Il 25 settembre 1885, alla periferia di Verona, due giornalisti incrociarono le sciabole per ottenere soddisfazione delle offese che si erano lanciati dalle colonne di quotidiani concorrenti: L’Adige e L’Arena. In particolare uno dei due era stato accusato di millantare il grado di “Capitano di grande cabotaggio” senza averlo mai conseguito. Costui, un tipetto basso e agile, con ispidi mustacchi a manubrio, inflisse al rivale una lieve ferita alla tempia, che spinse i padrini a sospendere l’assalto. Il suo nome era Emilio Salgari, già noto ai lettori dei giornali veronesi come l’Ammiragliador, anche se, oltre a non essere certo ammiraglio, non era nemmeno mai stato capitano.
E’ risaputo infatti che il papà di Sandokan e del Corsaro Nero, bocciato all’Istituto Nautico di Venezia, più che lupo di mare fu topo di biblioteca, specializzato nella consultazione di atlanti e memoriali di viaggio. Meno noto è che prima di trasformarsi in una delle più prolifiche macchine narrative di tutti i tempi, Salgari fu molto altro. Trovata chiusa la via del mare, si era rivolto alla campagna, diventando schermidore, ginnasta, ciclista. Bisogna immaginarselo in giro per le strade della Valpolicella sull’alto biciclo, o in tenuta sportiva mentre partecipa a una corsa campestre. Un’immagine in contrasto con l’ultima che lascerà ai posteri: quella di un samurai che commette harakiri. Tra l’una e l’altra c’è la figura di un geniale autopromotore letterario, che realizzò colossali burle giornalistiche e sperimentò tecniche pubblicitarie all’avanguardia.
Come quando sui muri di Verona comparve un manifesto che raffigurava una tigre inferocita, con l’annuncio: “La Tigre sta per arrivare…”, mentre il quotidiano La Nuova Arena lanciava la notizia della fuga di una tigre da un serraglio nelle vicinanze e le pasticcerie cittadine mettevano in vetrina torte decorate con la “Tigre della Malesia”… il romanzo d’appendice di Emilio Salgari.
In seguito i giornali veronesi congetturarono per settimane su una misteriosa dama velata (ma certo bellissima), che sarebbe giunta in città. La versione accreditata da certi cronisti dall’orecchio lungo fu che si trattasse nientemeno che della favorita del Mahdi, il leader della rivolta anticoloniale sudanese. Solo quando la curiosità fu alle stelle il velo venne sollevato sull’abile campagna orchestrata per lanciare il secondo romanzo di Salgari: La Favorita del Mahdi, appunto.
Con il trasferimento a Torino e l’incontro con la grande editoria, Salgari raggiunse la fama nazionale. Innovò il canone della letteratura per ragazzi (di tutte le età), tenendosi lontano dal pedagogismo di Collodi e De Amicis, in favore del fascino per l’avventura esotica e gli amori romantici. Gli anni a cavallo del secolo lo videro intento a scrivere a un tavolo sommerso da mappe, pugnali, statuette di divinità indiane, collane di conchiglie, pistole ad acciarino, giornali illustrati, bussole, planisferi… I mondi più lontani presero vita così.
Il numero di emuli e di lettori parla chiaro: Salgari fu uno scrittore importante. Non già per lo stile, spesso frettoloso e poco curato (anche a causa della quantità di pagine che era costretto a produrre a getto continuo) e che già allora scontentava i critici puristi, ma per la vulcanica capacità immaginativa e affabulatoria. Salgari seppe importare nell’Italietta post-unitaria il gusto per la letteratura avventurosa, rubando gli ingredienti al feuilleton francese e l’aroma all’epos coloniale britannico. Il tutto mescolato al melodramma risorgimentale (era anche un recensore lirico e teatrale) e ai favolosi resoconti di esplorazioni ai confini del mondo. Salgari tracciò la via italiana al romance, come scrive Claudio Gallo nella nuova, brillante biografia fresca di stampa: C. Gallo – G. Bonomi, Emilio Salgari, La Macchina dei Sogni, BUR, 2011. In Italia non abbiamo avuto un Dumas né un Verne, tanto meno un Conrad. Abbiamo avuto Salgari: uno scrittore un po’ guascone, abile costruttore del proprio personaggio (si fece sempre chiamare “capitano”), avventuriero mancato, romantico scapigliato e conservatore sui generis, che credeva nel destino coloniale dell’Italia in terra d’Africa, e al contempo seppe raccontare il colonialismo dalla parte di chi lo subiva. Uno i cui eroi ed eroine letterari erano spesso coppie miste ante litteram, in barba al razzismo dell’epoca. Un signore convinto, a ragione o a torto, che “nulla nell’arte ci è di assoluto e (…) il bello è ciò che piace, malgrado ogni pedagogia di critici più o meno sentimentali”. Uno che senz’altro fece la differenza. E che finì male, malissimo.
Stretto nel ruolo di gallina dalle uova d’oro; pressato dalle continue richieste degli editori – che non poteva rifiutare, dovendo mantenere una famiglia numerosa -; afflitto dal dramma di una moglie psicolabile; dopo l’internamento di quest’ultima in manicomio, Salgari gettò la spugna.
L’annuncio del suicidio, nella lettera lasciata ai figli, lo diede con le celebri parole “spezzo la penna”, che sanciscono, insieme alla resa, l’indissolubilità del legame tra vita e scrittura.
Nell’uscita di scena il “Capitano” non mancò di essere melodrammatico e truculento, fedele allo stile dei suoi romanzi: si appartò in campagna e con un rasoio si squarciò l’addome e la gola.
Era il 25 aprile 1911. Giusto un secolo fa.
In tempi di retoriche celebrazioni per l’unità d’Italia, chi fa il nostro mestiere dovrebbe ricordare il piccolo grande padre della letteratura popolare e avventurosa italiana. Un pioniere che non attraversò ghiacciai, deserti, o giungle a colpi di machete, ma aprì senz’altro una nuova pista a colpi di penna.