparte chiarì il suo intento e si incoronò Napoleone III. Ecco perché Orsini cercò di farlo saltare in aria. E Pisacane? Basti dire che era ateo, considerava democratico uno stato nel quale la democrazia fosse senza deleghe e l’uguaglianza non potesse essere disgiunta da quella economica perché in un paese libero non ci può essere «gente tanto ricca da potere comprare altrui, né tanto povera da doversi vendere». Scrive che il rivoluzionario è come il minatore. Che basta «portare la scintilla dove già c’è la polvere pronta a prendere fuoco». Non a caso è considerato uno dei padri dell’anarchia e, in un recente libro di Pino Casamassima, si dice che Margherita Cagol aveva pensato al nome «Brigata Pisacane» per quelle che sarebbero state poi chiamate BR.
Credo che la scrittura, per essere letteraria e dunque anche teatrale, possa (debba?) essere contraddittoria più che provocatoria perché la provocazione ribalta un punto di vista, mentre la contraddizione lo smonta, lo moltiplica, lo problematizza e lo rende umano. Insomma, mi pareva che in queste storie lontane ci fossero abbastanza contraddizioni e umanità da poterci scrivere un racconto che debutta come spettacolo all’Auditorium di Roma col titolo «Pro Patria».
i morti e gli ergastolani hanno una cosa in comune,
non temono i processi.
i morti perché non possono finire in galera.
gli ergastolani perché dalla galera non escono più.
chi ruba una mela finisce in galera anche se molti pensano che rubare una mela è un reato da poco. e chi ruba due mele? chi ne ruba cento? quando il furto della mela diventa un reato? c’è un limite? c’entra con la qualità della mela? la legge è uguale per tutti e i giudici non si mettono a contare le mele. la statua della giustizia davanti al tribunale ha una bilancia in mano, ma entrambi i piatti sono vuoti. non è una bilancia per pesare la frutta.
sono le parole di un detenuto che sta scrivendo il discorso. un discorso importante nel quale cerca di rimettere insieme i pezzi della propria storia, ma anche di una formazione politica avvenuta in cella attraverso i tre libri che l’istituzione carceraria gli permette di consultare. chiede aiuto a mazzini. un mazzini silenzioso e sconfitto.
quand’è che l’avete capito che era finita, mazzini?
quando finisce la rivoluzione?
finisce a roma nel ’49 con la fine della repubblica?
o con le insurrezioni degli anni ’50?
con le impiccagioni e le fucilazioni di belfiore che faranno guadagnare a francesco giuseppe il soprannome dell’impiccatore?
con l’insurrezione di milano del ’53?
qualche migliaio di uomini che assaltano caserme e posti di guardia e sperano nella diserzione dei soldati ungheresi che invece non ci pensano proprio.
alla fine vengono giustiziati in 16.
quella volta marx scrisse che la rivoluzione è come la poesia, non si fa su commissione.
quando è che avete pensato “siamo sconfitti”, mazzini?
Un racconto di cento minuti. Ascanio è da solo in uno spazio di due metri per due. Un fondale con alcune immagini, ritagli di giornali e manifesti di uno spettacolo. Un palco di metallo che è anche un piccolo prato artificiale sul quale va in scena la prova per un discorso. Un banchetto rosso tra palco verde e fondale bianco. Due musiche accompagnano la narrazione, un brano surf e una variazione di Chopin su un’aria di Bellini. Cinque personaggi. Un narratore-personaggio che parla in prima persona. Con lui ci sono due padri, uno di sangue e uno ideale. Accanto si muovono due abitanti della prigione che è il luogo dell’azione. Sono un secondino detto l’intoccabile, padrone concreto della vita del carcere, e un immigrato africano che dorme cinque minuti ogni ora.
testo \ Ascanio Celestini
suono \ Andrea Pesce
una produzione FABBRICA – in coproduzione con Teatro Stabile dell’Umbria
debutto nazionale 6-7 ottobre 2011 Auditorium Parco della Musica – Roma
studio per il nuovo spettacolo 27-28 aprile 2011 Teatro Stabile di Torino