Gino Strada, leader di Emergency e medico di fama internazionale, specializzato in chirurgia prima a Milano, poi in centri in Sudafrica, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, con la Croce Rossa ha lavorato in Etiopia, Tailandia, Gibuti, Somalia, Perù, Bosnia-Erzegovina; nel 1994 fonda Emergency per offrire assistenza medico-chirurgica gratuita e di elevata qualità alle vittime civili delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà: in 17 anni di attività, Emergency ha curato oltre 4 milioni e mezzo di persone in Iraq, Cambogia, Afghanistan, Bosnia, Eritrea, Sudan; proprio in questo paese, il 14 agosto 2011, è stato sequestrato, nel sud del Darfur, Francesco Azzarà: 34 anni, originario di Motta San Giovanni (RC), alla sua seconda missione in Sudan, è uno dei responsabili amministrativi del Centro pediatrico fondato da Emergency, a Nyala, nel luglio 2010; nonostante l’impegno di Emergency, del Ministero degli Esteri italiano e la mobilitazione di Comuni, Regioni, politici, comitati di solidarietà e semplici cittadini, il sequestro si protrae ormai da oltre 4 mesi.
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Tutti gli articoli per il giorno 17 dicembre 2011
di Federico Faloppa
In molti – e a ragione – si è puntato il dito sui mezzi di comunicazione mainstream. Sulle loro responsabilità. Sul loro modo di distorcere l’informazione. Sul loro «razzismo inconsapevole», come ha ammesso in un ormai celebre messaggio di scuse un caporedattore de «La Stampa», domenica scorsa. Pensavamo che quel messaggio rappresentasse una cesura, una nuova consapevolezza. Ma ci siamo stupiti di nuovo martedì pomeriggio, scorgendo sul web il primo titolo proprio de «La Stampa», che ha proposto la discutibile espressione di «Far West a Firenze» (immagine che ricorda scontri a fuoco tra pistoleri, più che un barbaro omicidio). O scorrendo le prime edizioni online di alcuni quotidiani, che hanno chiamato «vu cumprà» i due cittadini senegalesi morti, ma «ambulanti» i loro colleghi italiani; che hanno negato per tutto il giorno, alle due vittime, un nome e un cognome (mentre hanno fatto a gara per poter dare quello di Casseri). O leggendo un lancio dell’Ansa, in cui l’assassino veniva definito «giustiziere». E dallo stupore siamo passati alla rabbia quando abbiamo letto ieri, su «Il foglio», l’elzeviro di Camillo Langone.
In molti siamo rabbrividiti di fronte ai farneticanti proclami neo-nazisti zeppi di «scorrerà altro sangue», «punire gli invasori», «immondizia negra». Come siamo rabbrividiti a scoprire che in Italia l’estrema destra, in questi anni di razzismo strisciante, è cresciuta, si è organizzata, si è radicata.
In molti siamo rimasti increduli di fronte ai commenti di chi non ha perso occasione – neanche in questi giorni – per sostenere che un po’ di colpa ce l’hanno anche loro: gli zingari, gli immigrati. Come se la causa del razzismo dovesse essere cercata nelle presunte colpe delle vittime, più che nei comportamenti dei razzisti. A me personalmente è capitato di rimanere sbacalito ieri – durante il programma «Coffee Break» su La7 – di fronte alla pochezza di argomenti e alla protervia di un onorevole leghista che pensava di essere – sbagliando vergognosamente tempi e contesto – in campagna elettorale. Come sono rimasto sbacalito in questi anni, insieme alla maggioranza di noi, di fronte alle dichiarazioni razziste di molti esponenti della Lega: da quelle sugli «immigrati» che sono una «malattia», a quelle che paragonavano gli «zingari» ai «topi», a quelle che evocavano i «forni crematori» per gli «immigrati». Frasi che, se pronunciate in un altro paese europeo, avrebbero costretto i loro autori a dimettersi, immediatamente, da qualsiasi carica pubblica. E che da noi invece sono state fatte passare come «folklore».
In molti abbiamo sorriso – a denti stretti – di fronte alla massima (e di nuovo Lega dixit) «il razzismo esiste per colpa del buonismo». Perché è vero: c’è stato troppo «buonismo». Ma non certo nei confronti dei migranti, a cui progressivamente sono stati negati dei diritti. Piuttosto, nei confronti dei razzisti, a maggior ragione di quelli «istituzionali». Che non avrebbero dovuto dire, ripetere, fare – impunemente – certe cose. Altro che cittadinanza a punti per gli «immigrati». La cittadinanza a punti la si dovrebbe dare a chi non rispetta la Costituzione, a chi disprezza la dignità delle persone, a chi istiga al razzismo.
Ecco. Prendo spunto dalla provocazione per rovesciare uno stato d’animo. Dopo la commozione, l’indignazione, la condanna dovremmo passare all’azione. All’orgogliosa risposta. Alla proposta. Deve esserci una svolta. Una svolta nel nostro modo di ragionare, di discutere di certi temi. Respingendo l’approssimazione, il confronto al ribasso e le battute da bar. Ed esigendo – a partire da noi stessi, sapendo che ci costerà fatica – una nuova qualità tanto degli argomenti quanto dell’argomentazione. Ci deve essere una svolta in chi fa, per chi fa informazione. Che deve dimostrare di essere all’altezza del proprio compito, dell’intelligenza dei lettori, della complessità della realtà. Ci deve essere una svolta nelle risposte politiche. Non più ricalcate – a sinistra – su quelle della destra. O basate sui sondaggi del giorno prima, che negli anni scorsi hanno imposto il mantra della «sicurezza», intesa soltanto come «ordine pubblico».
Ci deve essere una svolta, insomma, nel pensare alla società «multiculturale». Non si tratta di trovare la pietra filosofale. Basterebbe, per cominciare, partire dalle tante elaborazioni, sperimentazioni, iniziative costruite negli anni da chi ha lavorato sul territorio. E a cui spesso urlatori, piazzisti, improvvisatori – anche a sinistra – hanno sottratto visibilità sui media, nelle istituzioni. È una voce collettiva quella che va ripresa. Una voce che leghi le tante esperienze già svolte, i tanti contenuti già discussi, negoziati, condivisi: all’interno di un progetto di lunga durata, svincolato – finalmente – dall’emergenza (altra parola a cui ci siamo, colpevolmente, assuefatti, nella mistificante retorica di questi anni). Una voce che non soltanto si opponga alla barbarie, ma che senza timore, a testa alta, si esponga. Una voce che – sui razzismi e sui leghismi – progressivamente si imponga.
“Solo una cortina di fumo per nascondere il fallimento negli aiuti alle persone”. L’associazione ecologista commenta duramente le dichiarazioni del premier nipponico secondo il quale la situazione attorno all’impianto atomico si è normalizzata
Il primo ministro giapponese Yoshihiko Noda ha annunciato oggi che l’impianto nucleare diFukushima è stato “stabilizzato”. La centrale atomica, gestita dalla società Tepco, era stata danneggiata duramente dallo tsunami seguito al terremoto dello scorso 11 marzo e per mesi i tecnici giapponesi hanno lottato contro le fughe radioattive e il rischio di esplosione di quattro reattori, i cui impianti di raffreddamento furono danneggiati.
Secondo Noda, adesso si potrebbe procedere alla fase di spegnimento, anche se per mettere in sicurezza del tutto l’impianto ci vorranno decenni. Per il premier, la stabilizzazione dei reattori a rischio, indica che “abbiamo superato la fase dell’emergenza”, ma la situazione nella zona della centrale – evacuata da migliaia di abitanti – è tutt’altro che tranquilla. Per raffreddare i reattori, infatti, è stata usata acqua di mare, che è stata poi rilasciata nell’ambiente. Il governo giapponese mantiene una zona di interdizione alla pesca nelle acque prospicienti l’impianto e una zona di sicurezza di venti chilometri attorno alla centrale.
La gestione dell’emergenza è stata duramente contestata sia dall’opinione pubblica nipponica sia dalle associazioni ambientaliste internazionali che hanno accusato il governo di Tokyo e la Tepcodi aver nascosto informazioni essenziali nella fase più acuta dell’emergenza. Per evitare ulteriori critiche, Noda ha precisato che il governo renderà nota “una road map per le successive fasi di gestione dell’impianto”, che comprenderà anche la decontaminazione delle aree colpite dalle fughe di radiazioni avvenute in questi mesi.
Le assicurazioni di Noda, però, non convincono tutti. Greenpeace, per esempio, ha affidato al suo direttore in loco, Junichi Sato un duro commento: “Le autorità giapponesi sono chiaramente ansiose di dare l’impressione che la crisi sia giunta al termine, ma questo non riflette chiaramente la realtà. Invece di usare i media per alzare una cortina di fumo per nascondere il fallimento negli aiuti alle persone che vivono con le conseguenze del disastro, la priorità del governo dovrebbe essere quello di garantire la sicurezza pubblica e iniziare la chiusura di tutti i reattori nucleari in Giappone”.
Secondo l’associazione ecologista, Tepco non ha ancora raggiunto il livello di “arresto a freddo” necessario ad avviare lo spegnimento dei reattori e migliaia di tonnellate di acqua contaminata sono ancora nell’impianto, senza che sia stata trovata una soluzione per il loro stoccaggio. Inoltre, Greenpeace ha condotto delle analisi indipendenti sui livelli di radiazioni a Fukushima e risulta che in città sono state colpite migliaia di abitazioni. Per esse – e soprattutto per i loro abitanti – l’organizzazione ambientalista chiede che Tepco, oltre a farsi carico dei costi di decontaminazione, versi anche adeguati risarcimenti. Solo 35 abitazioni, nei nove mesi trascorsi dall’incidente, sono state decontaminate, secondo l’associazione ambientalista.
E mentre circa 80mila persone aspettano di poter sapere se e quando sarà possibile fare ritorno con sicurezza nelle proprie case, il governo nipponico, qualche giorno fa ha ammesso che le operazioni di “pulizia” dell’area colpita dalle radiazioni potrebbero richiedere fino a 40 anni. Non solo, molti esperti di impianti nucleari fanno rilevare che, anche ammesso che la stabilizzazione sia effettivamente avvenuta, un nuovo terremoto nella zona o un nuovo tsunami potrebbero risultare fatali per l’impianto e i suoi reattori. L’emergenza, quindi, con buona pace del primo ministro Noda, è tutt’altro che chiusa.
di Joseph Zarlingo
La Romagna dice addio agli yacht di lusso. La Ferretti acquistata da un’azienda cinese (da Il Fatto)
Sarà rilevato il 58 per cento del debito dell’azienda che era un fiore all’occhiello del lusso italiano. “Unica strada per evitare il fallimento”
La Cina è vicina, anzi praticamente ormeggia in Riviera. La Ferretti Yatch, l’azienda multinazionale con sede a Forlì, leader mondiale nella cantieristica di lusso passa in mano cinese. Il gruppo Shandong Heavy Industry Group, colosso nella produzione di macchine agricole e per l’edilizia con più di 20 mila dipendenti, rileverà infatti il 58 % del debito del gruppo romagnolo: un passivo stimato in circa 600 milioni di euro.
La società forlivese non ha ancora rilasciato delle dichiarazioni ufficiali, ma l’accordo raggiunto con gli asiatici avrebbe come condizione quella di non snaturare il marchio, punto di riferimento della nautica: sarà mantenuta l’italianità, a cominciare dai cantieri che rimarrebbero dove sono, eNorberto Ferretti, fondatore e presidente che diventerebbe socio di minoranza, rimarrà nella governance del gruppo con un ruolo di primo piano.
Della acquisizione del gruppo fondato nel 1968, che ha in catalogo ben otto marchi della cantieristica navale (oltre allo stesso Ferretti ci sono Itama, Pershing, Crn, Mochi, Bertram, Custom Line e Riva) si era parlato fin da settembre. Un primo avvicinamento da parte della multinazionale asiatica non era però riuscito. Ora, con l’accordo raggiunto, la Shandong dovrebbe fare proprie le quote di debito di due fondi creditori, la Oaktree (creditore al 40 %) e la Strategic Value Partners (18 %). L’operazione dovrebbe avvenire secondo l’articolo 182 bis della legge fallimentare (che si occupa della ristrutturazione dei debiti). Proprio per poter sfruttare questo strumento era necessaria l’approvazione anche della Royal bank of Scotland, l’altra creditrice di peso. Una approvazione che sarebbe arrivata, facendo svoltare la trattativa.
Oltre a rilevare gran parte del debito (che passerebbe da 600 a 100 milioni di euro) i cinesi e dovrebbero sborsare altri 180 milioni di euro (insieme, proporzionalmente, anche agli altri azionisti) da immettere nel capitale e alla fine di tutte le procedure dovrebbero arrivare a detenere circa il 70 -75 % della compagine. In questo modo, dopo mesi di incertezze, la sorte di un fiore all’occhiello della produzione italiana dovrebbe essere messo al sicuro dal fallimento, dopo i timori recenti espressi soprattutto da parte dei sindacati.
Proprio quello degli stabilimenti e del lavoro è uno dei punti più delicati della questione. La produzione infatti non dovrebbe subire, dopo l’operazione appena conclusa, rallentamenti o dismissioni. In ballo ci sono 2 mila dipendenti in tutta Italia fra i cantieri di Forlì (dove ce ne sono 500), La Spezia, Ancona, Cattolica, Sarnico, Marotta e San Giovanni in Marignano. I sindacati stessi, preoccupati per le condizioni finanziarie del gruppo, avevano inviato nei giorni scorsi una lettera al nuovo ministro per lo sviluppo economico, Corrado Passera, affinché intervenisse per sbloccare la trattativa dall’impasse in cui si trovava.
Ora l’accordo raggiunto potrebbe aprire interessanti prospettive anche perché il settore del lusso non conosce crisi, anzi. Nei cantieri della controllata Cnr di Ancona, per esempio, nonostante i 600 milioni di debito del gruppo, ci sarebbero commesse fino al 2014.
(con la collaborazione di Alessandro Mazza)
Atterrato alle 6 con un volo speciale ha incontrato la famiglia. Atteso in giornata il suo ritorno a Motta San Giovanni. Vincenzo Catalano, portavoce della famiglia, dichiara: “Ci ha chiesto come stavamo”. I magistrati parleranno con l’operatore di Emergency per chiarire la vicenda
Francesco Azzarà, liberato ieri dopo 124 giorni di prigionia, è rientrato in Italia con un volo speciale . “Mio figlio – ha detto il padre di Francesco – è arrivato stamane alle 6 a Roma con un volo speciale. Ora sarà sentito dal magistrato che aveva aperto il fascicolo sul suo rapimento e poi si vedrà come organizzare il suo rientro. Vogliamo ringraziare tutte le autorità che ci sono state vicine e ci hanno sostenuto in questa vicenda”. Vincenzo Catalano, portavoce della famiglia, dichiara: “Ci ha chiesto come stavamo e noi lo abbiamo chiesto a lui ma non ci siamo dilungati. Avremo tempo di parlare di questa vicenda che comunque deve essere dimenticata”.
Sul sequestro del cooperante in Sudan, la Procura di Roma, ha da tempo aperto un fascicolo di indagine ipotizzando il reato di sequestro di persona con finalità di terrorismo. L’indagine è stata affidata dal procuratore aggiunto Pietro Saviotti ed al sostituto Elisabetta Cenniccola che oggi ascolteranno il ragazzo per chiarire i dettagli della vicenda.
Motta San Giovanni, il paese del reggino dove l’operatore di Emergency vive con i suoi familiari, attende il suo rientro a casa. Dopo la notizia della sua liberazione, ieri, gli abitanti si sono ritrovati per strada ed hanno iniziato a festeggiare. “La gioia ci pervade tutti – ha dichiarato il sindaco Paolo Laganà – ora aspettiamo di capire come sta il ragazzo, sia dal punto di vista fisico che psicologico. Certamente 120 giorni non sono stati facili da passare. Questo è il più bel regalo di Natale”.
Il trentaquattrenne è stato sequestrato ad agosto a Nyala mentre si recava in aeroporto con alcuni colleghi. “Le autorità del Darfur occidentale sono riuscite a liberare l’ostaggio italiano”, si legge nel dispaccio della Sudan Media Centre, un’agenzia indipendente vicina ai servizi di sicurezza diKhartoum. Giovedì Emergency aveva diffuso una nota in cui dava per imminente la sua liberazione. Il Ministro degli Esteri, Guido Terzi, ha espresso la sua soddisfazione per il buon esito della vicenda e ha dichiarato di non essere a conoscenza del pagamento di un riscatto.