Nell’ambito dell’edizione 2008 di “Più libri più liberi”, Umberto Eco suggerisce a chi si cimenta nel ruolo di traduttore come muoversi tra rispetto del senso profondo e potenzialità linguistiche.
Nell’ambito dell’edizione 2008 di “Più libri più liberi”, Umberto Eco suggerisce a chi si cimenta nel ruolo di traduttore come muoversi tra rispetto del senso profondo e potenzialità linguistiche.
550 esempi di errori di traduzione, difficoltà, incomprensioni, sciocchezze e bizzarrie
Un libro online di Giancarlo Livraghi
È in due parti (pdf)
di 380 esempi
luglio 2008
con altri (finora) 170
settembre 2010
Queste pagine non hanno mai avuto
la pretesa, né l’intenzione,
di essere un’antologia sistematica
o un vocabolario di errori e ambiguità.
Sono solo una raccolta di esempi
di come si possono deformare
i significati delle parole
(e perciò confondere concetti e idee)
passando da una lingua a un’altra
o usando “inglesismi” poco appropriati.
La raccolta era cominciata, per caso e un po’ per scherzo,
nel 2002 – e poi si era progressivamente estesa
fino a diventare nel 2008 un piccolo libro.
Una minuscola edizione “fuori commercio“
riservata a pochi amici. Ora è esaurita,
ma il testo è disponibile a tutti online.
Ci sono altri esempi che porterebbero il totale a più di 600.
Gli anni passano… ma devo confessare che finora
non ho trovato il tempo di approfondire la scelta
per decidere quali possano meritare di essere aggiunti.
di Sara Bertuccioli
Chi non ha mai voluto lasciare la propria impronta su un’opera come quella di Shakespeare? E soprattutto alzi la mano chi non si è mai lamentato delle traduzioni dopo aver letto la versione originale. Beh, ora con il web 3.0 questi ostacoli possono essere superati grazie a un’idea tutta italiana: ‘The Global Hamlet’, il progetto per una piattaforma che permette tramite una semplice registrazione di annotare, di tradurre e illustrare una tra le più grandi opere letterarie dell’umanità e che poi diventerà un vero e proprio libro corale.
Finalista al concorso per progetti culturali Che Fare The Global Hamlet ”è il nuovo villaggio globale della letteratura, la prima di una serie di opere d’arte collettive ottenute attraverso l’aggregazione ditantissimi contributi individuali. Tutti potranno partecipare a tradurre, annotare e illustrare l’Amleto nell’intento di realizzare dal basso un’altissima edizione dell’opera” spiega Simone Barillari, saggista, anglo-americanistra e ideatore del progetto.
IL TWITTER LETTERARIO. Una sorta di Twitter letterario a cui chiunque può partecipare: il sito già online ma che dovrebbe aprire agli utenti nell’autunno 2013, sarà formato da una pagina web con il testo e una colonna a fianco a disposizione per le traduzioni e i commenti. A corredo una terza colonna con le illustrazioni. Anche il software è tutto italiano: realizzato da Barillari, l’ideatore del progetto e dalla Sablab. A tutto questo supervisioneranno editor d’eccellenza come Riccardo Duranti, docente di traduzione alla Sapienza e storico traduttore di Carver e di molti testi teatrali.
UN LIBRO VIVENTE. Quando chi scrive chiede al vulcanico Simone Barillari a cosa si fosse ispirato per il progetto, la risposta è tranchant: ”A niente, non sempre è necessario ispirarsi a qualcosa”. L’intento, infatti spiega all’Huffington Post ”è stato quello di realizzare un libro – una forma di libro – che fosse possibile solo adesso, solo nel tempo della rete e del digitale. Il progetto muove dalla constatazione che l’editoria digitale è ancora fatta quasi interamente di libri cartacei meramente trasportati su un altro supporto: si è modificata la materia senza che si modificasse la forma. Il libro è di carta, o non è. Quello che per ora viene chiamato e-book è destinato a diventare qualcosa di altro dal libro come lo ha conosciuto l’Occidente per quasi mille anni, e a generare una forma di
scrittura, di rappresentazione scritta, radicalmente diversa rispetto alla parola letteraria. Quello che proponiamo è un tentativo di guardare in quel futuro. ‘The Global Hamlet’ non ha, del resto, nessun vero modello di riferimento: fin dalla Bibbia esistono, naturalmente, libri scritti, tradotti, annotati, a decine e centinaia di mani, ma questo sarà un libro a decine e centinaia di migliaia di mani continuamente coordinate da un unico centro, e il mutamento della quantità degli autori muterà anche la qualità, la natura, del libro che genereranno, e che sarà un libro aperto, continuamente modificato e riscritto, illimitato nello spazio e nel tempo: un libro vivente.”
Tra le prossime fatiche letterarie ci sarà ‘La Metamorfosi’ di Frank Kafka con una traduzione a migliaia di mani in uscita nel 2015 in coincidenza con il centenario della pubblicazione. Un progetto che potrebbe applicarsi anche all’opera più difficile da tradurre come ‘Finnegans Wake’ di James Joyce. ”Sì ci abbiamo pensato – risponde Barillari – come sarebbe interessante tradurre tutto Joyce, ma preferiamo affrontare opere che siano conosciute veramente da tutto il mondo, quasi patrimonio dell’umanità”.
DAL CROWDSOURCING AL CARTACEO. Il progetto che si sta sviluppando in Italia, Spagna, Sudamerica, Regno Unito e Olanda, vedrà la luce in formato cartaceo nell’autunno 2014 grazie ad accordi con importanti case editrici: in Italia Feltrinelli nella collana Zoom, in Spagna e Sudamerica Anagrama
mentre in Olanda Athenaeum. Ma non basta: sono infatti in corso contatti con gruppi inglesi, francesi e tedeschi. Il tutto sotto il patrocinio e la collaborazione di università e istituzioni italiane e internazionali. “Abbiamo colto subito la proposta perché se c’è una necessità in questo momento è quello di occupare degli spazi su due fronti, linguaggio e letteratura, giocare a stare dentro a una lingua che si muove. Nel progetto c’è un’idea di fare libri che in primis non sono materialmente libri, ma destinati a diventare opere di carta”, afferma Alberto Rollo direttore letterario di Giangiacomo Feltrinelli Editore.
“Questa trasformazione in libro sarà il frutto di severo lavoro di traduzione e montaggio che offrirà una nuova traduzione dell’Amleto. Si riallacceranno così due poli distanti ma vicini: il mondo digitale e quello carta. Il progetto ci piace perché offre la possibilità di verificare davvero la contiguità tra i due mondi: sono forti entrambi e proprio in questa contemporaneità che si gioca anche la buona riuscita di The Global Hamlet”
IL MANIFESTO. Analogico e digitale, passato e futuro che si uniscono grazie alla collaborazione di migliaia di persone in tutto il mondo. Come è spiegato nel manifesto disponibile in eBook su Amazon: “The Global Hamlet è un’altissima e monografica Wikipedia di un unico libro costantemente tradotto e annotato, commentato e illustrato dai suoi stessi lettori, è un babelico codice Linux della letteratura scritto contemporaneamente da migliaia e migliaia di programmatori della parola. The Global Hamlet è il social network di un’opera ed è la prima traduzione 2.0, in cui ogni lettore partecipa a tradurre ciò che legge e potrà essere ritradotto da chi lo leggerà”. Un Amleto social, come dimostra la presenza attiva del progetto su Facebook e Twitter.
IL LIBRO COME INTELLIGENZA COLLETTIVA. Una sfida anche per gli editori che abituati all’incasellamento di figure professionali dal traduttore al curatore si vedono di fronte a una molteplicità di intelligenze da coordinare, come spiega Fabio di Pietro Paperback & Digital Editor di Feltrinelli: “The Global Hamlet ha il pregio di farci dubitare dei ruoli dell’editoria, di cosa vuol dire fare un libro: scriverlo, ripensarlo, tradurlo. Noi siamo abituati a sapere chi fa cosa, Global Hamlet mescola le carte: noi dobbiamo riabbinare a mano tutte queste ‘tessere’. Inoltre ci porta a scommettere sul fatto che nella grande reazione chimica che scatta quando migliaia di persone collaborano a un argomento che li appassiona sulla rete, costruiscono qualcosa che diventa una piramide letteraria che si possa produrre un’opera finale della stessa elevata qualità di quelli prodotti da un singolo intellettuale.”
IL CONCORSO. Il progetto culturale è stato scelto tra i più di 500 ed è rrivato tra i 32 finalisti di Che-Fare, concorso organizzato da Doppiozero che ha l’obiettivo di sostenere le imprese sociali profit e non profit nella realizzazione dei propri progetti. Saranno proprio gli utenti a scegliere i migliori cinque votando sul sito entro il 13 gennaio 2013. Infine una giuria di qualità decreterà il vincitore del finanziamento di 100.000€ che servirà per l’effettivo sviluppo del progetto.
Se habla de lengua materna, pero la definición del término nunca me ha parecido definitiva. Hay nodrizas cuyo origen, cuya lengua, son ajenos al organismo al que amamantan. En el siglo XVI, el papá de Montaigne, el autor francés, amo del ensayo, ordenó que la primera lengua de su hijo fuera el latín.
El polaco Joseph Conrad se educó en inglés y francés, como el ruso Nabokov, que además de la lengua inglesa dominaba igualmente la francesa. Si en un principio estos dos autores escribieron sus libros en su idioma natal
o lengua materna
, es un hecho que escribieron sus títulos cumbre (Lord Jim, Lolita) en lenguas que primero les fueron ajenas o extranjeras. (Creo que fue Noam Chomsky quien observó que todos nacemos con la capacidad de hablar cualquier idioma, o todos los idiomas.)
En el caso de Conrad y Nabokov, las circunstancias fueron detonadores poderosos que orillaron a los dos a convertir en propia una lengua que no lo era para ellos, como lo fue el inglés. Pero de ahí a pensar que Nabokov se hubiera sentido cómodo si lo hubieran considerado un autor estadunidense, hay más que un paso, y creo que un paso infranqueable y abismal. (El propio Nabokov tradujo al ruso Lolita y no recuerdo cuál otro de sus libros.)
O pienso en Isak Dinesen, danesa, que escribió Out of Africa en inglés.
Desde mi rincón en el universo me atrevo a sostener, pero sin provocar, que mi texto preferido de Borges ha sido siempre su autobiografía, como lo es la de Fuentes, obras que originalmente escribieron en inglés. En el caso de la de Fuentes, perdí la oportunidad de solicitar su autorización para traducirla al español, aventura que habría corrido temerosa, pero con placer. Lamento no haberme al menos atrevido a preguntarle por qué la escribió en inglés, cómo se sintió al hacerlo y por qué no la tradujo él mismo a su lengua materna, que era el español y, concretamente, el español de México, su país, aunque no hubiera sido éste el lugar en donde nació.
(Toute proportion gardée, yo resentí cuando mi maestro alguna vez observó que yo podía/ podría/ debía/ debería escribir en inglés. ¿Debido a que en español no podía, o porque además podría hacerlo o haberlo hecho en inglés? No insistí en averiguar nada más del asunto. El resentimiento, la duda, fueron más fuertes, me ataron o hicieron las veces del ratón que se comió mi lengua, materna, paterna o de quien fuera, propia, ajena, extraña, pero amada, incorporada, trabajada como la tierra.)
Lo cierto es que Antonio Tabucchi, escritor italiano, escribió la novela Réquiem germinalmente en portugués, lengua para él aprendida, y no materna para nada. Se sabe que por mayor prestigio que hubiera alcanzado en italiano, su lengua materna, llegó a ser considerado el máximo conocedor de Pessoa y su traductor estrella al italiano. Pero su afición al autor portugués y su lengua fue más que total, pues más que una envidiable afición fue una fusión encomiable. (¿La han alcanzado Vargas Llosa o Julian Barnes con Flaubert?)
En su nota introductoria a Réquiem, Tabucchi destraba parte del trabalenguas que este tema plantea: “Si alguien me preguntara por qué esta historia ha sido escrita en portugués, le contestaría que una historia como ésta sólo podía ser escrita en portugués, y ya está. Pero habría algo más que especificar el respecto: en rigor, un Réquiem debería escribirse en latín (…) comprendí que no podía escribir un Réquiem en mi lengua, sino que necesitaba una lengua distinta, una lengua que fuera un lugar de afecto y, a la vez, de reflexión.”
Hago énfasis en que hay temas o formas literarias que no pueden escribirse más que en una lengua que sea un lugar de afecto para el autor.
Ashis Venugopal
MOUNTAIN VIEW – L’altro giorno, mentre era sballottolato in tram sui saliscendi di San Francisco, Mister Translate ruminava tra sé e sé il linguaggio degli elfi che J. R. Tolkien inventò per Il Signore degli Anelli. “A-mon-tah Dee Toy-ah”: Maledizione! “Stavo cercando di capire quanto fosse complicato: Tolkien voleva creare una lingua che avesse le caratteristiche di una parlata antica, classica, e venne fuori questo linguaggio tutto centrato sulle inflessioni – come quelle su cui ci stiamo concentrando adesso”.
Calma, calma: qui ci vuole una bella traduzione. Che c’entra Il Signore degli Anelli col signore di Google Translate, la Terra di Mezzo con la Silicon Valley? E soprattutto: che cosa sono queste maledettissime inflessioni? Nel bunker del Building 43, l’ingresso principale ai segreti del mondo Google, il dottor Ashish Venugopal miscela Tolkien e la Bhagavad Gita, le dichiarazioni dell’Onu e l’ultimo studio di glottologia.
Il giovane Venugopal, 33 anni, indiano dell’Hyderadab, laurea in computer science alla Carnegie Mellon, immerso nelle lingue già da bambino, quattro dialetti in casa più l’inglese, infanzia tra l’India e Singapore (“Tutti cinesi o malesi: ho sempre visto i film nella lingua sbagliata”) è il genietto della lampada di Translate, il “research scientist” del sito che ha cambiato la vita alle centinaia di milioni di persone che ogni giorno, in ogni parte del mondo, affidano a Internet la speranza di farsi capire da chi parla letteralmente
un’altra lingua. “In nessun altro settore puoi utilizzare la scienza dei computer per realizzare qualcosa di magico: e non è una magia riuscire a parlare con i computer?”.
Dice proprio così il dottor Venugopal: parlare. Perché è a quello che puntano adesso gli scienziati di Translate. Non più solo tradurre ma direttamente parlare un’altra lingua: usando le applicazioni vocali che sono gli ultimi sviluppi dell’avventura cominciata ormai dieci anni fa da Franz Ochs, lo scienziato adesso traslocato allo sviluppo di Android, il sistema operativo con cui Google sfida l’iOS di Steve Jobs.
“Un’amica mi ha raccontato la storia di una immigrata che parlava soltanto spagnolo ed era stata chiamata dall’insegnante a scuola perché il figlio proprio non ne voleva sapere. Lì non ci voleva un genio per capire che il problema era la lingua. Ma quella professoressa ha cominciato a digitare sul telefonino usando Google Translate. La signora è scoppiata a piangere: nessuno, ha detto, aveva mai fatto lo sforzo di farsi capire da una poveretta come me”.
E pensare che era cominciato tutto con una simpatica truffa. La prima persona che Mister Translate conquistò con le sue traduzioni fu la ragazza che sarebbe diventata la moglie. “Io sono del sud e lei del nord dell’India: due mondi a parte, anche linguisticamente parlando. Avevamo cominciato a chattare via computer e sempre in inglese: la lingua comune. Andava avanti da due settimane e finalmente le strappo un appuntamento: così, le dico via web, potremo finalmente parlarci in hindi. E lei: ma tu non parli tamil? Sì, ma ho imparato l’hindi. Lei: in due settimane? Impossibile: provamelo! E io, in hindi quasi perfetto: ora no, sono un po’ stanco, devo andare a dormire. E lei stupita, sempre in inglese: mi prendi in giro? E io, ancora in hindi: come potrei, sai che ti amo tanto… Il trucco? Avevo scoperto un sito di canzoni hindi con la traduzione inglese. E raccogliendo una parolina qui e una parolina là avevo ricostruito delle frasi-tipo. Sì, magari il mio hindi era bizzarro, con tutte quelle rime. Ma funzionò. Quando ci incontrammo dovetti confessare che era una burla. Intanto, però, Priyanka mi aveva già detto di sì”.
Non fu solo un’intuizione: dietro c’era già uno studio appassionato. “Le lingue funzionano tutte allo stesso modo. Ognuna deve saper comunicare chi fa che cosa, come viene fatto, quando viene fatto e dove”. Chi, come, dove, quando: aggiungi perché, ed è anche la domanda a cui risponde la legge fondamentale del giornalismo. “Appunto: il perché. Ogni lingua sceglie di farlo in un modo diverso. Alcune disponendo le parole in un certo ordine. Altre aggiungendo alle parole certe lettere: le desinenze. Altre lasciando al contesto il compito di far emergere il significato. Ecco perché la prima domanda che dobbiamo farci è: in che modo questa particolare lingua risponderà a queste esigenze che sono universali? In che modo l’arabo mi indicherà qual è il soggetto e quale l’oggetto? In che modo la tua lingua mi aiuterà a distinguere il significato in un frase in cui c’è la parola ‘pallà e il verbo ‘toccare’? Io tocco la palla. Oppure: io vengo toccato dalla palla”.
Sembra di essere tornati a scuola. Solo che il dottor Venugopal ha un aiutino che i ragazzi di tutto il mondo se lo sognano: il computer più potente della terra. “Quando sono arrivato a Google abbiamo rivoluzionato il modo in cui venivano fatte le traduzioni. Fino ad allora anche nei siti Internet l’approccio era quello classico. Noi abbiamo scelto quello statistico. Se io chiedo: come si traduce questo in italiano?, la risposta classica sarà: applica questa regola. L’approccio statistico invece dice: non preoccuparti di fornirmi le regole, ma aiutami a produrre qualcosa che possa funzionare sempre, magari con errori, ma possa funzionare sempre”.
La scommessa è la mole di dati. Google scava tra le traduzioni di una stessa dichiarazione in tutte le lingue dell’Onu, pesca tra i classici della letteratura e delle religioni. “Per avere un’analogia di come funziona la macchina pensiamo a un ristorante cinese”. È lo stesso procedimento con cui il dottore imparò a “parlare” hindi con la fidanzata. “Io non conosco le regole del cinese ma leggo prima la traduzione inglese, ‘Manzo in Agrodolce’, e prendo nota delle due parole cinesi. Poi leggo la traduzione di un altro piatto, ‘Vegetali in Agrodolce’, e rivedo quello stessa parola cinese usata per ‘Agrodolce’. Poi mi sposto su un altro piatto ancora, ‘Zuppa Vegetale’, e rivedo quella parola che ho incontrato prima e significa ‘Vegetale’. A questo punto sarò o no in grado di prevedere come si dice in cinese ‘Vegetale in Agrodolcè – senza leggere la traduzione in inglese?”.
Beh, certo, senza la potenza del computer moriremmo tutti di fame prima di potere riuscire a ordinare anche una zuppa. Ma perfino la macchina ha i suoi problemini. Su cui il team del dottor Vanugopal continua a lavorare. Due i principali. “Prendete le traduzioni dall’italiano all’inglese e viceversa. Ormai funzionano abbastanza: ma soprattutto le prime. Perché nella vostra lingua suonano a volte un pochino più impacciate? È il problema delle inflessioni: l’accordo tra soggetto e verbo”.
Se un bambino inglese declina il verbo “giocare”, ha solo due desinenze: “pla-y” vale per io, tu, noi, voi e loro, con “pla-ys” che gioca solo per la terza persona. Pensate all’italiano: io gioc-o, tu gioch-i, egli gioc-a, noi gioch-iamo, voi gioc-ate, essi gioc-ano. Il povero computer avrà da lavorare, eh? “Come tutte le lingue romanze, l’italiano invece dà pochi problemi nel cosiddetto ordino-riordino, che riguarda cioè le posizioni delle parole nella frase. Però se ci spostiamo, per esempio, al giapponese, qui l’ordine delle parole è tutto da ricostruire”.
Ma c’è una lingua più difficile delle altre? Anche qui, non valgono le regole che un traduttore dovrebbe sudare, ma le caratteristiche al vaglio del computer: “Una lingua più difficile è una lingua che ha pochi dati sul web. Grande differenza nel riordino delle parole. E un gran numero di inflessioni”.
Ironia della sorte. Tra le decine e decine di lingue che il dottore ha messo sul web (“Ora abbiamo anche il latino, gli studenti di tutto il mondo sono serviti… “) le ultime cinque arrivate – cioè le più difficili – sono proprio quelle made in India: tutte infarcite di riordino e inflessioni. Ma come: non era così semplice tradurre l’hindi con le canzoni? Mister Translate adesso sorride. Con quello scherzo ha conquistato una sposa: ma “semplice” è una parola che neppure gli elfi di Tolkien riuscirebbero mai a tradurre.
Scheda di sintesi (*)
(*) La scheda è a cura di Fabrizio Megale (AITI Lazio). Per un approfondimento si rimanda al sito http://utenti.tripod.it/fabriziomegale/dirittoautore
Il traduttore di un libro ha sulla propria traduzione veri e propri diritti d’autore.
Questo tipo di traduzione, quale elaborazione creativa di un’opera dell’ingegno originaria, forma infatti oggetto di una tutela giuridica speciale ed autonoma facendo sorgere diritti, in capo al traduttore, distinti da quelli che spettano all’autore dell’opera. Recita infatti l’art. 4 della legge 22 aprile 1941, n. 633 (“Protezione del diritto di autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”, abbreviata nel seguito LDA): “Senza pregiudizio dei diritti esistenti sull’opera originaria, sono protette le elaborazioni di carattere creativo dell’opera stessa, quali le traduzioni in altra lingua”. Questo articolo viene poi completato dal successivo art. 7: “E’ considerato autore delle elaborazioni l’elaboratore, nei limiti del suo lavoro”. Ogni volta quindi che la LDA parla di “autore” bisogna intendere, per i fini che qui interessano, “traduttore”, ossia autore dell’opera di elaborazione “traduzione”.
Nel linguaggio giuridico del diritto di autore, si intende con opera dell’ingegno il frutto di una creazione intellettuale. La traduzione, pur essendo un’elaborazione, costituisce a sua volta un’opera dell’ingegno, di contenuto creativo, esattamente come l’opera originaria da cui è derivata. In quanto tale essa ricade nell’ambito di applicazione della LDA.
La tutela assicurata dal diritto d’autore copre però solo le traduzioni contraddistinte da creatività. Questa non si identifica né con la novità, né con il valore, ma con la personalità, l’individualità. Per esempio la traduzione di un listino alfabetico di pezzi di ricambio, in base ad una terminologia obbligata di comparto, non costituisce opera dell’ingegno. La giurisprudenza ha affermato tuttavia che per dar vita a diritti d’autore è sufficiente una creatività anche minima.
Da tutto ciò consegue che sotto il profilo giuridico i traduttori di libri non sono, come la generalità degli altri traduttori, liberi professionisti in senso stretto, ricadenti nella generale disciplina del lavoro autonomo contenuta nel codice civile, ma autori a tutti gli effetti (come gli scrittori, gli artisti, i musicisti, i registi ecc.), regolati da una legislazione speciale e separata, il “diritto di autore”, contenuto per l’essenziale nella LDA.
Questa legislazione attribuisce al traduttore due specie di diritti: morali ed economici.
I principali diritti morali sono il diritto di paternità (obbligo di menzione del nome del traduttore, sulla copertina o sul frontespizio, ex art. 33 regolamento attuativo della LDA) ed il diritto di integrità (divieto all’editore ed a terzi di apportare modifiche alla traduzione, se queste sono lesive dell’onore e reputazione del traduttore). Trattandosi di diritti della personalità, i diritti morali sono irrinunciabili e intrasferibili, ossia possono essere fatti valere sempre, anche dopo la cessione dei diritti economici all’editore.
E’ invece pienamente cedibile lo sfruttamento dei diritti economici (detti anche patrimoniali): pubblicazione, messa in commercio, recitazione, diffusione a distanza, adattamento, digitalizzazione ecc. Si tratta di diritti indipendenti, quindi esercitabili singolarmente o nella loro totalità.
Di regola, com’è noto, il traduttore cede ad un editore, dietro compenso, lo sfruttamento economico dei diritti d’autore patrimoniali sulla traduzione, non potendo egli stesso stamparla, commercializzarla e sfruttarla in altro modo per difetto della necessaria organizzazione imprenditoriale.
A tal fine la LDA ha istituito appositamente il “contratto di edizione di traduzione” (art.130), quale particolare categoria del generale contratto di edizione per le stampe. Quest’ultimo viene così definito dall’art. 118: “Contratto con il quale l’autore concede ad un editore l’esercizio del diritto di pubblicare, per conto e a spese dell’editore medesimo, l’opera dell’ingegno”. La stessa LDA (art. 107) prevede tuttavia che i diritti di autore possano essere ceduti, oltre che con il contratto di edizione tipico, in tutti i modi e forme consentiti dalla legge. Esistono quindi anche dei contratti di prestazione d’opera di traduzione, di gran lunga meno favorevoli per il traduttore, riconoscibili dal diverso contenuto delle loro clausole. Per questo motivo si consiglia di stipulare sempre dei contratti di edizione di traduzione, nei quali deve essere in particolare indicata la durata del contratto prevista dalla legge: venti anni (al massimo). Un esempio di tale tipo di contratto è pubblicato in Cecchini, I contratti dell’editore, Milano, Guerini, 2000.
I contratti di edizione di traduzione attualmente esistenti sono, ormai nella loro quasi totalità, contratti di traduzione a termine. L’editore, con questo contratto (art. 122), ha facoltà di eseguire il numero di edizioni che stima più opportuno durante un termine, che non può eccedere venti anni, e per un numero minimo di esemplari per edizione che deve essere indicato obbligatoriamente nel contratto, a pena di nullità.
Ha affermato la migliore dottrina: “E’ da consigliare all’autore e allo stesso editore, ai fini di una non equivoca interpretazione del contratto, considerata la difficoltà di individuare quali diritti d’autore eventualmente spettino all’editore “nei limiti dell’oggetto e della finalità” del contratto medesimo, di esplicitamente enumerarli uno ad uno”.
Si torna infatti a ripetere che il diritto dell’autore non si caratterizza giuridicamente come un diritto “monolitico”, ma si articola in un complesso di facoltà patrimoniali distinte. I diritti di utilizzazione economica dell’opera sono fra loro indipendenti (art. 119 LDA), esercitabili separatamente o congiuntamente e cedibili all’editore anche singolarmente mediante distinte clausole o contratti, purché in modo espresso e provabile per iscritto per estensione territoriale e temporale. Così, mentre la stragrande maggioranza dei traduttori cede di regola tutti i diritti, alcuni di essi riescono a trattenere per sé particolari categorie di diritti.
Per quanto riguarda il compenso, l’art. 130 afferma che per l’edizione di traduzioni esso può essere anche “a stralcio”, ossia in misura fissa onnicomprensiva, parametrata al numero di cartelle. Poiché questa è una semplice facoltà riconosciuta alle parti, si può anche adottare la forma di compenso dettata dalla legge per la creazione delle altre opere dell’ingegno, ossia il compenso a percentuale sulle vendite (o misto: anticipo fisso e successiva percentuale). Nel nostro paese tuttavia il compenso a percentuale per le traduzioni è più raro. Poiché, inoltre, l’editore ha facoltà di subcedere a terzi i diritti da lui acquistati, i migliori contratti riconoscono al traduttore una percentuale sul ricavo, quando avviene tale subcessione di alcuni o tutti i diritti. Sebbene sia molto rara, questa clausola va menzionata.
Date tutte le peculiarità fin qui viste della traduzione editoriale, l’esercizio abituale di questa attività non è considerato come “esercizio di arte o professione” ed il regime fiscale da applicare è quello, speciale e agevolato, degli autori (l’imposta è calcolata solo sul 75% del compenso percepito e, se si esercita solo questa attività, non è necessario tenere registri contabili). Ne consegue che i traduttori di libri non percepiscono “onorari” da liberi professionisti, ma “redditi derivanti dalla cessione di diritti d’autore” o, con espressione equivalente, “redditi derivanti dall’utilizzazione economica di opere dell’ingegno”.
La “cessione di diritti d’autore” non è quindi soggetta ad IVA. Per questo motivo a tali redditi non si applica nemmeno il cosiddetto “13% INPS”, istituito a fini previdenziali.
Infine, l’abitualità o l’occasionalità dei diritti d’autore percepiti non ha alcuna rilevanza: in entrambi i casi si applicano la tassabilità al 75% e la non soggezione all’IVA nonché le altre peculiarità fiscali minori.
Link selezionati
Portale italiano del diritto d’autore
Testo della legge sul diritto d’autore, comprensivo delle successive modifiche (formato PDF)
L’apertura di questo sito potrà richiedere un’attesa di qualche minuto.
http://www.ccip.fr/irpi/portail
Repertorio di link sul diritto d’autore. Cliccare prima su “Droits de la PI”, poi su “Droits d’auteur”
Sito sulla traduzione letteraria (BIBLIT)
Lina Zerón, entrevista con Claude Couffon
Claude Couffon es una de las pocas personalidades francesas que puede vanagloriarse de conocer el mundo literario de América Latina, con sus cualidades y defectos. Los que hemos tenido la oportunidad de tratarlo y gozar de su amistad sabemos que es simpático, sencillo y fraternal. Por sus manos han pasado los escritos más hermosos de la literatura contemporánea y sus ojos los han recorrido con ese placer y hasta orgullo de ser su primer lector. En su condición de traductor las aprecia y les acredita un añadido de valor al valor que en sí ya tienen gracias a esa tarea de desentrañar lo que realmente quieren decir. Traducir una obra literaria, y en especial poesía, es un trabajo complejo y sólo los que verdaderamente la sienten y la aman pueden penetrar en ese lenguaje profundo que va más allá de esos dibujos formando líneas de escritura. Sabemos también que Claude Couffon es y ha sido el depositario de obras de muchas figuras literarias, históricas y revolucionarias de América Latina, honor y confianza más que merecidas. En 1986 recibió el Gran Premio de Traducción del Ministerio de Cultura de Francia. El pasado 18 de octubre del año 2002 se le rindió un homenaje en la Casa de América Latina en París y en ese mismo marco se presentó su poemario Tarde o temprano, Editado por Linajes Editores, México.
¿–Cuál fue la causa que te motivó para dedicarte a los estudios de la poesía hispanoamericana?
–En 1951, después de unos años de investigaciones en Granada, publiqué en El Fígaro, el primer artículo documentado sobre la muerte de Federico García Lorca. Mi encuesta fue en seguida traducida a varios idiomas y reproducida más particularmente en los periódicos de América Latina. Y yo –un joven de 25 años– que no había pensado nunca conocer a los grandes escritores españoles y latinoamericanos, empecé a recibir cartas amistosas y libros de los íntimos de Federico, mis “dioses” sólo conocidos por lecturas: Neruda, Alberti, Asturias, J.R. Jiménez, los dos Guillén, el español y el cubano, Cernuda, León Felipe… Todos estaban en el cenit de su arte. Y decidí dejar de escribir los humildes versos que me salían desde mi juventud para dedicarme a traducir a mis nuevos “amigos” y difundir en Francia sus obras. Tuve la suerte de encontrar entonces, gracias a Louis Aragón, al admirable y activo editor de poesía, Pierre Seghers, que me acordó su confianza y publicó la mayor parte de mis traducciones así como mis estudios sobre Lorca, Alberti, Nicolás Guillén y Miguel Ángel Asturias.
–En tanto que especialista de la poesía hispanoamericana, ¿cuáles han sido a su juicio los más importantes poetas?
–Siempre tuve una viva admiración hacia los poetas que traduje y que me honraron con su amistad: Neruda, Asturias, Nicolás Guillén, Jorge Carrera Andrade, Dulce María Loynaz, Alejandra Pizarnik, Olga Orozco, Octavio Paz, Jorge Eduardo Eielson, Blanca Varela. Pero también traduje con placer a Martín Adán, Gabriela Mistral, José Gorostiza, Jaime Sabines, Eliseo Diego, Elvio Romero, Roberto Sosa…y entre los jóvenes hay varios que no te doy los nombres porque podría brincarme alguno. Hablo aquí de los poetas pero debo a ciertos novelistas, también íntimos amigos, meses y a veces años de alegre entusiasmo al traducirlos: García Márquez, Manuel Scorza, Onetti, J.J. Arreola, Monterroso, Jorge Icaza, Julio Cortázar, Jorge Edwards, Alejo Carpentier y, recientemente la mágica novela Los convidados del Volcán, de Antonio Sarabia. He traducido unos ensayos de Sábato, libros de entrevistas de Borges, pero recuerdo con qué asombro y emoción corría mi pluma al trasladar a mi lengua las páginas de Biografía de un cimarrón, de Miguel Barnet o Las venas abiertas de América Latina, de Eduardo Galeano.
–Si de poesía “femenina” se puede hablar, ¿cuáles serían las poetisas más sobresalientes?
–Hace ya varios años que consagro gran parte de mi actividad de traductor a la poesía femenina latinoamericana. Fue siempre importante dicha poesía, desde Delmira Agustini y Alfonsina Storni, pero asistimos desde hace dos o tres decenios a una irresistible ascensión de la lírica femenina, y con un tono contestatorio de emancipación acertada. La mujer poeta latinoamericana de hoy se atreve a invadir y explorar dominios desde siempre prohibidos para ella, en particular los del erotismo. En la experiencia amorosa, la mujer moderna ya no quiere ser, como lo imponía la tradición machista, el mero receptáculo del hombre, el objeto suscitando y recibiendo con más o menos fortuna el efecto producido. Ya no es un elemento pasivo sino activo, y participa plenamente con su diferencia en la maravillosa búsqueda del placer, del cual hasta puede ser “La generadora”. Su cuerpo es un crisol de sensaciones que antes no podía interrogar y que sin embargo ella es la única con capacidad de expresar, especialmente con la poesía. La mujer que toma posesión de su cuerpo, que lo celebra en su intimidad más sensual con la vida –a veces con un erotismo solitario u homosexual– es la que cantan hoy con talento las nuevas creadoras de América latina. No te menciono nombres porque las conoces a casi todas e igual no quiero herir susceptibilidades si no nombro a alguna, pero del sur chileno a México el viento erótico femenino sopla con gracia, humor y autenticidad, llevando los ecos íntimos más secretos y fascinantes.
–Respecto a los grandes poetas como Huidobro, Rubén Dario, Neruda y Vallejo para mencionar sólo éstos frente a los poetas contemporáneos, ¿en qué son diferentes? ¿Cuáles son los parámetros para medir la calidad poética entre uno y otro? Y ¿en qué consiste la evolución de los contemporáneos frente a los valores considerados clásicos?
–Por la edad –setenta y seis años– pertenezco plenamente al siglo xx. La poesía latinoamericana que me tocó leer, vivir y traducir fue esencialmente humana, y muchas veces comprometida. El hombre y sus problemas sociales, políticos, económicos, cívicos y artísticos, ocupaba el centro de cada obra poética. El combate por la dignidad, el fin de las dictaduras, la justicia social y un porvenir más luminoso para el hombre se unía a la celebración de la belleza telúrica. Vallejo, Neruda, Nicolás Guillén se leían más que Lezama Lima o Huidobro. Parece que asistimos hoy a un cambio radical. Es difícil saber lo que será la poesía del siglo xxi, pero empezó hace ya más de un decenio. La deshumanización está de moda. Lo social, lo político, lo humano han desaparecido. Muchos poetas se encierran en un yo delirante, un narcisismo a veces muy oscuro. Unos, con pretensiones de investigación, quieren hacer de la poesía un juego sabio, matemático, frío y finalmente muy aburrido y pedante. Pero uno se pregunta lo que gana al leerlos. A mí ese género de libro se me cae enseguida de las manos. Pero, te repito, soy un hombre del siglo xx y éste ya ha muerto.
–¿Cómo defines un poema de vanguardia frente a un poema considerado tradicional?
–Con el tiempo, toda poesía de vanguardia se hace clásica, en el sentido noble del término. Es decir que añade un eslabón a la larga cadena poética anterior y, de hecho, ininterrumpida. Lo que ocurre es que el poeta de vanguardia piensa que se rebela contra la generación o las generaciones anteriores y que está en ruptura total con sus predecesores. ¡Y no! Sólo respira un aire nuevo, el de su época, que le permite introducir una creación nueva, muchas veces influenciada por los fenómenos sociales, los credos y entusiasmos o rechazos pasajeros, las modas. Cuando termina la época, la mayor parte de lo escrito desaparece con ella y sólo quedan unos nombres con unos pocos textos para la memoria del futuro. Muchas veces, los que crean un movimiento de vanguardia no dejan una obra literaria memorable. Son los contemporáneos que se nutren de ella que a veces crean lo más representativo y duradero. Así, los creadores franceses del surrealismo son hoy día más buscados y mimados por los bibliófilos que por los verdaderos lectores de poesía. La gran poesía surrealista es española con Vicente Aleixandre, peruana con Vallejo, César Moro, Martín Adán, Westphalen y Eielson. Y son dos grandes poetas populares que finalmente nos han dejado sus dos mejores florones sin querer nunca ser “surrealistas”: Rafael Alberti con Sobre los ángeles y Neruda con Residencia en la tierra.
–¿Proyectos futuros?
–Estoy trabajando en veinte antologías de poesía, bilingües, latinoamericanas encargadas por la Editorial Patiño de Suiza, ya entregué siete incluyendo la de autores mexicanos, también estoy traduciendo un libro de poesía joven de Pablo Neruda y debemos terminar mis memorias, de las cuales tú eres depositaria y espero que las concluyamos el año entrante.