«Sono un po’ triste, mi guardo e penso “Madonna quanto tempo è passato e quanto poco ne ho ancora davanti a me”. Però sono un uomo fortunato: ho avuto tanto dalla vita, più di quanto potessi immaginare».
Giacomo Agostini dopodomani compirà 70 anni. I primi settanta anni di una leggenda vivente, il più grande pilota di motociclismo della storia con i suoi quindici titoli mondiali vinti a cavallo fra gli anni 60 e 70. Una carriera iniziata nella provincia di Brescia, un Dna “vergine” di motori, benzina e asfalto.
«La mia era una famiglia normale – racconta – Mio padre Aurelio era laureato in economia e commercio e aveva una azienda di falegnameria che andò in fiamme durante la guerra. Poi lavorò come segretario comunale a Lovere, in provincia di Brescia. Vallo a capire da dove mi è venuta la passione, è nata con me. Ho dovuto lottare molto per seguirla, a partire dai litigi con i miei genitori che non volevano che corressi».
Hanno dovuto arrendersi però…
«A 9 anni mio padre mi regalò un “Aquilotto” Bianchi, 48 di cilindrata a rullo. Quando pioveva il rullo slittava sulla gomma e non andava neanche a spingerlo: faceva forse i 30 orari, non è che fosse così pericoloso. Poi venne il “Paperino” con cui iniziai a fare le prime gincane. Io neanche volevo, la prima volta mi hanno proprio dovuto spingere: c’era una persona che gareggiava senza una gamba, mi sono detto che se poteva farcela lui allora potevo riuscirci anch’io. Avevo 11 anni».
Che cos’erano le gincane?
«Gare organizzate negli oratori o nei campi da calcio in terra battuta. C’era un percorso con birilli, salti, prove di equilibrismo sugli assi, passaggi ad ostacoli. Ho iniziato a vincere da lì».
Leggenda vuole che il permesso di gareggiare suo padre lo firmò su consiglio di un notaio sordo.
«Più che sordo direi che non aveva capito bene. Pensava si trattasse di corse in bicicletta e non in motocicletta, così disse a mio padre di lasciarmi provare che fare sport fa bene e tiene i ragazzi lontani dalla strada. Lo convinse lui a firmare il documento necessario».
Nel suo caso non la tolse affatto dalle strade…
«Direi proprio di no. La prima gara fu una competizione in salita, la Trento-Bondone nel 1961, corsa con un Morini 175. Arrivai secondo»
Da lì non si fermò più…
«Avevo una Morini che avevo comperato io stesso e con quella vinsi una Bologna-San Luca. Alfonso Morini si accorse di me e mi affidò una moto ufficiale per il campionato italiano. Fin ad allora me ne andavo in giro con la mia macchina assieme a un amico che faceva il panettiere. Da pilota ufficiale mi godevo il lusso di avere il trasporto organizzato dall’azienda, non mi pareva vero».
Poi l’esordio fuori dall’Italia. Quando?
«Luglio 1964 a Solitude, nella Germania dell’Ovest. Partii come un razzo, guidavo un monocilindrico 250 in mezzo a mostri sacri come Jim Redman, Luigi Taveri o Phil Read. Ma andavano troppo forte e chiusi quarto. Comunque un esordio non male».
Da lì l’epopea di “Ago”, il passaggio alla Mv Agusta, i quindici mondiali vinti in pista e quelli conquistati dal box come manager. Fra i tanti avversari incrociati in pista c’è qualcuno che ricorda con particolare piacere?
«Come pilota Mike Hailwood, era davvero un grande e pochi come lui mi hanno fatto davvero sudare in pista. Mentre invece, dal lato umano, conservo un grande ricordo dello sfortunato Renzo Pasolini, era un ragazzo davvero affettuoso. Però nel nostro mestiere è difficile diventare amici, c’è troppa concorrenza e voglia di battersi. C’è rispetto, certo, ma di amicizie vere non molte».
Lei è stato uno dei primi piloti a battersi davvero per la sicurezza in gara. Storico il suo rifiuto di correre il Tourist Trophy sull’isola di Man dopo la morte del suo amico Gilberto Parlotti.
«Era il giugno 1972, la sera prima della gara eravamo usciti insieme a fare un sopralluogo sulla pista. Ero più esperto di lui e mi aveva chiesto di accompagnarlo per spiegargli alcuni dettagli del circuito. Correva con la 125, mentre io avrei partecipato al Senior TT più tardi, ma al secondo giro ebbe un incidente e morì. A quel punto presi altri piloti e dissi “adesso basta, non è possibile che ogni anno muoia qualcuno di noi. È arrivato il momento di fermarci”. Non corsi più il TT dopo quel giorno».
Morire in pista era una tragica costante.
«Purtroppo le piste erano quello che erano e i circuiti erano per lo più strade aperte al pubblico che venivano chiuse in occasione delle gare. Non c’erano vie di fuga, non c’erano o quasi protezioni e cadere significava quasi sempre farsi molto, molto male».
Negli anni 70, all’apice della carriera, Agostini diventa una delle prime star globali. Successo, soldi, pubblicità, film. Come ricorda quella stagione?
«Anni meravigliosi, e forse nemmeno io mi rendevo ben conto di dove ero arrivato. Anni bellissimi fra le moto e un mondo spettacolare da cui ho imparato davvero molto».
A Natale 1977 l’annuncio del ritiro. Poi l’esperienza con le auto da corsa e infine il passaggio dietro al muretto. Come è stato mollare tutto?
«Fu davvero duro. Quando decisi di smettere piansi per tre giorni. Ma era arrivato il momento giusto, in pista c’erano ragazzi più giovani che ragionavano con la testa dei ventenni, io avevo 35 anni e il mio modo di pensare ormai era troppo diverso. Non è che all’improvviso non sei più capace di andare in moto, ma ci sono quei piccoli segnali che ti fanno capire che è arrivata l’ora di fermarsi. Però lasciare il mio grande amore è stata dura, anche se poi fare il team manager è stata una esperienza fantastica».
Tre mondiali vinti con Eddie Lawson e tanti campioni “svezzati”.
«Kenny Roberts, che era un grandissimo. Poi John Kocinski che era una bestia con un caratteraccio insopportabile. E ancora Luca Cadalora, una persona squisita e un pilota formidabile. E tanti altri ancora…».
Diceva che quando si decide di smettere ti scatta qualcosa in testa. Ha visto la stessa cosa negli occhi di Casey Stoner? «Probabilmente Casey si è semplicemente disamorato delle due ruote. Se è così ha ragione lui a dire basta. Complimenti per il coraggio: io a 35 anni ho pianto per tre giorni, lui ha 27 anni ed è ancora un bambino, ma se ha deciso così fa bene a chiudere qui».
In molti hanno visto in Valentino Rossi il suo erede naturale. Le due stagioni in Ducati sin qua sono state avare di successi. Crede che tornerà a vincere?
«Io non credo affatto, come dicono molti, che Rossi sia finito. Ci sono tanti grandi piloti e pochi grandi talenti. Valentino è uno di questi ultimi. Ora le cose non vanno benissimo ma sono sicuro che quando tornerà a sentirsi a suo agio su una grande moto tornerà a lottare per la vittoria».