“Oggi è il 43mo anniversario della strage di Piazza Fontana. 43 anni e nessun colpevole. Riguardo alla vicenda sono stati arrestati, anni fa, alcuni esponenti dei servizi segreti italiani (quindi persone legate al Ministero degli Interni). Lo Stato e i suoi rappresentanti hanno depistato i giudici, e mantenuto i segreti. Intanto, a turno, tutti gli esponenti politici hanno versato false parole di cordoglio.
Con strategia della tensione ci si riferisce ad una teoria interpretativa che accomuna in un unico disegno politico l’insieme delle stragi e degli attentati terroristici avvenuti in Italia nei decenni successivi alla vittoria alleata della seconda guerra mondiale, con particolare intensità tra il 1969 e il 1984 ma anche – in misura minore – nei decenni successivi. Alcune fonti individuano nell’attentato di Piazza Fontana l’atto iniziale del dispiegarsi, in Italia, della strategia della tensione. La “strategia della tensione” mantiene uno stretto legame con il fenomeno generale del terrorismo di stato e indica la partecipazione nascosta (o il benestare) di settori dello Stato in azioni terroristiche ai danni del proprio popolo.
L’espressione è stata ripresa dalla traduzione letterale dell’inglese strategy of tension, utilizzata dal settimanale The Observer in un articolo del dicembre 1969, per definire la politica degli Stati Uniti, con il fattivo appoggio del regime militare greco, tesa a destabilizzare i governi democratici delle nazioni con particolare valenza strategica nell’area mediterranea, nella fattispecie Italia e Turchia, attraverso una serie di atti terroristici, allo scopo di favorire l’instaurazione di dittature militari.
Rispetto alla congerie di azioni violente che hanno caratterizzato la cronaca politica italiana degli ultimi trent’anni, si inscrive nella strategia della tensione il periodico verificarsi di stragi od attentati privi di rivendicazione, tendenzialmente compiuti con esplosivi in luoghi pubblici o mezzi di locomozione di massa:
Il 1 maggio 1947 a Portella della Ginestra avvenne una strage collocata storicamente solo di recente nella Strategia della tensione. Morirono 11 persone e 27 feriti.
Nel corso del 1969 vennero compiuti degli attentati considerati prodromi di quelli del 12 dicembre: bombe del 25 aprile 1969 e attentati ai treni dell’estate 1969.
Il 12 dicembre 1969 avvenne un attentato a Milano, la strage di Piazza Fontana; morirono 17 persone e 88 furono ferite.
Il 22 luglio 1970 un treno deraglia sui binari sabotati precedentemente da una bomba nei pressi della stazione di Gioia Tauro. La strage di Gioia Tauro; morirono 6 persone e 66 furono ferite.
Il 17 maggio 1973 avvenne la strage della Questura di Milano, in cui morirono 4 persone e altre 46 rimasero ferite.
Il 28 maggio 1974 avvenne la strage di Piazza della Loggia, a Brescia, in cui morirono 8 persone e altre 102 rimasero ferite.
Il 4 agosto 1974 avvenne l’attentato al treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, in cui morirono 12 persone e altre 105 rimasero ferite.
Il 2 agosto 1980 avvenne la strage di Bologna, in cui morirono 85 persone e furono ferite oltre 200 (tuttavia non tutti indicano questo episodio come parte della strategia della tensione. Esiste ad esempio una pista che indica il terrorismo palestinese colpevole della strage come ritorsione per la rottura del cosiddetto “Lodo Moro” La pista segreta).
Il 23 dicembre 1984, antivigilia di Natale, avvenne l’attentato al treno rapido 904, ancora a San Benedetto Val di Sambro, in cui 17 persone persero la vita e oltre 260 rimasero ferite.
Le condanne definitive per tali stragi sono poche:
Per la strage della Questura di Milano l’anarchico Gianfranco Bertoli, arrestato in flagranza di reato;
Per la strage di Bologna i neofascisti Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini;
Per la strage del rapido 904 un gruppo di fuoco composto da mafiosi, camorristi e Banda della Magliana.
All’inizio degli anni novanta il giudice per le indagini preliminari di Savona Fiorenza Giorgi, nel decreto di archiviazione relativo ad un’indagine su alcune bombe esplose in città tra il 1974 ed il 1975, compie un’analisi degli attentati avvenuti nella prima fase della strategia della tensione, in cui, tra le altre cose, cita le coperture garantite dai servizi italiani ad alcune azioni terroristiche ed all’operato di personaggi come Junio Valerio Borghese. Secondo quanto riportato dal giudice:
« Dal 1969 al 1975 si contano 4.584 attentati, l’83 percento dei quali di chiara impronta della destra eversiva (cui si addebitano ben 113 morti, di cui 50 vittime delle stragi e 351 feriti), la protezione dei servizi segreti verso i movimenti eversivi appare sempre più plateale. »
Mentre escono libri e film sulla strage del 12 dicembre 1969 e si accendono le polemiche sulle diverse ricostruzioni, Vito Bruschini sceglie la chiave “fiction”. E spiega: “Di quell’evento si sa quasi tutto, ma la ferita sanguina ancora perché le istituzioni non vogliono dare un nome ai veri responsabili”
di SILVANA MAZZOCCHI
Oltre quarant’anni dopo la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, la verità giudiziaria non ha ancora individuato i colpevoli, e diciassette morti e ottantotto feriti sono rimasti senza giustizia. Quell’eccidio è stato definito il nostro 11 dicembre perché cambiò per sempre il corso del Paese e le coscienze di tutti gli italiani ma, per noi, segnò anche l’inizio della strategia della tensione. Una tragica sequenza di attentati devastanti che, in uno scenario di Guerra fredda, vide scendere in campo in campo servizi segreti nostrani e atlantici, esecutori di matrice neofascista, depistaggi e protezioni eccellenti, patti inconfessabili tra pezzi della politica italiana e intelligence straniere e lunghi processi finiti nel nulla o quasi. Una verità storica acquisita che ora, a distanza di decenni, viene riletta da libri e film. Come Romanzo di una strage, firmato da Marco Tullio Giordana e liberamente ispirato al libro “Il segreto di Piazza Fontana” di Paolo Cucchiarelli (Ponte alle Grazie), secondo cui quel pomeriggio del 12 dicembre 1969 esplosero due bombe piazzate da persone appartenenti a diversi fronti politici, una anarchica (per fare rumore) e una neofascista per provocare la strage, tesi non ripresa dal film di Giordana. Una riscrittura dell’attentato che ha spinto Adriano Sofri a pubblicare sul web l’istant book 43 anni. Verità giudiziaria e verità storica modulate attraverso diverse letture. E, come spesso è accaduto in Italia, pesa la mancanza di una versione credibile e definitiva
che possa consegnarci una memoria condivisa dei fatti.
In questo contesto, paradossalmente, la finzione diventa mezzo efficace per ricostruire nel modo più attendibile la realtà. Ed è il nuovo libro di Vito Bruschini, “La strage, il romanzo di piazza Fontana”, (in libreria per Newton&Compton) a compiere un passo avanti. Grazie a elementi di fantasia innestati in un contesto ampiamente documentato e, soprattutto, alla libertà che la finzione consente, la strage del 12 dicembre ’69 e l’orrore di quei giorni e di quel tempo cruciale per il nostro Paese, emergono finalmente in modo nitido e convincente, secondo lo stile ormai collaudato di Bruschini. Da sottoscrivere le parole del magistrato milanese Guido Salvini, citate in apertura del libro: “Piazza Fontana ha avuto l’effetto perverso di inquinare il rapporto di fiducia tra Stato e cittadini creando un clima di sospetto che dura ancora oggi. Ha cambiato il sentire comune e per questo è imprescrittibile”.
Bruschini, a più di quarant’anni dalla strage ancora libri e film. La ferita è rimasta aperta? “Le ferite del nostro recente passato non potranno mai rimarginarsi fin quando gli italiani avranno una corta memoria storica. Ancora oggi se proviamo a chiedere in giro chi mise le bombe a Piazza Fontana, molti risponderanno che furono le BR. Assurdo. Oggi, storicamente e giuridicamente, si sa quasi tutto di quel tragico evento: i mandanti, gli esecutori, i depistatori, il ruolo dei servizi segreti. Eppure la ferita sanguina ancora perché continua a esserci una certa reticenza da parte delle istituzioni a dare un nome ai veri responsabili. In tal senso il mio romanzo, pur nei termini di una storia romanzata e non di un saggio, per la prima volta racconta momento per momento il perverso piano di quelle forze reazionarie che in quegli anni tentarono di bloccare lo sviluppo sociale della nazione. Quanti sanno che l’incontro tra il presidente Giuseppe Saragat e Nixon, avvenuto al Quirinale il 28 febbraio del 1969, costituisce il prologo della strategia della tensione? In quell’occasione Saragat chiese aiuto agli americani e dieci mesi dopo ci fu la strage di piazza Fontana. Molti sanno che fu Moro a convincere il presidente Saragat a rinunciare al colpo di stato, ma pochi ancora oggi sanno che in cambio accettò di coprire i responsabili neofascisti. La ferita guarirà quando la classe politica comincerà a considerare il popolo sufficientemente maturo da poter conoscere le verità, anche quelle più difficili da accettare”.
Quale era la situazione politica ed economica alla fine dei nostri anni Sessanta? “Nel maggio del ’68 in Francia scoppia la rivolta studentesca. Presto si propaga alle università italiane e nell’autunno dell’anno successivo la ribellione contagia anche la classe operaia. La contestazione degli autoritarismi spinge le piazze a chiedere maggiori libertà sociali (pochi anni dopo in Italia verrà approvato il divorzio, l’aborto, la nuova disciplina del diritto di famiglia, mentre la maggiore età scenderà da 21 a 18 anni). Ma sono anche gli anni in cui le sinistre, grazie a queste vittorie si rafforzano. Sono gli anni dei due blocchi contrapposti, quello americano e quello sovietico, gli anni della guerra fredda. Ebbene queste istanze sociali furono vissute con disagio dalle forze più reazionarie della nazione. Da qui nacque l’idea di una strategia a lungo termine con la finalità di terrorizzare la popolazione per portarla a chiedere un governo forte e magari anche una Repubblica presidenziale, com’era negli auspici di Saragat, attraverso un golpe che per fortuna fu stroncato quando però già i primi legionari erano entrati negli scantinati del Viminale per rifornirsi di armi”.
Inchieste giudiziarie, processi e depistaggi. E alla fine nessun colpevole. Perché sono così tanti i misteri d’Italia? “Piazza Fontana, Ustica, Piazza della Loggia a Brescia, il treno Italicus e recentemente i fatti nella scuola Diaz di Genova, soltanto per nominare i più drammatici, sono le tappe di altrettante stragi (alla Diaz per fortuna non ci furono morti) dove nessuno ha mai pagato il conto. In estrema sintesi la piaga dell’Italia Repubblicana è rappresentata dai suoi Servizi segreti. Sono loro i responsabili dei più drammatici misfatti avvenuti dal dopoguerra a oggi. Al momento del crollo del regime fascista, tutti i funzionari dell’amministrazione di pubblica sicurezza della Repubblica, salvo alcuni rari casi, sono rimasti quelli stessi del passato regime. Non c’è mai stato un vero ricambio con cittadini non compromessi dalle nefandezze del regime. Sono rimasti in maggioranza gli stessi uomini nati e cresciuti sotto l’ideologia fascista. La giovane Repubblica italiana li ha ereditati in blocco. Questo vale per l’amministrazione pubblica, le forze armate e in particolare per i Servizi segreti che nel primo dopoguerra, sotto l’ala protettrice degli americani, si chiamò Sifar. Dietro ogni strage c’è l’impronta delle “barbe finte”, quelle stesse del regime fascista. Fino ad arrivare al re del doppio gioco, quel prefetto di nome Federico Umberto D’Amato, che per decenni, senza mai figurare in prima persona, diresse il famigerato Ufficio Affari riservati del Viminale (sciolto nel 1974 dopo la strage di Brescia). Domanda: quanti cittadini hanno mai saputo dell’esistenza di questo dipartimento? Eppure partirono da quell’ufficio le disposizioni per i depistaggi e le stragi dei primi anni Settanta”.
Vito Bruschini
La strage
il romanzo di Piazza Fontana
Newton&Compton
pag 345, euro 9,90
Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.
Nel giorno del 42° anniversario il sito “La rete degli archivi per non dimenticare” affida l’archivio informatizzato dei documenti del processo al sindaco di Milano. Salvandoli dal deterioramento e dagli smarrimenti, non sempre casuali. Il lavoro è stato svolto dai detenuti
di AGNESE ANANASSO
Quarantadue anni di misteri, indagini, processi, presunti colpevoli. Quarantadue anni, tanti ne sono passati dalla strage di piazza Fontana a Milano, da quel 12 dicembre che ha segnato l’inizio della strategia della tensione e della lunga stagione del terrorismo. E quella bomba alla Banca dell’Agricoltura ha segnato anche l’inizio di una altrettanto lunga stagione di ombre, depistaggi, tentativi di occultare la verità e battaglie coraggiose di cittadini, magistrati, uomini delle forze dell’Ordine per evitare che alla verità non si arrivasse mai.
E’ anche per questo che proprio il 12 dicembre Carlo Arnoldi, presidente dell’associazione delle vittime della strage di piazza Fontana, consegna al sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, i documenti digitalizzati del processo. “In questo modo abbiamo salvato gli atti dal degrado e al tempo stesso li abbiamo resi disponibili a tutti, dai ricercatori agli studenti” spiegano dall’associazione-portale “La rete degli archivi per non dimenticare”, che mette a disposizione informazioni, documenti, materiali relativi alla memoria della mafia e degli anni del terrorismo italiano. L’archivio sarà disponibile per la consultazione presso i tribunali, l’Archivio di Stato di Milano e nella Casa della Memoria di Milano, che dovrà essere costruita nel capoluogo meneghino, sul modello di quella già esistente a Brescia. Il sito rimarrà punto di riferimento per consultare online alcuni dei documenti o per sapere dove trovarli.
La digitalizzazione è stata realizzata grazie al lavoro, regolarmente retribuito, della cooperativa Labor, composta dai detenuti del carcere di Cremona, che hanno seguito una speciale formazione proprio per la dematerializzazione dei documenti. Tutta l’operazione è stata sottoposta ad un’attenta supervisione, nel rispetto del diritto alla privacy e all’oblio delle persone nominate negli atti. A finanziare l’iniziativa hanno contribuito il ministero di Grazia e Giustizia, la Casa della Memoria di Brescia, la Regione Lombardia e il Comune di Milano.
La stessa operazione di digitalizzazione è in corso per i documenti del processo della strage di Bologna. Tra qualche mese verrà trasformata in bit tutta l’indagine sulla P2: 130 volumi unificati in un grande archivio e resi disponibili in pdf sul sito “La rete degli archivi per non dimenticare”.
“Con contributi economici molto contenuti e utilizzando il lavoro di coop come la Labor, si potrebbe completare la digitalizzazione di una grande mole di processi di rilevanza storica, relativi a terrorismo di sinistra e di destra e a vicende di mafia” dicono i responsabili del sito. “Sottraendoli al deterioramento delle carte e rendendo più rapida, agevole e “diffusa” la consultazione per cittadini, ricercatori, studenti e giornalisti”.
Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos’è il pudore,
si credono potenti e gli va bene quello che fanno;
e tutto gli appartiene.
Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni!
Questo paese è devastato dal dolore…
ma non vi danno un po’ di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?
Non cambierà, non cambierà
no cambierà, forse cambierà.
Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali?
Nel fango affonda lo stivale dei maiali.
Me ne vergogno un poco, e mi fa male
vedere un uomo come un animale.
Non cambierà, non cambierà
si che cambierà, vedrai che cambierà.
Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali
che possa contemplare il cielo e i fiori,
che non si parli più di dittature
se avremo ancora un po’ da vivere…
La primavera intanto tarda ad arrivare.
Mi pobre Patria, aplastada por abusos del poder
de gente infame que no conoce el pudor,
se creen los dueños todopoderosos
y piensan que les pertenece todo.
Los gobernantes, cuantos perfectos inutiles bufones
en esta tierra que el dolor ha devastado
acaso no sentís nada de pena
ante esos cuerpos tendidos sin vida?
No cambiará, no cambiarà
no cambiarà, quizá cambiará.
Y como excusarlos, las hienas de la prensa y las de los estadios
chapoteando en el fango como cerdos.
Yo me avergüenzo un poco y me hace daño
ver a los hombres como animales.
No cambiará, no cambiarà
sí cambiará verás que cambiará.
Esperamos que el mundo vuelva a cotas más normales,
que pueda contemplar con calma el cielo
que no se hable más de dictaduras,
quizá tendremos que ir tirando
mientras la primavera tarda aún en llegar.