di Alessandra Mammì
Viaggio tra Firenze, Venezia e Istanbul nei luoghi del fortunato romanzo. Dove sarà girato il film di Ron Howard. Per scoprire, in mezzo a frotte di turisti, il cuore esoterico del moderno Grand Tour
E’ il raccapriccio, sentimento fisico che dal Medioevo nutre tanto le Apocalissi cattoliche quanto lo splatter dell’horror movie. Poi, quando si sposa da una parte all’erudizione classica e dall’altra alla suspense del buon giallone da 600 pagine, diventa bestseller e subito dopo blockbuster. Ecco il segreto di Dan Brown. Che qui nella sua infernale discesa in Europa (Firenze, Venezia più tappa a Istanbul), segue le orme dei viaggiatori del Grand Tour. Quello scendere a Sud nei segreti del Bello e del Sublime che i giovani sensibili dell’aristocrazia e buona borghesia europea ritenevano necessario a curar mente e spirito.
Come Goethe, come Füssli, come Poussin, si attraverserà l’Italia a narrarne l’apollineo e il dionisiaco cercando immagini (come quelle che mostriamo) affinché «la sensazione inizi dove cambia la percezione», come disse molto più tardi André Gide. Ma Dan Brown non è Gide né tantomeno Goethe (e Ron Howard non sarà il nostro Poussin). Brown non è neanche un viaggiatore, non è un uomo del Settecento, non è europeo. Piuttosto è il tipico bravo ragazzo della provincia americana (nato nel 1964 in una città del New Hampshire da un babbo insegnante di matematica e mamma cattolica organista della Chiesa), cresciuto con il mito di una cultura artistica studiata sui libri, vissuta da turista e soprattutto vista al cinema. Da qui arriva Langdon: professore di storia dell’arte, belloccio, atletico e “arredato” con giacche di tweed scozzese e mocassini Church’s. Metà Bernard Berenson metà Indiana Jones. L’uomo che mentre scappa dal fucile ad alta precisione di una killer professionista coi capelli a spine e da una squadra acrobatica di teste di cuoio, si ferma un attimo a riflettere per ricordare a noi e alla sua compagna di sventura la storia e le storie, i simboli e le allegorie.
Sebbene “l’Inferno” di Dan Brown abbia inizio con l’amnesia di Langdon, la sua memoria eidetica (noi diremmo più genericamente visiva, ma così è definita nel testo) lo consiglia, lo avverte e lo salva come il grillo di Pinocchio. Sa riconoscere quello che è concesso solo agli iconologi e non agli occhi dei comuni mortali.
Se trova l’iscrizione con la parola Aigilas, subito avverte che bisogna guardarla ad uno specchio e leggere Saligia. E se Saligia a noi non dice nulla, lui traduce in un baleno: «E’ un espediente mnemonico latino inventato dal Vaticano nel Medioevo per rammentare ai cristiani i sette vizi capitali. Dunque Saligia è acronimo per Superbia, Avaritia, Luxuria, Invidia, Gula, Ira e Acedia». Parla così Langdon pur nel convulso succedersi degli eventi, anche quando sviene e ripete a loop la parola Vasari (ma l’amica americana, degna di Totò, pensa che dica “Very sorry”). Non si distrae mai il Nostro dal compito di rileggere da par suo le Malebolge dipinte da Botticelli in quella sua “Mappa dell’Inferno” fedele illustrazione della Divina Commedia, con peccatori che sgambettano nell’aria semisepolti a testa in giù; lussuriosi travolti da un’eterna tempesta; adulatori che si cibano dei loro stessi escrementi.
Lungo le quasi 600 pagine del libro (e si suppone gli oltre 120 minuti del film) lo studioso atletico saprà così risolvere passo passo il rebus che il cattivo di turno (un geniale e malefico scienziato svizzero dagli occhi verdi) gli ha posto sotto gli occhi, minacciando di distruggere l’intera umanità grazie a un virus di nuova generazione, capace di scatenare un’epidemia dalla potenza distruttiva equivalente alla Peste Nera del Trecento. Cosa che coinvolge direttamente sia l’Organizzazione Mondiale della Sanità sia un misterioso Rettore incaricato di fornire servizi speciali a ricchi eccentrici e malefici come il Joker o Goldfinger, nonché studiosi di alchimia, storia dell’arte, simbologia, epigrafia.
Siamo davvero fortunati ad avere il professor Langdon come guida privata di un viaggio alternativo nelle glorie d’Italia. Solo lui ci può condurre per mano da Firenze a Venezia, dove il giallo si infittisce alla ricerca del “doge ‘ngannator che di più non vedea l’ossa cavò” (Dante). Solo lui può mescolare pittoresco e demoniaco, inferno e paradiso, simbologie d’oriente e d’occidente mentre si fa strada tra le malebolge di turisti, sgomitando e sudando con gli occhi puntati sul campanile di San Marco che come un faro, spiega, indica la strada nel dedalo di calli, ponti, campi e campielli dove è impossibile non perdersi. E non si perde, infatti, ma arriva fino alla luce mistica della meraviglia dorata di Santa Sofia di Istanbul, unione d’iconografia cristiana e islamica, basilica e moschea, volto di Dio e nome di Allah. Come spiega con dovizia di particolari il colto colloquio fra Langdon e il turco studioso Mirsat. Sempre rubando tempo agli inseguitori e sempre circondati da ottuse e inconsapevoli masse di turisti che qui son l’immagine stessa della sovrappopolazione di un pianeta destinato a perire sotto i piedi di troppi uomini.
Per questo il cattivo scienziato Bertrand Zobrist vuole diffondere il virus e distruggere un terzo dell’umanità. Per questo dopo 522 pagine di inseguimenti tra il Bello e le birkenstock, gli ombrellini, le audioguide, i pullman a Firenze e le navi a Venezia stracariche dei milioni di pellegrini dell’arte, tra le bolge infernali di Riva degli Schiavoni e i corpi sfatti dei dannati dei tour operator, con vago senso di colpa si comincia a pensare che Zobrist tanto cattivo non è, con la sua stramba idea di sfoltire il mondo. E per fortuna nostra, il colpo di scena finale ce lo conferma. Happy end: possiamo uscire a riveder le stelle.