Le origini e i nuovi utilizzi dell’estratto delle meraviglie
di Rossella Burattino
Per curare le bruciature del conte ungherese László Almásy (l’attore Ralph Fiennes ) i berberi usano l’oro del deserto. L’unguento miracoloso de «Il paziente inglese» (film del 1996 diretto da Anthony Minghella) è l’olio d’argan. L’ingrediente più gettonato dalla cosmetica per le proprietà antiossidanti, idratanti, emollienti e curative, in realtà, non è molto conosciuto. Cos’è e come si usa? Il suo olio è naturale, viene estratto a freddo dai frutti dell’argania spinosa, albero della zona Sud-ovest del Marocco, tra Essaouira, Taroudant e Tiznit, ai confini del Sahara occidentale. Servono più di 100 chili di frutti per ottenere un solo litro di olio d’argan (in media cinque-sei alberi) ecco perché è così prezioso e particolarmente raro e costoso. I mille impieghi ne fanno un prodotto estremamente versatile, un toccasana per la cura della pelle e di alcune patologie del corpo. Deve la sua efficacia all’alta concentrazione di acidi grassi insaturi e di vitamine (A, F ed E) che contribuiscono al benessere dell’organismo e al rinnovamento cellulare. Il colore dell’olio e il suo uso cambiano in base alla tostatura dei noccioli. Quello cosmetico ha una colorazione più chiara, mentre, il più scuro, dal sapore più deciso, è utilizzato anche per uso alimentare e per condire i cibi della tradizione marocchina.
«Una delle qualità più apprezzate dell’argan è quella di idratare profondamente senza ungere — spiega Ciro Vestita, docente in Alimentazione e fitoterapia all’Università di Pisa — . Le popolazioni berbere lo usano da sempre come difesa dal sole. È in prima fila per il suo forte potere emolliente, capace di penetrare in profondità nell’epidermide. Infatti, il miglior rimedio per la pelle secca è aggiungere quattro cucchiai di “oro del deserto” nella vasca da bagno. L’emulsione idraterà con efficacia i tessuti e svolgerà un’attività di ringiovanimento della cute (levigata e priva di impurità)». Gettonatissimo per i capelli «con impacchi contro la secchezza e come rimedio alle troppe tinture — continua Vestita —. E, pare, che usato come pediluvio favorisca il relax: in quattro/cinque litri di acqua tiepida aggiungere cinque o sei cucchiaini di olio. Rimanere in ammollo almeno venti minuti, tempo necessario per permettere alle molecole calmati di agire».
È la soluzione anche alle smagliature post-gravidanza, è un coadiuvante per i massaggi (si assorbe rapidamente e non necessita di un massaggio troppo intensivo sulla pelle) e diventa uno scrub naturale per il corpo (mischiato al sale grosso da cucina) o per le labbra (con lo zucchero di canna) . In campo medicinale ha un alto potere cicatrizzante e disinfettante. Si applica su bruciature e scottature (ideale come doposole), ma anche per curare la psoriasi, di cui riduce il senso di prurito e la conseguente desquamazione cutanea. Per il suo odore deciso, spesso è abbinato ad altre sostanze oleose più aromatiche, come la mandorla dolce o la rosa canina.
“¿Qué sabes de la leche?” es un documental que investiga y cuestiona el consumo de leche de los humanos.
Se habla principalmente sobre:
El daño que provoca al medioambiente la producción de lácteos.
Los lácteos y su relación con: El cáncer, la osteoporosis, la obesidad, la diabetes, las alergias y la intolerancia a la lactosa.
La publicidad engañosa por parte de la industria láctea (principalmente en Estados Unidos)
La hormona que se inyecta en las vacas (posilac rGBH de Monsanto)
Exponen en el video: Collin Campebell – científico con trayectoria internacional, John A. McDougall Físico y experto en nutrición, Joel Fhurman médico, Amy Joy Lanou – investigadora en nutrición, Jennifer Rielly Nutricionista, entre otros.
L’industria alimentare Usa è sotto accusa. Per gli zuccheri, i sali e i grassi che ci rendono dipendenti
di Mara Accettura
C’è un complotto da parte dei grandi colossi alimentari. Ognuno di loro aspira a colonizzare una porzione piuttosto grossa del nostro apparato digerente. Per farlo si comportano come spacciatori, creando apposta cibi che ci rendono addicted, drogati. Patatine fritte, pizze pronte con montagne di formaggio, cioccolato burroso, succhi di frutta carichi di zucchero: tutto il junk food in commercio.
A sostenere la tesi è il premio Pulitzer e reporter del New York Times Michael Moss, nel libro Salt Sugar Fat, How the Food Giants Hooked Us (Sale Zucchero Grassi, Come i giganti del cibo ci hanno agganciato, Random House), una megainchiesta basata su 300 interviste con persone che lavorano nell’industria, da dirigenti a responsabili del marketing, chimici e scienziati, dalla Coca Cola a Pepsi alla Kraft. «Prendi lo zucchero», dice Moss. «Piace a tutti e soprattutto ai bambini, perché va istantaneamente al cervello e crea energia. Troppo, però, può dare la nausea. Gli scienziati del cibo quindi sperimentano diverse quantità di zucchero con alimenti vari, dal pane alla salsa di pomodoro allo yogurt, fino a centrare quello che in gergo si chiama “bliss point”, il punto del massimo piacere. Quando ci riescono i prodotti volano dagli scaffali del supermercato». Letteralmente.
Zucchero, sale e grassi sono il Sacro Graal dell’industria alimentare. Il passepartout con cui apre le nostre case per piantare le bandierine nella dispensa. L’avevamo da sempre sospettato. Perché dopo una patatina fritta ci prende l’urgenza di finire tutto il pacchetto? Perché un cioccolatino tira sempre l’altro? E perché assumiamo quell’espressione leggermente narcotizzata, come cani e gatti che non smettono di mangiare i loro croccantini? A Michael Moss il merito di aver raccontato in modo brillante e intelligente la “cospirazione” che c’è dietro: il cibo che mangiamo non è fatto valutando l’aspetto salutista, ma soprattutto quello che crea dipendenza. E che quindi “fidelizza” il consumatore.
Si fa, ma non si dice: nessuno nell’industria alimentare userebbe questa parola. «Preferiscono le parole desiderabilità e fascino», spiega Moss. «Ma alcuni scienziati esperti nelle dipendenze sono assolutamente convinti che per molte persone gli alimenti più zuccherati e pieni di grassi creano assuefazione quanto i narcotici».
Il caso del sale è ancora più palese. Ai bambini piccoli il sale non piace, è un gusto che si acquisisce dai sei mesi in poi, quando siamo svezzati. Gli studi dimostrano che i bambini abituati a mangiare cibi pronti sviluppano il desiderio di più sale nella dieta.
Se per sale e zucchero c’è un punto di saturazione oltre il quale avvertiamo sgradevolezza, non è così per i grassi. I grassi danno una sensazione di calore, quella consistenza un po’ appiccicosa dell’alimento che si scioglie in bocca e di cui è molto difficile stancarsi, ecco perché non smetteremmo mai di mangiare patate fritte. «Il gusto arriva direttamente negli stessi centri del piacere a cui arriva lo zucchero, ma il grasso porta con sè il doppio delle calorie, quindi è più problematico dal punto di vista dell’obesità».
Sono anni e anni che il cibo, la vera cosa che crediamo ci riconnetta con la terra e la realtà materiale, viene creato in laboratorio. Nella maggior parte dei casi però questo significa cibo più economico e più scadente dal punto di vista nutritivo. Persino alimenti che riteniamo sani come i cereali a colazione. «Passeggi tra gli scaffali del supermercato e vieni bombardata da messaggi salutisti: alta percentuale di vitamina D, buona fonte ci calcio, fibre, antiossidanti», dice Melanie Warner, autrice di un altro libro denuncia Pandora’s Lunchbox: How Processed Food Took Over the American Meal (Il cestino di Pandora: Come il cibo industriale ha conquistato il pasto americano). «Mi sono chiesta: ma come mai è impossibile trovare un pacco di cereali senza vitamine e minerali? Così ho scoperto che la maggior parte dei cereali ha pochi nutrienti intrinseci. E questo in parte per il processo di trasformazione a cui sono sottoposti, che è intensivo e spesso addirittura dannoso dal punto di vista nutritivo. Quindi tutte queste vitamine che credi di prendere dal cibo sono in realtà aggiunte». Come pillole comprate in farmacia. E non arrivano dall’alimento che in natura le contiene ma da altre fonti: la vitamina D, per esempio, è estratta dal grasso della lana delle pecore. Tolte le sostanze aggiunte, del resto, in pratica il valore nutrizionale dei cereali industriali è probabilmente pari a quello della scatola che li contiene.
Anche David Kessler, commissioner della FDA in epoca Clinton e Bush, in The End of Overeating – Taking Control of the Insatiable American Appetite, aveva denunciato l’industria alimentare per gli stessi motivi, ritendendola oltretutto responsabile dell’epidemia di obesità negli Usa. E lo stesso aveva fatto Eric Schlosser nel 2002 con Fast Food Nation dove aveva fatto a pezzi gli hamburger di MacDonald. Purtroppo però vuoi per mancanza di educazione alimentare, estinzione della cucina a casa, bombardamento mediatico, convenienza – non solo economica – del cibo pronto, queste denunce non riescono a mettere in ginocchio i giganti del cibo. Anzi.
«Mi piacerebbe dire che il libro è datato e che i problemi che ho descritto sono stati risolti», riflette Schlosser. «In realtà ogni giorno 65 milioni di persone mangiano in un MacDonald nel mondo, molti di più di allora. Dal 2001 i guadagni dell’industria del fast food americana sono saliti del 20 per cento. Circa due terzi degli adulti americani sono obesi o sovrappeso. E per una strana coincidenza il costo annuale dell’epidemia di obesità – circa 168 miliardi di dollari – è la stessa cifra spesa dagli americani in fast food nel 2011».
«La realtà italiana è molto diversa», obietta Roberto Ciati, direttore delle relazioni scientifiche di Barilla «perché il nostro modello di riferimento è quello mediterraneo. Per quanto riguarda la Barilla, negli ultimi due anni abbiamo ridotto la quantità di sale del 10% nei sughi e del 12-15% nel pane. Progressivamente, perché il palato va rieducato. Lo stesso è successo per lo zucchero e i grassi nei biscotti e nelle merendine, soprattutto nelle linea Mulino verde, dove siamo scesi del 30%». «Non c’è nessun complotto», dice anche il chimico Dario Bressanini, autore di Le bugie nel carrello in uscita a fine aprile per Chiarelettere (vedi box). Il fatto è che semplicemente sale e zucchero piacciono. Il corpo è programmato per apprezzare cibi con sostanze utili alla sopravvivenza. Lo zucchero è energia, il sale regola l’equilibrio elettrochimico del corpo».
Michael Moss aggiunge che le multinazionali del cibo sono sotto il ricatto di Wall Street. Ogni volta che le vendite diminuiscono, sono costrette a ingegnarsi per recuperare le perdite. Le aspettative di profitto degli shareholders sono enormi. Comunque è ottimista: «Se le aziende trovassero una strada per ridurre la quantità di sale, zucchero e grassi mantendendo il cibo appetibile, farebbero ancora più soldi, perché alla gente mangiare bene importa eccome». Su questo concorda Ciati: «È il grande sforzo degli ultimi anni di tutti noi che lavoriamo in questo campo: migliorare il profilo nutrizionale preservando il sapore».
PER DIFENDERCI USIAMO LA TESTA
«Benvenuti i libri come quello di Moss perché sensibilizzano. Non mi piace però deresponsabilizzare il consumatore dando tutta la colpa all’industria», dice il chimico Dario Bressanini, che a fine aprile pubblica Le bugie nel carrello (Chiarelettere). Le aziende, è l’accusa, fanno leva sul gusto per vendere di più. «Certo. D’altra parte la gente fa un sacco di discorsi salutisti, ma io una coda per comprare gambi di sedano non l’ho mai vista. Per questo chiamare il consumatore a scegliere bene è altrettanto importante». Le quantità di zucchero sono spesso abnormi.
«È giusto denunciare l’abuso. Perché è così difficile trovare un succo di frutta senza zucchero? Persino le etichette a volte ingannano. Ieri ho comprato una marmellata “senza zucchero aggiunto”. Poi leggo che c’è un concentrato di succo di uva. Non è zucchero quello?». Patatine al formaggio, yogurt stradolci ci sono anche in Italia.
Ma il problema è meno sentito. «Ci salva il fatto che cuciniamo ancora molto a casa. Ma l’obesità anche se non endemica come negli Usa, c’è anche qui, soprattutto a quella infantile, al sud».
Il consumatore ha tante colpe quante i produttori? «No. Dico che negli Stati Uniti il consumatore è ritenuto sacro e non si può incolpare di nulla. Mentre ha libertà di scelta. Io non sono ingrassato di un etto quando sono stato lì, perché mangiavo sano». Spesso il target sono i bambini, che non sono responsabili. «Certo. In Usa ho visto latte alla fragola o al cioccolato distribuito
a scuola. Nelle mense italiane però non succede. La responsabilità è di aziende, istituzioni e genitori.
Come li aiuta, nel suo libro? «Mi concentro sulle etichette. Molti pensano che il kamut sia l’antico grano dei faraoni, in realtà è un marchio registrato. Un altro esempio è la mortadella “al 100% naturale”,
in realtà piena di nitriti, che pure sono conservanti utili. O il boom delle patate al selenio che farebbero diventare più intelligenti».
SAPORE SOSTENIBILE
Al via il secondo bando internazionale per progetti di alimentazione sostenibile del Barilla Center for Food. Tema: ridurre l’impatto ambientale, garantendo salute e accesso al cibo per tutti. In palio
1000 euro e la partecipazione a un progetto di ricerca.
Ricerca su Lancet. Olio di oliva invece del burro e vino al posto degli alcolici. Ma facciamo ancora poco sport. Il professor Attilio Maseri, per anni cardiologo di fiducia della regina Elisabetta: “A Londra non si devono lamentare, hanno tagliato troppo sulla sanità”
di MICHELE BOCCI
ROMA – Italiani grandi fumatori, con un sistema sanitario spendaccione e anche colpiti dalla crisi economica. “Eppure vivono più a lungo di noi”: gli inglesi non si spiegano come è possibile che nello scassato Belpaese l’aspettativa di vita sia di 81,5 anni, un anno e mezzo superiore alla loro. Del resto, il dato ci colloca al secondo posto nella classifica mondiale della longevità.
Quando la rivista scientifica Lancet ha pubblicato l’imponente studio “Global burden of disease”, dedicato al peso mondiale delle malattie, e veramente globale nella raccolta dei dati (187 paesi esaminati da 486 ricercatori per 5 anni), la Bbc ha contattato l’Istituto superiore di sanità per chiedere chiarimenti e consigli. Volevano capire come mai gli italiani vanno meglio di loro.
La formula della nostra superiorità in questa classifica che mette di buon umore è facile, ed è legata alla tanto elogiata dieta mediterranea. Ma anche a un modo di bere ancora legato al bicchiere di vino a pasto più che al “binge drinking”, cioè l’assunzione in tempi rapidi di molte bevande alcoliche. Da loro è diffusissima, da noi sta prendendo piede in modo preoccupante soprattutto tra i giovani. “A partire dagli anni ’60, la dieta degli italiani è notevolmente migliorata, arricchendosi di frutta e verdura fresca, pesce e diventando più varia – spiega Stefania Salmaso, la dirigente dell’Istituto superiore di sanità che è stata contattata nei giorni scorsi dagli inglesi – Inoltre, l’olio d’oliva è parte della tradizione alimentare della dieta mediterranea, mentre nella dieta britannica prevalgono i grassi di origine animale”.
Solo il Giappone supera l’Italia in quanto a longevità. Di oltre un anno (ne vivono 82,6 in media) secondo la maxi ricerca che coinvolge tra l’altro le Università di Washington, Harvard, Johns Hopkins, Tokio, Londra e l’Oms e che prende in considerazione il cambiamento dello stato di salute di una buona fetta delle popolazioni del mondo tra il 1990 e il 2010. A dicembre sono stati pubblicati i dati generali, che raccontano, tra l’altro, di come nella mortalità generale pesino meno le malattie infettive neonatali o materne (sono passate da un terzo a un quarto dei decessi) e come denutrizione e inquinamento abbiano lasciato il posto a pressione e fumo di tabacco come fattori di rischio più importanti. Ormai sono le malattie croniche le responsabili della maggior parte delle morti, cioè 34,5 milioni sui 52,8 presi in considerazione.
Alcuni giorni fa, infine, sono state pubblicate le schede dei singoli paesi. L’Italia, al di là del dato secco sull’aspettativa di vita, ottiene un buon risultato anche per quanto riguarda le condizioni di salute, perché ha una durata media della disabilità abbastanza ridotta, cioè la sesta più breve nel mondo. Le malattie gravi più diffuse (infarto, ictus e tumori) e responsabili della mortalità prematura, possono essere in parte prevenute lavorando su alcuni fattori che mettono a rischio la popolazione.
Il più diffuso ha a che fare con l’alimentazione sbagliata, segno che il mito della dieta mediterranea è stato incrinato anche se riesce ancora a far stare gli italiani meglio degli altri. Seguono la pressione alta, il fumo, il sovrappeso e la sedentarietà. Per migliorare ancora e magari raggiungere il Giappone sarebbe importante prima di tutto fare più attività fisica.
Studio Usa su oltre 250mila adulti seguiti a distanza di dieci anni: i grandi consumatori di bevande zuccherate, specie se in versione light, hanno probabilità fino al 38 per cento maggiori di sviluppare il disturbo. Ma il rischio diminuisce con consumo di caffè
ATTENZIONE alle bibite gassate: consumarne in grandi quantità, specialmente in versione “diet”, sembra aumentare il rischio di depressione dal 30 al 38 per cento. A puntare il dito contro i rischi delle bevande dolcificate è un maxi-studio durato oltre dieci anni condotto su oltre 250mila persone, i cui risultati saranno discussi al prossimo congresso annuale della American Academy of Neurology, in programma a San Diego a marzo. C’è anche una buona notizia, però, per gli amanti dell’espresso: al contrario di succhi e bevande gassate, il consumo di caffè sembra abbassare tale rischio del 10 per cento.
La ricerca porta la firma del Research Triangle Park in North Carolina (Usa). “Le bevande a base di soda, il caffè e il tè – sottolinea Honglei Chen, autore dello studio – pur se comunemente consumati in tutto il mondo hanno comunque effetti importanti sul fisico e conseguenze non da meno sulla salute mentale”.
Sono state coinvolte 263.925 persone di età 50-71 anni all’inizio del lavoro, valutandone il consumo quotidiano di bibite gassate, dolcificate, tè e caffè; a 10 anni di osservazione oltre 11mila diagnosi di depressione sono state registrate tra i partecipanti.
Incrociando i dati sul consumo di bibite, tè e caffè con quelli sulle diagnosi di depressione è emerso che i grandi consumatori di bibite hanno un rischio di soffrire di depressione fino al 38% più elevato (per quelli che bevono bibite o succhi in versione diet, in media 4 bicchieri al giorno), mentre il consumo di caffè, specie se amaro, ridurrebbe il rischio del 10%.
“Il nostro lavoro – suggeriscono i ricercatori – indica che preferire il caffè non zuccherato alle bibite dolci in versione ‘diet’ può ridurre il rischio di soffrire di depressione”, anche se saranno necessari ulteriori studi per confermare i risultati.
L’Ausl del capoluogo emiliano è la prima azienda sanitaria al mondo ad avviare, da febbraio, l’utilizzo clinico della pratica orientale nella cura delle patologie oncologiche
di ROSARIO DI RAIMONDO
L’Ausl di Bologna è la prima azienda sanitaria al mondo a consentire la sperimentazione di una terapia tibetana ai suoi pazienti oncologici. Si chiama “pratica meditativa Tong Len”, partirà a febbraio e sarà condotta dall’equipe del dottor Gioacchino Pagliaro, direttore del reparto di Psicologia clinica dell’ospedale Bellaria.
La medicina orientale incontra quella occidentale. La psicologia sposa l’oncologia. Nei prossimi giorni saranno scelti 80 pazienti che, naturalmente, continueranno nel frattempo il normale processo di cure. Quaranta di loro saranno sottoposti alla terapia, l’altra metà no, in modo da valutare le differenze. Pagliaro e i 15 professori sanitari che costituiscono la sua equipe non conosceranno i nomi di chi farà il test: avranno solo una scheda con le iniziali del paziente, il tipo di patologia che ha e determinati valori del sangue.
Lo studio, che è a costo zero, durerà diversi mesi e, a distanza di tre e cinque anni, lo staff di medici analizzerà i pazienti per capire se ci sono stati cambiamenti, se sono variati alcuni valori del sangue come il livello dei globuli bianchi oppure se ci sono miglioramenti negli stati d’ansia e di tensione. Una misurazione, questa, che avverrà prima, dopo e durante il test. Ad oggi non c’è letteratura scientifica che possa dimostrare il reale beneficio della terapia studiata da Pagliaro.
Un reperto archeologico, chiamato «il bambino di Fidene», svela il livello raggiunto dai medici del tempo
MILANO – Il suo nome oggi non lo conosce nessuno, non sappiamo neppure se era un maschietto o una femminuccia. Aveva cinque o sei anni e viveva nel II secolo dopo Cristo a Fidene, piccola cittadina a pochi chilometri a nord della Roma imperiale, sulla via Salaria. Erano gli anni di Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio; l’Impero aveva raggiunto la sua massima estensione, le politiche interne erano improntate a tolleranza e buona amministrazione, erano state promulgato leggi a favore degli schiavi tanto che gli storici hanno parlato di “buoni imperatori” e di “secolo d’oro” dell’Impero Romano. Fidene in quel periodo era una cittadina di campagna, con alcune ville di nobili ma per lo più abitata da contadini e pastori. Il bimbo era probabilmente figlio di uno schiavo o un liberto di uno dei proprietari terrieri della zona e, quando aveva cinque o sei anni, è stato operato alla testa da un medico che gli ha perforato il cranio in un intervento chirurgico delicatissimo. Il piccolo sopravvisse un mese o poco più. Quindi fu sepolto in una tomba di gente comune, tornata alla luce durante uno scavo a Fidene all’inizio degli anni ’90.
Il teschio del «bambino di Fidene» esposto a Roma
IL REPERTO – Gli archeologi si resero subito conto di avere fra le mani un reperto davvero speciale, una delle rare testimonianze di trapanazione cranica nel mondo antico. Oggi, dopo vent’anni, il bambino di Fidene è uno dei fiori all’occhiello del Museo di Storia della Medicina dell’università La Sapienza di Roma. Il cranio, perfettamente conservato, è esposto assieme al resto dello scheletro ed è stata ricostruita la sepoltura come è stata rinvenuta nello scavo. Gli occhi dei visitatori si appuntano sul l’enorme foro in testa: sembra incredibile che quasi duemila anni fa, senza antibiotici o anestesie, sia stato possibile un intervento simile. «Questo reperto è unico perché si tratta per ora della più antica prova di un trattamento chirurgico in qualche modo “palliativo”, per gestire una malattia cerebrale grave: molto probabilmente il bambino aveva un tumore al cervello», racconta Valentina Gazzaniga, direttore del Museo romano.
LA MALATTIA – Proviamo a tornare indietro nel tempo e immaginare che cosa possa essere successo al piccolo. Il suo cranio era più ampio della norma, con le ossa spinte dall’interno da una massa. Il bambino aveva probabilmente fortissimi mal di testa e sintomi gravi, dal vomito alle convulsioni, da crisi epilettiche a stati di torpore assoluto. Forse si è deciso di operarlo con un intervento difficile e pericoloso per tentare di lenire le sue sofferenze: il foro nel cranio e la rimozione di una parte di osso erano l’estremo tentativo di ridurre la pressione interna al cervello. Analizzando l’apertura, di circa cinque centimetri di diametro, i paleopatologi si sono accorti che sui bordi si era parzialmente riformato materiale osseo: segno che il bimbo è sopravvissuto almeno 30, 40 giorni dopo l’intervento, che fu certamente complesso e presumibilmente parecchio costoso. Com’è possibile che un bimbo di umili origini sia stato curato in questo modo? «A quel tempo il padrone era un pater familias, un padre di famiglia per i suoi schiavi e liberti – spiega Gazzaniga -. Aveva obblighi giuridici oltre che morali nei confronti di chi viveva nella sua domus e doveva occuparsi anche della salute dei figli dei propri sottoposti: il bimbo era probabilmente figlio di un liberto e il padrone si fece carico delle sue cure, verosimilmente inviandolo a Roma per l’intervento».
OPPIO O VINO – Nella Roma imperiale il secondo secolo fu un’età d’oro anche per la medicina e la chirurgia, i medici riuscivano a eseguire interventi tecnicamente difficili come la rimozione di calcoli o il trattamento di ernie o cataratta. «I chirurghi erano digiuni in tema di anestesia e disinfezione del campo operatorio, ma avevano molte conoscenze empiriche: davano al paziente l’oppio o il vino, lavavano gli strumenti chirurgici con acqua e aceto. Non molto, ma meglio di niente», dice Gazzaniga. Fu soprattutto il famoso medico Galeno a dare le raccomandazioni e le indicazioni per eseguire gli interventi chirurgici, compresi quelli di trapanazione del cranio. Galeno operava a Roma in quegli anni, aveva scritto diffusamente dell’operazione a cui fu sottoposto il bambino di Fidene e quindi, secondo alcuni, potrebbe essere stato addirittura lui a eseguire l’intervento. Non ci sono prove, ovviamente, ma colpisce leggere ciò che scrisse Galeno e immaginare cosa possa aver passato quel bambino, mentre il medico gli somministrava alcol e decotti di erbe sedative e allucinogene prima di usare il kyklyskos, uno speciale scalpello adatto a tagliare le sottili ossa del cranio di un bimbo.
L’INTERVENTO – Stando alla ricostruzione dei paleopatologi, il medico aveva inciso con sicurezza l’osso identificando con buona approssimazione la zona del cervello più compromessa dalla malattia e anche quella dove intervenire sarebbe stato più sicuro, per ridurre al minimo la probabilità di emorragie. Lo scalpello aveva percorso una linea continua, a forma di U, e poi l’osso era stato sollevato e tolto: una tecnica diversa rispetto a quelle usate per la trapanazione in caso di fratture o traumi cranici dai medici dell’antichità, probabilmente scelta perché il paziente era un bambino. La ferita poi era stata fasciata e medicata secondo le ricette di Galeno: polvere delle radici di erbe varie, olio di rosa, sangue caldo di piccione o di colomba, polvere di coralli neri e una mistura di aceto, miele e sale marino in acqua piovana. Purtroppo la ferita dopo qualche tempo si è infettata, come ha dimostrato l’analisi delle ossa vicine al foro: un’evenienza ovviamente molto frequente a quei tempi, che verosimilmente ha portato alla morte il bimbo in pochi giorni. Nonostante questo tutte le analisi mostrano che di lui si presero cura medici competenti, che fecero di tutto per salvargli la vita: non ci sono segni di stress sulle ossa lunghe o sulla dentatura, segno che la malattia non aveva provocato danni considerevoli fino alla fine. Probabilmente, considerando la bassa estrazione sociale del bambino, oltre al chirurgo si occupò di lui di un servus medicus, ovvero uno schiavo che aveva acquisito competenze mediche particolari e curava gli altri schiavi e i liberti. E oggi il bimbo di Fidene è una preziosa testimonianza, la prova che anche secoli fa i medici cercavano con compassione e determinazione di strappare alla morte i loro malati.
Manifestazione a Mumbai contro l’industria farmaceutica svizzera Novartis, da anni in causa per ottenere il brevetto su alcuni medicinali.
Una sua vittoria metterebbe a rischio l’industria indiana di generici, che produce a basso costo l’80 per cento dei medicinali contro l’Hiv e cure anti-retrovirali per milioni di indigenti.
“Se Novartis continua su questa strada, potrebbe chiudersi accesso a qualsiasi farmaco”, dice Eldred Tellis, specialista in abusi di mediciali e Aids, “Anche i generici sono diventati troppo costosi per le persone comuni. Stanno cercando di uccidere questa “farmacia dei paesi in via di sviluppo”, vogliono che i produttori indiani di generici escano dall’attività perché vogliono fare soldi. Tutte queste multinazionali non si preoccupano dei poveri, a loro non importa la guarigione della gente”.
Secondo la giustizia indiana, la Novartis sottoporrebbe i farmaci un “evergreening”, una piccola variazione delle molecole al fine di prolungare i brevetti in scadenza e allargare a nuovi farmaci il monopolio.
I rapper freestyle, che improvvisano testi su basi musicali, hanno un cervello «speciale»: è lì la chiave della creatività?
MILANO – Alcuni li giudicano i nuovi poeti, altri semplicemente si divertono ad ascoltare prodezze linguistico-musicali che sembrano la versione moderna e accelerata degli scioglilingua da bambini. Di certo i rapper freestyle, che improvvisano testi e rime su basi musicali, hanno un’invidiabile dimestichezza con la lingua e sono capaci di trovare in tempi minimi assonanze sorprendenti. Ora si scopre che ci riescono perché il loro cervello lavora in maniera “speciale”.
STUDIO – Lo hanno dimostrato Siyuan Liu e i suoi collaboratori del National Institute on Deafness and Other Communication Disorders dei National Institutes of Health statunitensi attraverso uno studio pubblicato su Nature Scientific Reports, per il quale il cervello di 12 rapper freestyle con almeno 5 anni di esperienza è stato analizzato tramite la risonanza magnetica funzionale. Tutti, per il test, hanno usato le stesse basi musicali; in un primo esperimento hanno improvvisato parole e ritmi guidati solo dalla base, nel secondo hanno cantato testi già provati e imparati. Durante il freestyle il pattern di attivazione del cervello è molto diverso rispetto all’esecuzione nota: aumenta l’attività nelle aree prefrontali mediali, coinvolte in processi cognitivi di alto livello legati a pensieri e azioni, mentre diminuisce l’attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale che di norma fa da “controllo” e supervisione a gesti ed emozioni. Inoltre, si “accendono” molto le aree del linguaggio, l’amigdala (legata alle emozioni) e alcune aree motorie: evidentemente l’improvvisazione fa emergere un network cerebrale in cui si legano sensazioni, linguaggio, motivazione e azione.
CREATIVITÀ – «Con queste modifiche nella sua attività il cervello si comporta come una specie di bravo genitore che sa quando si può infrangere una regola o quando invece si deve essere ligi alla legge: nel corso dell’improvvisazione i consueti “lacci e laccioli” neuronali vengono meno e si consente la libera espressione di idee e parole», spiega Liu. In pratica si dà sfogo alla creatività, senza che vi siano vincoli convenzionali né una supervisione da parte dell’attenzione o del controllo esecutivo. I veri pensieri in libertà, con il cervello iperattivato per trovare parole adatte al testo che si sta creando e alla musica di base ma anche impegnato nelle aree motorie, per consentire l’articolazione fonetica adeguata. La creatività quindi sboccia quando il cervello dà il via libera all’improvvisazione non mediata; resta da capire se si possa imparare a essere creativi esercitandosi da rapper (i prossimi studi di Liu verteranno su poeti e scrittori, per valutare anche “strade alternative”), ma francamente non pare un cimento per tutti. Occorrono sicuramente costanza e allenamento, ma vien da credere che i rapper abbiano un talento davvero speciale. Per chi però volesse provare (e magari diventare così più creativo, chissà) ci sono i consigli di WikiHow: raccomandazione numero sei, non pensare troppo e lasciarsi andare alle libere associazioni di idee. Perché forse il segreto della creatività è davvero tutto qui.
Ricerca su mille anziani: mangiare pomodori (ne basta uno ogni due giorni) o derivati riduce i sintomi depressivi
MILANO – Mangiare pomodori fa bene all’umore e aiuta a combattere la depressione. Secondo un nuovo studio cino-giapponese basterebbe mangiare questo “frutto” due volte a settimana per essere felici ed equilibrati, o almeno per rischiare meno di cadere in stati depressivi: una notizia che rende contenti soprattutto noi italiani, perché se bastasse mangiare pomodoro e affini per risolvere i problemi di depressione, saremmo senz’altro la popolazione mentalmente più sana al mondo, vista la nostra dieta. Nonostante la cura anti-depressiva sia molto lontana dall’essere basata solo sul consumo di pomodori e coinvolga discipline ben diverse dalla dietologia, i ricercatori giapponesi hanno analizzato i comportamenti e gli umori di quasi mille abitanti over 70 prima di arrivare alle loro conclusioni.
ANTIOSSIDANTI – La ricerca pubblicata dal Journal of affective disorders parte da un assunto: più volte gli studi scientifici hanno collegato le patologie depressive con la mancanza di difese dell’organismo date da carenza di antiossidanti. E il pomodoro ne contiene uno in grande quantità, il licopene, della famiglia dei carotenoidi (ve ne sarebbero 50 mg a chilogrammo nei pomodori maturi). Il licopene, potente antiossidante, negli ultimi anni è stato osannato in tutto il mondo anche per il suo potenziale anticancro.
LA RICERCA – Ecco perché i ricercatori giapponesi e cinesi della Tianjin Medical University (con sede nel distretto di Tianjin, Cina), hanno deciso di analizzare abitudini alimentari e consumo di pomodori in un campione di 986 giapponesi, tutti di 70 anni e oltre, chiedendo loro di compilare questionari sulla loro dieta quotidiana. Le stesse cavie si sono poi sottoposte a un test per verificare lo stato mentale e classificare gli stati depressivi. La scelta è caduta su di un campione senior proprio perché questa fascia della popolazione è più propensa a sviluppare tendenze depressive, per via della salute in declino, della solitudine, delle perdite e dei lutti dovuti all’età.
RISULTATI – Tra il campione analizzato, al termine di un periodo di dieta controllata, è emerso che quelli che hanno consumato da due a sei volte la settimana il pomodoro corrono un rischio minore del 46 per cento di cadere in depressione o aggravare una situazione depressiva pregressa, se comparati con chi tra i mille intervistati ha consumato pomodoro solo una volta a settimana o meno. In più, chi mangia ogni giorno pomodoro o preparati con questo frutto alla base, aumenterebbe la “protezione” dalla depressione al 52 per cento. Una bella notizia per la dieta mediterranea, anche se, è bene ricordarlo nonostante l’ovvietà, la depressione non si cura (e non si previene) solo a tavola.