CounterPunch
[26.04.2013] di Vijay Prashad (trad. di Vera Zasulich per GilGuySparks)
Mercoledì 24 aprile, un giorno dopo che le autorità del Bangladesh hanno chiesto ai proprietari di evacuare la loro fabbrica di abbigliamento che impiegava quasi tremila operai, l’edificio è crollato. L’edificio, Rana Plaza, situato nel sobborgo di Dhaka a Savar, produceva capi di abbigliamento per la catena di produzione di merce che si estende dai campi di cotone dell’Asia meridionale, attraverso i macchinari e i lavoratori del Bangladesh, alle aziende al dettaglio del mondo atlantico (il mondo occidentale ndt). Sono state cucite qui marche con nomi famosi, come lo sono i vestiti appesi agli scaffali satanici di Wal-Mart. I soccorritori sono riusciti a salvare duemila persone nel momento in cui si scrive, con la conferma di oltre trecento morti. I numeri di questi ultimi sono destinati a salire.
Vale la pena ricordare che il bilancio delle vittime nell’incendio del Triangle Shirtwaist Factory a New York nel 1911 fu di 146. Il bilancio delle vittime qui è già il doppio rispetto a quello.
Questo “incidente” arriva cinque mesi dopo l’incendio (24 novembre 2012) della fabbrica di indumenti che uccise almeno centododici lavoratori. L’elenco degli “incidenti” è lungo e doloroso.
Nell’aprile del 2005, una fabbrica di abbigliamento a Savar crollò, uccidendo settantacinque lavoratori. Nel febbraio del 2006, un’altra fabbrica è crollata a Dhaka, uccidendone diciotto. Nel giugno del 2010, un edificio è crollato a Dhaka, uccidendone venticinque. Queste sono le “fabbriche” della globalizzazione del ventunesimo secolo – ripari mal costruiti per un processo produttivo orientato a lunghe giornate di lavoro, con macchine di bassa lega e lavoratori le cui stesse vite sono sottomesse agli imperativi della produzione in tempo reale.
Scrivendo in merito al regime della fabbrica in Inghilterra durante il diciannovesimo secolo, Karl Marx osservò: “ma nella sua cieca irrefrenabile concupiscenza, nella sua fame da lupo-mannaro affamato di lavoro extra, il capitale oltrepassa non solo la morale, ma anche i limiti massimi meramente fisici della giornata lavorativa. Usurpa il tempo per la crescita, lo sviluppo e la sana cura del corpo. Ruba il tempo richiesto al consumo di aria fresca e luce solare …. Tutto ciò che gli interessa è semplicemente e solamente il massimo della forza lavoro che possa essere fornita in maniera continua durante la giornata lavorativa. Consegue questo scopo, accorciando l’estensione della vita del lavoratore, come un avido agricoltore strappa alla terra un incremento della produzione riducendo la sua fertilità.” (Il Capitale, capitolo 10).
Dhaka – Photo by Taslima Akhter.
Queste fabbriche del Bangladesh sono una parte del paesaggio della globalizzazione che viene imitato nelle fabbriche lungo il confine con il Messico, ad Haiti, nello Sri Lanka, e in altri luoghi che hanno aperto le loro porte all’uso scaltro da parte del settore dell’abbigliamento del nuovo ordine di produzione e commercio del 1990. I paesi sottomessi che non hanno avuto né la volontà patriottica di lottare per i propri cittadini, né alcuna preoccupazione per la debilitazione a lungo termine del loro ordine sociale, si precipitarono ad accogliere la produzione di abbigliamento. I grandi produttori di abbigliamento non hanno più voluto investire nelle fabbriche – si sono rivolti a subappaltatori, offrendo loro margini molto stretti di profitto e portandoli quindi a gestire le loro fabbriche come case-prigione lavorative. Il regime di subappalto ha consentito a queste aziende di negare ogni colpa per ciò che veniva fatto dagli attuali proprietari di queste piccole fabbriche, permettendo loro di godere dei benefici di prodotti a basso costo senza che le loro coscienze si macchiassero del sudore e del sangue dei lavoratori.
E’ stato anche consentito ai consumatori del mondo atlantico di acquistare una grande quantità di prodotti di base, spesso con un consumo a debito finanziato, senza preoccuparsi per i metodi di produzione. Un occasionale impeto di sentimento liberale si è scagliato contro questa o quella azienda, ma non vi è stata alcuna valutazione complessiva del modo in cui il modello Wal-Mart della catena di produzione di merci ha reso normale il genere di pratica affaristica che ha causato questa o quella campagna.
Lavoratori del Bangladesh non sono stati così proni come i consumatori nel mondo atlantico. Di recente, nel giugno 2012, migliaia di lavoratori della Zona Industriale di Ashulia, fuori Dacca, hanno protestato per salari più alti e migliori condizioni di lavoro. Per giorni e giorni, questi lavoratori hanno chiuso trecento fabbriche, bloccando la strada di Dacca-Tangali a Narasinghapur.
I lavoratori guadagnano tra i 3000 taka (35 dollari) e i 5.500 taka (70 dollari) al mese, volevano un aumento compreso tra i 1.500 taka (19 dollari) e i 2000 taka (25 dollari) al mese. Il governo ha inviato tremila poliziotti per rendere sicura la scena e il Primo Ministro ha offerto inviti alla calma perché avrebbe esaminato la questione. Venne istituito un comitato di tre membri ma nulla di sostanziale ne è sortito.
Consapevole della futilità dei negoziati con un governo subordinato alla logica della catena di produzione delle merci, Dhaka è esplosa nella violenza, mentre dall’edificio Rana emergevano sempre più notizie. I lavoratori hanno chiuso l’area della fabbrica intorno Dhaka, bloccando strade e distruggendo auto.
L’insensibilità dell’Associazione Manifatturiera dell’Abbigliamento del Bangladesh (BGMEA) aggiunge fuoco alla rabbia dei lavoratori. Dopo le proteste di giugno, il presidente della BGMEA, Shafiul Islam Mohiuddin, accusò i lavoratori di essere coinvolti in “una cospirazione”. Egli sostenne che “non è logico aumentare i salari dei lavoratori.” Questa volta, il nuovo presidente, Atiqul Islam della BGMEA ha suggerito che il problema non fosse la morte dei lavoratori o le pessime condizioni in cui gli operai lavorano, ma “l’interruzione della produzione a causa dei disordini e degli scioperi.” Questi scioperi, ha detto, sono “solo un altro duro colpo al settore dell’abbigliamento.” Nessuna sorpresa se coloro che sono scesi in piazza hanno così poca fiducia nei sub-appaltatori e nel governo.
I tentativi di spostare l’ago dello sfruttamento sono stati contrastati dalla combinata pressione del governo e dai vantaggi dell’assassinio.
Qualunque cosa di decente si annidi nella legge sul lavoro del Bangladesh è eclissata dalla carente applicazione delle norme da parte del Dipartimento Ispezioni del Ministero del Lavoro. Ci sono solo diciotto ispettori e assistenti ispettori per monitorare le 100.000 fabbriche della zona di Dhaka, dove si trovano la maggior parte delle fabbriche di abbigliamento. Se viene rilevata un’infrazione, le multe sono troppo basse per generare qualsiasi riforma. Quando i lavoratori provano a costituire sindacati, la dura risposta da parte della direzione è sufficiente a limitare i loro sforzi. La gestione preferisce focolai anarchici di violenza al consolidamento costante del potere operaio. In realtà, la violenza ha portato il governo del Bangladesh a creare una Cellula di Gestione Crisi e una Polizia Industriale non per sorvegliare le violazioni delle leggi sul lavoro, ma per spiare i sindacalisti dei lavoratori.
Nel mese di aprile 2012, gli agenti del capitale hanno rapito Aminul Islam, uno dei sindacalisti principali del Center for Worker Solidarity del Bangladesh. E’ stato trovato morto pochi giorni dopo, il suo corpo era costellato di segni di tortura.
Il Bangladesh è stato sconvolto questi ultimi mesi da proteste al di là dei precedenti storici – la terribile violenza che si abbattè nel 1971 tra i combattenti per la libertà di Jamaat-e-Islami portò migliaia di persone a Dhaka nello Shanbagh; questa protesta si trasformò in guerra civile politica tra i due partiti tradizionali, che oscurò le richieste di giustizia per le vittime di tale violenza. Questa protesta ha infiammato un paese, che è stato, altrimenti, molto ottimista in merito al terrore quotidiano contro i suoi lavoratori del settore abbigliamento.
L’”incidente” dell’edificio Rana potrebbe fornire una cerniera progressiva a un movimento di protesta che sarebbe altrimenti alla deriva.
Nel mondo atlantico, nel frattempo, l’auto-assorbimento nelle guerre al terrore e nel rallentamento dell’economia previene ogni genuina indagine su uno stile di vita che si basa su un consumismo alimentato dal debito, a spese dei lavoratori di Dhaka. Quelli che sono morti nell’edificio Rana sono vittime, non solo della prevaricazione dei sub-appaltatori, ma anche della globalizzazione del ventunesimo secolo.
Il nuovo libro di Vijay Prashad, Le nazioni più povere: una possibile storia del Sud del mondo, è stato pubblicato questo mese da Verso Books.
http://www.counterpunch.org/2013/04/26/the-terror-of-capitalism/
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