C’è Sara, che è dovuta arrivare in Toscana, perché a Roma l’interruzione di gravidanza con la pillola si fa in un solo ospedale. O un’infermiera che lavora in un reparto di obiettori. E ancora F., che ha sopportato il dolore sapendo che non avrebbe potuto mantenere un figlio da sola. L’Espresso continua a raccogliere le vostre testimonianze
di Francesca Sironi
«Non sono una persona crudele, né irresponsabile, ma hanno cercato di farmi sentire così». Basterebbe questa frase a spiegare cosa significhi aver bisogno di un’interruzione volontaria di gravidanza in Italia, oggi. Il ministro Beatrice Lorenzin ha presentato soddisfatta, poco fa , gli ultimi dati sull’applicazione della legge 194 nel nostro Paese. Aborti in diminuzione da Nord a Sud. Evviva. Ma dietro le statistiche ci sono migliaia di storie dolorose e inascoltate. Storie di ragazze catapultate in situazioni degradanti proprio nel momento in cui avrebbero avuto bisogno del massimo della comprensione.
ll dibattito sulla mancata applicazione della legge 194 non è nuovo. E, purtroppo, non è ancora finito. Perché se 7 medici su 10 sono obiettori di coscienza , se le ragazze italiane preferiscono andare all’estero per trovare un’assistenza adeguata, se l’esercizio di una scelta, di un diritto, è affidato solo alla buona volontà di chi ti trovi davanti, significa che c’è qualcosa che non va, nonostante l’ottimismo dei dati. E che le cose vadano male lo raccontano meglio di qualsiasi statistica le decine di testimonianze che stanno arrivando all’Espresso.
C’è Sara, 28 anni, attrice precaria, che scrive: “Vado al San Camillo con il mio ragazzo, verso le 6 di mattina. L’entrata per le interruzioni di gravidanza non è quella di ginecologia, né di ostetricia: si scendono scale, si gira intorno all’ospedale. Quasi a dire: gli aborti? Nel seminterrato! Via, lontano dagli occhi!”. Sara, a cui dopo ore di attesa un medico dice, come fosse niente: «Allora, signorina, è quasi di sette, e sicuramente non troveremo un letto libero entro i tempi»” Leggi la sua storia
Oppure S, a cui in un “laico ospedale del Nord” non hanno voluto garantire un antidolorifico durante i giorni dell’operazione: “Al terzo tentativo, grazie ad un’infermiera, è riuscita a farsi accettare. Ha richiesto in lacrime di essere accolta nel più breve tempo possibile perchè l’aborto tramite la Ru486 è possibile fino alla settima settimana. È riuscita quindi ad essere ricoverata pochi giorni prima della scadenza, perchè nei giorni precedenti «i medici di guardia erano obiettori». E lì ha scoperto che di fatto esistono anche gli infermieri obiettori”. Leggi la sua storia
O ancora F, 33 anni, un lavoro precario, un aborto affrontato solo pochi mesi fa, un’esperienza che pesa ancora come un macigno: “Riesco, non si sa come, a fare un’ecografia e confermare la gravidanza. Ora devo firmare delle cose, ma chi se ne occupa (due persone in tutto l’ospedale), non c’è: «Torna domani. Ma non ti vedo proprio convinta… magari aspettiamo un paio di settimane». Come? Ma perché? Io sono convinta, piango perché mi dispiace, piango perché ho voluto vederlo o vederla durante l’ecografia ed è stata una botta di amore immenso che scelgo, dolorosamente di terminare. Piango perché a 33 anni, con laurea, master esperienza all’estero, guadagno 500 euro, e lo Stato non da un centesimo a chi sceglie di fare un figlio da sola. Piango perché trovo che sia un’ingiustizia profonda, dolorosa, ma sì, sono convinta di farlo”. Leggi la sua storia
Ci sono Laura , che sulla sua esperienza ha scritto un libro, e L., un’infermiera di un piccolo paese di provincia in cui i medici sono tutti obiettori. L’Espresso vuole continuare a dare voce alle vostre testimonianze. Scriveteci le vostre storie a espressonline@espressoedit.it
Gino Strada, fondatore di Emergency parla del senso e delle ragioni del meeting di Livorno con i 1.200 volontari della sua organizzazione. ” “Alla maggior parte dei cittadini è totalmente sconosciuto il fatto che la sanità è diventato un settore del mercato, dunque un business, come quello degli elettrodomestici, o delle automobili”
LIVORNO – C’è un’idea di Medicina che attraversa tutta intera l’esperienza di Emergency, l’idea della gratuità e dell’eccellenza della cura, come requisito fondante di un modello d’assistnza sanitaria. Un’idea, del resto, messa in pratica nelle missioni in Afghanistan, in Iraq, nella Repubblica Centro Africana, in Sierra Leone, in Sudan, in Italia, e ancora con la creazione dell’ANME (African Network of Medical Excellence – Rete sanitaria d’eccellenza in Africa), con l’obiettivo di costruire in Africa centri medici di eccellenza, come il Centro Salam di cardiochirurgia. Ora, proprio in questi giorni, 1.200 volontari dell’organizzazione umanitaria fondata da Gino Strada, provenienti da ogni dove, si trovano a Livorno per diffondere la loro idea di sanità pubblica, animando così dibattiti, confronti con esperti e studiosi della materia.
I guasti prodotti dal concetto di profitto. Gino Strada va dritto al problema e dice: “Alla maggior parte dei cittadini è totalmente sconosciuto il fatto che la sanità è diventato un settore del mercato, dunque un business, come quello degli elettrodomestici, o delle automobili. Senza arrivare ai casi limite degli interventi chirurgici inutili, sui quali indaga la magistratura, l’aver introdotto il concetto di profitto nell’esercizio dell’assistenza medica, ha prodotto una rottura culturale, con conseguenze devastanti per la salute della gente. Si potrebbero ripercorrere le tappe di questo processo degenerativo – ha aggiunto Strada – che ha visto la complicità di tutte le forze politiche del Paese. Tutte, senza eccezione. E comunque a dimostrare con i numeri questo dramma nazionale è il Censis, non io, dal quale apprendiamo che il 15% della popolazione italiana non si cura adeguatamente, cioè circa 9 milioni di persone. Ecco, l’aver creduto che il profitto potesse entrare in questo ambito e che gli ospedali si potessero trasformare in aziende, ha prodotto questi guasti”.
Quei 30 miliardi in tasca a “Qualcuno”. Insomma, il cittadino medio – chiamiamolo così – non sa che le prestazioni che riceve dal sistema sanitario spesso non sono quelle di cui ha davvero bisogno. La logica del profitto, appunto, fa sì che la scelta del percorso terapeutico prenda un strada piuttosto che un’altra, proprio per garantire quel margino di guadagno a questo o a quello. “D’altra parte – prosegue Gino Strada – se la spesa sanitaria globale in Italia è di circa 110 miliardi e di tutti quei soldi circa 30 miliardi finiscono nelle tasche di qualcuno, qualcosa vorrà pur dire. Che poi questo “Qualcuno” sia il proprietario di una clinica, oppure quel denaro vada a finire nel fitto labirinto del parassitismo burocratico della sanità pubblica, dove i dirigenti sono tutti, ma proprio tutti, di nomina politica, questo non cambia il quadro della situazione. Insomma – conclude Strada -non ha più senso parlare di sanità pubblica o privata. Sono tutti uguali”.
Quel diritto che non c’è. Dunque, il senso di questo dodicesimo appuntamento di Emergency in una città italiana, è appunto quello di far conoscere meglio un’idea di Medicina pubblica, capace di garantire l’accesso alla salute tutti coloro i quali, per ragioni diverse, vengono esclusi o comunque non adeguatamente curati. “Il nostro intento – ha poi aggiunto Gino Strada – è quello di far capire che la gente non può aspettare la riforma sanitaria per essere curata. Se non conoscono i loro diritti, noi cerchiamo di farglieli conoscere. Quelli cioè che la nostra organizzazione afferma da sempre e ovunque, e cioè: nessuno deve essere discriminato. Abbiamo cominciato nel 2006 con il poliambulatorio a Palermo, poi a Marghera, abbiamo proseguito con gli ambulatori mobili e ci apprestiamo a completare i presidi sanitari a Napoli e a Polistena”.
LE TAPPE DI UN LUNGO PERCORSO
1994 – Ristrutturato e riaperto il reparto di chirurgia dell’ospedale di Kigali in Ruanda. Durante una missione di 4 mesi, un team chirurgico ha operato oltre 600 vittime di guerra. Contemporaneamente Emergency ha anche riattivato il reparto di ostetricia e ginecologia dove oltre 2.500 donne hanno ricevuto assistenza medica e chirurgica.
1996-2005 – Costruito un Centro chirurgico a Sulaimaniya, in Nord Iraq, per curare le vittime delle mine antiuomo. La struttura comprende unità per il trattamento delle ustioni e delle lesioni spinali. Nel 2005 il Centro e i 22 Posti di primo soccorso aperti nel Paese sono stati dati in consegna alle autorità sanitarie locali.
1998-2005 – Realizzato un Centro chirurgico a Erbil, in Nord Iraq, per dare cura alle vittime delle mine antiuomo. La struttura comprende un’unità per il trattamento delle ustioni e una per le lesioni spinali. Nel 2005 il Centro è stato affidato alle autorità sanitarie locali.
1998-2012 – Costruzione e gestione di un Centro chirurgico a Battambang e di 5 Posti di primo soccorso nel distretto di Samlot, in Cambogia.
1999 – Sostenuto l’orfanotrofio Jova Jovanovic Zmaj di Belgrado, in Serbia.
2000 – Inviato, su richiesta della Cooperazione Italiana, un team chirurgico in Eritrea. Il personale di Emergency ha lavorato due mesi nell’ospedale Mekane Hiwet, ad Asmara, curando le vittime del conflitto tra Etiopia ed Eritrea.
2001 – Costruito un Centro di riabilitazione e produzione protesi a Diana, Nord Iraq. Il Centro è stato dato in consegna alle autorità sanitarie locali.
2001 – Realizzato un programma di aiuti alle vedove di guerra con la distribuzione di bestiame per l’allevamento a 400 famiglie della Valle del Panshir, Afghanistan.
2003 – Forniti all’ospedale Al-Kindi di Bagdad, in Iraq, farmaci, materiali di consumo e combustibile per i generatori. Nello stesso periodo farmaci e materiale sanitario sono stati donati all’ospedale di Karbala, a sud di Bagdad.
2003 – Avviato un Centro di riabilitazione e produzione protesi a Medea, in Algeria. Emergency ha ristrutturato ed equipaggiato un edificio all’interno dell’ospedale pubblico, occupandosi anche della formazione del personale nazionale. La gestione del Centro, chiamato Amal, in arabo “speranza”, è stata trasferita alle autorità sanitarie locali nel 2004.
2003 – Costruito un Centro di riabilitazione e produzione protesi a Dohuk, in Nord Iraq. Il Centro è ora gestito dalle autorità sanitarie locali.
2003 – Intervenuti in Angola, nella provincia di Benguela, su invito di una congregazione di suore angolane. Due Centri sanitari sono stati ristrutturati, equipaggiati e gestiti per oltre un anno da Emergency, che ha provveduto anche alla formazione del personale nazionale.
2003-2004 – Inviato un team chirurgico presso l’unità ortopedica dell’ospedale pubblico di Jenin, in Palestina. Oltre allo svolgimento delle attività cliniche e alla formazione del personale sanitario, Emergency ha avviato un nuovo reparto di fisioterapia e una nuova corsia ortopedica.
2003-2004 – Rifornito di farmaci la Casa de la mujer, una rete di dispensari che presta assistenza alle donne malate di tumore e diabete in Nicaragua.
2003-2007 – Avviato un laboratorio di produzione di tappeti per favorire l’autonomia economica di donne, vedove o indigenti, della Valle del Panshir, Afghanistan.
2004 – Sostenuta la popolazione di Falluja, in Iraq, durante l’assedio della città cessato a maggio. Generi di prima necessità, acqua e farmaci sono stati distribuiti ai rappresentanti della comunità e all’ospedale cittadino.
2004-2005 – Ricostruito e allestito il reparto di Chirurgia d’urgenza dell’ospedale di Al Fashir in Nord Darfur, in Sudan. La struttura comprende un blocco chirurgico e una corsia da 20 posti letto. Il reparto è stato trasferito al ministero della Sanità nell’agosto 2005.
2005 – Fornito all’ospedale generale di Kalutara, in Sri-Lanka, strumentario chirurgico e materiale di consumo per potenziare le attività cliniche dopo lo tsumani che ha colpito il Paese.
2005 – In seguito allo tsunami del 2004, è stato portato a termine il progetto Ritorno al mare che prevedeva la distribuzione di barche a motore, canoe e reti da pesca ai pescatori del villaggio di Punochchimunai in Sri-Lanka. Per favorire la ripresa delle attività quotidiane, inoltre, sono stati consegnati kit scolastici agli studenti.
2005-2007 – Organizzati corsi di igiene, prevenzione e primo soccorso rivolto ai detenuti del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Presso lo stesso carcere Emergency ha organizzato uno screening della tubercolosi. Emergency ha garantito l’assistenza di medici specialisti in alcuni istituti di pena del Lazio.
2005-2008 – Ricostruite 91 abitazioni in muratura destinate alle famiglie del villaggio Punochchimunai, in Sri-Lanka, rimaste senza casa dopo lo tsunami. La consegna delle abitazioni è avvenuta nel settembre 2008 a causa della ripresa delle ostilità tra governo e separatisti che ha bloccato i lavori per molti mesi.
2011 – Programma di chirurgia di guerra in Libia, nella città di Misurata sotto assedio.
L’avvocato David Zanforlini ha quantificato che nelle prove di laboratorio muoiono in Italia 600 esemplari all’anno tra cani, gatti e scimmie. “Grave discrasia fra il numero di quelli dichiarati in vita dai centri di ricerca alla fine degli esperimenti e quelli invece affidati agli istituti di custodia”
Seicento animali sottoposti a esperimenti di laboratorio “scompaiono” ogni anno in Italia senza lasciare traccia. Un buco nero sul quale sta cercando di far luce un avvocato del foro di Ferrara, David Zanforlini, ormai esperto di temi ambientalisti. Ultimo in ordine di tempo quello dell’allevamento Green Hill di Montichiari (Brescia).
Proprio seguendo quel caso, Zanforlini viene a sapere da fonti confidenziali che, una volta usciti dai centri di ricerca, alla fase della riabilitazione “arriva appena il 7/8 percento degli animali” (scimmie, cani e gatti). Un 30% finirebbe soppresso a causa delle sofferenze causate dagli esperimenti, che non consentirebbero all’animale una vita normale. “In mezzo c’è un buco di oltre il 60% degli esemplari”. Lo dice il legale, ma non occorre essere esperti di statistica per quantificare il numero di animali “scomparsi”.
Se consideriamo che in Italia, fonte Lega Antivivisezione, ogni anno sono 970 gli animali-cavia (“in questo – fa notare Zanforlini – paradossalmente l’Italia è un’isola felice rispetto ai numeri di Francia, Germania e Inghilterra, che ne ‘vantano’ cinquemila l’anno), si parla di circa 600 esemplari di scimmie, cani e gatti che mancherebbe così all’appello. La materia è disciplinata dalla legge 116 del ’92, relativa alla protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali. L’articolo 6 prevede che al termine dei test la ‘cavia’ ancora in vita può essere tenuta presso il centro di ricerca o affidato a uno stabilimento di custodia o rifugio. Ogni struttura deve tenere un registro degli animali utilizzati, annotando numero, specie, provenienza e le date del loro arrivo, della loro nascita e della loro morte.
Per verificare quei numeri Zanforlini, in qualità di rappresentante legale di Legambiente, ha scritto a Luigi Nicolais, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche. “Dalle indagini svolte da Legambiente – spiega il legale nella lettera – e incrociate con alcuni dati non ufficiali inerenti la presenza di alcuni primati non umani, cani e gatti, in alcuni centri di ricerca italiani, nonché dei dati circa la loro soppressione o affidamento ad altre strutture al termine degli esperimenti, si evidenzia una potenziale discrasia fra il numero degli animali dichiarati in vita dai centri di ricerca alla fine degli esperimenti e quelli invece affidati gli istituti di custodia”. Per scoprirlo, Legambiente ha bisogno di avere quei dati, conservati all’interno dei registri dei centri di ricerca, molti dei quali collegati al Cnr. “Se così fosse – avverte l’avvocato – si potrebbe configurare il reato previsto dall’art. 544 bis del codice penale”. Ossia uccisione di animali.
Identico tentativo era stato fatto in precedenza, a novembre, con il ministero della salute. In quell’occasione si chiedeva il numero di primati, cani e gatti utilizzati con espressa autorizzazione ministeriale nelle strutture di ricerca e nelle aziende farmaceutiche, pubbliche e private, in tutta Italia. Altra domanda riguardava l’impiego effettivo degli animali e le indagini scientifiche alle quali erano stati sottoposti. Infine, questa la ‘prova del nove’, quanti animali, al termine delle attività di sperimentazione, vengono affidati a provati o associazioni e quanti invece vengono soppressi.
La risposta del dipartimento per la sanità pubblica veterinaria non lasciava spazio a repliche: domanda troppo generica e tipologia di documentazione non rientrante nel diritto di accesso. Inoltre, secondo il direttore generale Gaetana Ferri che rispondeva in calce, si tratta di atti che possono essere forniti solo in caso di procedimento penale in cui il richiedente sia parte.
Questa volta, scrivendo al Cnr, Zanforlini fa notare che “laconiche risposte del tipo la documentazione non è dovuta perché non rientra nella disciplina dell’accesso agli atti, potrebbero essere valutate come rifiuto di atti d’ufficio, fatto punito penalmente”.
Incontro organizzato presso l’Istituto Mamiani di Roma, dalla studentessa Eleonora Vasques sulla libera informazione, questa è la Conferenza con il giornalista vice direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio e gli Studenti.
Roma, drammatico allarme lanciato del direttore del 118, il centralino delle emergenze sanitarie. “Soccorsi a rischio”. Balduzzi: “Subito relazione urgente”
Soccorsi a rischio nella capitale e l’allarme arriva dal direttore del 118, il centralino delle emergenze sanitarie. Le ambulanze di Roma sono ‘bloccate’ nei pronto soccorso, alcune da ieri sera, ad esempio all’ospedale di Tor Vergata, a causa della mancanza di posti letto negli ospedali. Per questo motivo, al momento, il servizio del 118 è ‘fortemente a rischio’. A lanciare l’allarme è il direttore del 118 di Roma Capitale, Livio De Angelis, che chiede di risolvere la grave situazione delle barelle occupate e quindi l’immediata “liberazione” delle ambulanze.
De Angelis ha scritto una lettera ai responsabili di ogni pronto soccorso della capitale per denunciare che “il servizio è fortemente limitato”. Il direttore del servizio 118 di Roma ha inviato la stessa lettera anche al sindaco, al prefetto, al questore di Roma e alla Regione Lazio. “Chiedo a tutti – ci spiega De Angelis – di risolvere i problemi degli ospedali e di lasciare integro un sistema che costituisce un diritto inalienalibile del cittadino, quello di essere soccorso”.
Al momento sarebbero 23 le ambulanze ferme. E il servizio viene garantito solo per gli interventi urgentissimi come i codici rossi. Ma anche questo presto potrebbe saltare. La disponibilità dei mezzi di soccorsi è infatti prossima allo zero, a fronte delle 3mila chiamate al giorno.
Un servizio che non dovrebbe mai essere subordinato agli altri, secondo il direttore del 118, ma che viene ora messo in crisi dal sistema ospedaliero
al collasso. Niente di nuovo, ribadisce De Angelis, che chiarisce: “Le ambulanze restano ferme nei pronto soccorso perché i pazienti sono costretti a restare in barella a causa della mancanza di posti letto”. Un fenomeno ricorrente che vede coinvolte più strutture ospedaliere della capitale. “Accade tutti i giorni, oggi in particolare si tratta di ospedali di Roma Est ma non fa differenza”, chiarisce De Angelis evitando di puntare il dito, perché tutta Roma e Provincia si trova in sofferenza, mettendo a rischio un servizio che dovrebbe garantire assistenza 24 ore su 24.
“Sono sicuro che gli ospedali hanno problemi oggettivi, ma vanno risolti”, insiste il direttore del 118, spiegando che la centrale riceve ogni giorno 3.000 segnalazioni di emergenze sanitarie e inviamo in media di 1.500 ambulanze, risolvendo il 50% dei casi al telefono”. Numeri che fanno capire la portata del bacino di utenza del 118. “I nostri professionisti fanno un triage telefonico – aggiunge De Angelis – ma c’è sempre il rischio di sottovalutare il caso”.
Il ministro della Salute Renato Balduzzi, appresa la notizia del blocco della ambulanze a Roma, ha immediatamente chiesto una relazione urgente, da acquisire nelle prossime ore, al 118 sulla situazione in questo momento nella capitale. “Ancora non ho ricevuto alcuna richiesta dal ministro”, chiarisce però De Angelis – “ma sono pronto a consegnare tutti i report scritti per segnalare questa emergenza. Posso mandare un camion pieno”.
Intanto, la ex governatrice Renata Polverini ha convocato il direttore generale dell’Ares 118, Antonio De Santis, e il direttore della Centrale operativa di Roma, Livio De Angelis.
La conclusione della perizia, affidata a un istituto milanese dalla dalla terza Corte d’assise di Roma. Quanto ai traumi, dicono i periti, “si accordano sia con l’aggressione sia con la caduta accidentale”. Per un trattamento adeguato “doveva essere trasferito in terapia intensiva”
Stefano Cucchi morì per grave carenza di cibo e liquidi. Questa la conclusione dei periti incaricati dalla III Corte d’assise di Roma di accertare le cause della morte del geometra, morto una settimana dopo il suo arresto nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini. E “a decretarne il decesso furono – secondo la perizia – i medici del reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini, non trattando il paziente in maniera adeguata”.
“La causa della morte di Stefano Cucchi – dice testualmente la perizia – per univoco convergere dei dati anamnestico clinici e delle risultanze anatomopatologiche va identificata in una sindrome da inanizione”. “Con il termine di morte per inanizione – scrivono i periti – si indica una sindrome sostenuta da mancanza (o grande carenza) di alimenti e liquidi”.
“Il quadro traumatico osservato – prosegue la perizia – si accorda sia con un’aggressione, sia con una caduta accidentale, nè vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica lesiva”.
“In questo contesto – si legge fra l’altro nella relazione di 190 pagine – pare anche inutile perdersi in discussioni sulla causa ultima del decesso. Se, vale a dire, esso sia da ricondursi terminalmente ad un disturbo del ritmo cardiaco piuttosto che della funzionalità cerebrale, trattandosi di ipotesi entrambe valide ed ugualmente sostenibili. Questo anche in considerazione del fatto che il decesso (vuoi per causa ultima cardiaca, vuoi per causa ultima cerebrale) intervenne nelle prime ore della mattinata del 22 ottobre quando, quanto meno a partire da due-tre giorni prima, già si era instaurato il catabolismo proteico, indice come abbiamo visto sopra di una prognosi a breve sicuramente infausta”.
I sei periti sostengono che ”in mani esperte l’allarme rosso era in atto con gli esami del 19 ottobre 2009 e che da questo momento Cucchi, per avere un trattamento appropriato, doveva essere trasferito in una struttura di terapia intensiva”. Il trasferimento e un trattamento immediato, infatti, ”avrebbero probabilmente ancora consentito di recuperare il paziente. E’ intuibile che se il trasferimento del paziente fosse stato rimandato le di lui possibilità di sopravvivenza si sarebbero proporzionalmente e progressivamente ridotte, fino a raggiungere livelli molto bassi in data 20 ottobre e ad annullarsi in data 21 ottobre”. Quindi, ”I medici del reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini, non trattando il paziente in maniera adeguata, ne hanno determinato il decesso”.
”Nel caso di Stefano Cucchi i medici del reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini – aggiungono i periti – non si sono mai resi conto di essere (e fin dall’inizio) di fronte ad un caso di malnutrizione importante, quindi non si sono curati di monitorare il paziente sotto questo profilo, né hanno chiesto l’intervento di nutrizionisti (o altri specialisti in materia) e, non trattando il paziente in maniera adeguata, ne hanno determinato il decesso”.
Inoltre, ”non avendo consapevolezza della patologia di cui Cucchi è affetto, venne pure a mancare da parte dei sanitari del reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini una adeguata e corretta informazione al paziente sul suo stato di salute e sulla prognosi a breve inevitabilmente infausta, nel caso egli avesse persistito nel rifiutare cibi e liquidi”. ‘Il medico – si legge nel documento – di fronte ad un paziente che rifiuti di nutrirsi e bere è grandemente coinvolto sotto il profilo deontologico ed etico; e lo è particolarmente quando il rifiuto è una forma di protesta del detenuto, che ritenga di non aver altro modo per far valere le proprie richieste”. ”Nello sciopero della fame – concludono i periti – la libertà di scelta, per essere libera, deve essere informata, vale a dire formarsi solo sulla scorta di una corretta ed esaustiva informazione da parte del medico”.
Quanto agli infermieri coinvolti (tre sono imputati) i periti milanesi sostengono che a loro carico ”non si individuano profili di responsabilità professionale che abbiano influito in qualche modo sulla evoluzione della patologia di Cucchi Stefano e che quindi ne abbiano in alcun modo condizionato il decesso”. I periti ribadiscono ”che gli infermieri segnalano gli eventi; certo vi sono criticità nel controllo della diuresi e di alcuni controlli di parametri clinici di base, non sempre condotti, né eseguiti con regolarità; ma disporre tipo e frequenza dei controlli e’ compito del medico, non dell’infermiere”.
Gli accertamenti, redatti dal gruppo di lavoro dell’Istituto Labanof di Milano, sono stati depositati oggi, una settimana prima della prossima udienza del processo che vede imputati sei medici, tre infermieri e tre agenti della polizia penitenziaria.
L’Istituto Dermopatico dell’Immacolata a Roma, rischia la chiusura
Dieci miliardi di debiti pregressi e 1 miliardo e 140 milioni di deficit oggi. Per far fronte, adesso, bisogna chiudere quattro ospedali, tagliare duemila letti e mille e cinquecento posti di lavoro. Pagano i cittadini e il personale
Il simbolo sono i grappoli di lenzuola bianche che da mesi coprono per protesta i tetti e le facciate dei più grandi ospedali romani. Umberto I, San Filippo Neri, Forlanini, Gemelli, Spallanzani… Migliaia di lenzuola diventate drappi neri di smog e di pioggia, bandiere luttuose di un crac annunciato che sta travolgendo tutta la Sanità del Lazio, 10 miliardi di debiti alle spalle e un miliardo e 140 milioni di euro di deficit oggi, una voragine che sta divorando reparti di eccellenza e posti di lavoro, ma che affonda le sue radici in una lunga storia di inefficienze e ruberie. I numeri sono quelli di una dismissione, quasi un addio alle armi: duemila letti da tagliare, quattro ospedali da chiudere, almeno 1500 licenziamenti annunciati, medici e tecnici che fanno lo sciopero della fame, e per la prima volta è anche la potente e ricca Sanità del Vaticano a piegarsi in due, i grandi nosocomi cattolici cresciuti e prosperati con i rimborsi della regione Lazio. Cadono simboli e stemmi di congregazioni religiose: dal Gemelli al Fatebenefratelli travolti dai tagli del piano “lacrime e sangue” del commissario alla Sanità Enrico Bondi, all’Idi, il più importante ospedale dermatologico d’Italia, messo in ginocchio da un buco finanziario di 800milioni di euro. L’intero vertice laico e religioso dell’Idi è sotto inchiesta e i dipendenti senza stipendio da più di quattro mesi. Soltanto due sere fa, infreddoliti e affamati, sono scesi dal tetto che i 6 tecnici che facevano lo sciopero della fame. “Piccoli, grandi eroi”, li hanno chiamati i loro compagni di lavoro.
Gli ospedali romani sono a terra, i laboratori vuoti, i pazienti abbandonati sulle barelle perché i reparti scoppiano: ma forse la Capitale, dicono i sindacati, altro non è che quel “laboratorio dello smantellamento della sanità pubblica”, minacciato, seppure velatamente, dal presidente del Consiglio Monti, paradigma dunque di ciò che potrebbe accadere altrove, in altre regioni. Ma da dove nasce lo sfascio della Sanità romana? E chi sono i responsabili? E quanto la tragedia di oggi è da imputare alla spending review che deve portare il numero di posti letto a 3 per mille abitanti, e quanto invece a precedenti (spericolate) amministrazioni regionali?
Storia di un crac. “E’ il 2006 quando il buco nella Sanità del Lazio lasciato dalla giunta Storace viene per la prima volta alla luce in tutta la sua enormità: 10 miliardi di euro, una cifra spaventosa”, racconta Marcello Degni, economista, docente di Contabilità Pubblica alla Sapienza di Roma. Quarantanove ospedali pubblici venduti e poi riaffittati a caro prezzo dalla Regione, la malefatte di lady Asl, fatture gonfiate, appalti, tangenti. Un fiume di denaro che scompare senza traccia. Un debito tossico che eredita in pieno Piero Marrazzo, succeduto alla Regione alla fine del 2005, che chiede l’intervento dell’allora ministro per l’Economia Tommaso Padoa Schioppa. “Venne deciso un piano di rientro, almeno parziale, attraverso un prestito dello Stato di cinque miliardi di euro, da restituire in 30 anni attraverso rate di 300 milioni ogni dodici mesi. Ed è da qui, per impedire la formazione di nuovo debito che iniziano i tagli alla Sanità del Lazio”. Dal 2006 al 2012 scompaiono anche attraverso la chiusura di molti piccoli ospedali, circa 4mila posti letto.
La Sanità laziale subisce un tracollo: al Pronto Soccorso del San Camillo, tra i più affollati della Capitale, i malati vengono visitati per terra, come negli ospedali di guerra. La fotografia, scattata a febbraio del 2012, fa il giro del mondo: è l’Italia? Sì, è l’Italia, anzi Roma, anni luce lontana dall’Europa. Ma non basta: il disavanzo della spese sanitarie della Regione Lazio resta alto, altissimo. Un miliardo e 140 milioni nel 2011. E i tagli spesso avvengono senza criterio, come denuncia Ignazio Marino, presidente della Commissione d’Inchiesta sulla Sanità del Senato. Che definisce il Lazio un esempio di “sperpero nazionale”.
Quell’esercito di primari. Sì, perché non si può mettere in ginocchio una città, chiudendo poli d’eccellenza facendo così pagare ai cittadini il prezzo di colpe altrui… Oltre alla “finanza facile” dell’era Storace, che cosa è successo infatti negli ultimi 15 anni nella città eterna, all’ombra anche e a volte con la “partecipazione” del Vaticano? Spiega Ignazio Marino: “La soluzione non possono essere tagli selvaggi che ricadono sulla pelle dei cittadini, dopo che per decenni in questa regione si sono moltiplicate cattedre, posti, reparti. Nel Lazio ci sono 1600 Unità Operative, a capo di ognuna della quali c’è un primario. Quante di queste sono davvero necessarie?”. E quante create per offrire un posto di prestigio a qualcuno?
Come non ricordare, allora, soltanto uno degli scandali più recenti, cioè quella Unità Operativa Complessa di “Tecnologie cellularimolecolari applicati alle malattie cardiovascolari” creata ad hoc al policlinico Umberto I di Roma per Giacomo Frati, figlio del rettore della Sapienza Luigi Frati? Ma i casi citati da Ignazio Marino sono molti di più. Le 35 strutture di emodinamica (reparti ad alta specializzazione cardiologica) di cui però soltanto 6 lavorano giorno e notte, come se, ironizza Marino, “l’infarto arrivasse soltanto nelle ore d’ufficio”. E poi i 5 centri per il trapianto di fegato, costi altissimi e 98 interventi nel 2011, contro i ben 137 effettuati a Torino dove di centro trapianti ce n’è uno solo. “Il risanamento passa attraverso gli accorpamenti e una gestione più equa delle risorse. Ci sono spese gonfiate e reparti depressi: penso al pronto soccorso pediatrico del policlinico Umberto I, visita 27 mila bambini l’anno e l’80% del personale è precario. Una follia”.
Lo scandalo dell’Idi. E’ forse la prima volta nella storia italiana, e soprattutto in quella capitolina, che le casse degli ospedali vaticani sono vuote. Il crac ha travolto anche loro. Lenzuola appese ai balconi del policlinico Agostino Gemelli, polo d’eccellenza della sanità vaticana, dove è sempre pronto un reparto per accogliere il Papa. L’università cattolica subirà un taglio retroattivo di 29 milioni di euro per il 2012, mentre attende ancora 800 milioni di rimborsi. E altri ospedali religiosi, come il Fatebenefratelli, hanno già iniziato a non erogare più prestazioni in convenzione.
Ma è lo scandalo dell’Idi a turbare (forse) i sonni delle gerarchie ecclesiastiche. Chi ha rubato infatti i soldi dell’Istituto Dermopatico dell’Immacolata, all’avanguardia per le malattie della pelle e nella cura del melanoma? Una storia torbida, che ha fatto parlare di un caso “San Raffaele” della Capitale, ha portato sotto inchiesta tutti i vertici dell’istituto di proprietà dei padri Concezionisti per un buco nella casse dell’ospedale di 800 milioni di euro. E in particolare frate Franco Decaminada, da anni a capo dell’Idi, accusato di appropriazione indebita, e autore, sembra, di opache speculazioni finanziarie che hanno messo in ginocchio l’istituto, attraverso l’acquisto di immobili, e addirittura di investimenti in Congo. “Fatturavamo 70mila euro al giorno – racconta desolata Stefania Zaia, tecnico di laboratorio – oggi siamo senza stipendi da quattro mesi”.
Emergenza Italia. Se il Lazio è il paradigma negativo di quello che può succedere in una regione amministrata male, nel resto d’Italia la situazione è quasi altrettanto grave. Dai migliaia di esuberi in Lombardia al taglio dei interventi non urgenti in Toscana, dai debiti della Campania alla minaccia di chiusura dell’ ospedale Valdese in Piemonte, la sanità pubblica italiana sembra destinata ad una progressiva e amara dismissione.
Raggiunti i tetti di spesa del 2012 in tutta la Lombardia. Nell’incertezza dei rimborsi, i privati rinviano al prossimo anno le prestazioni specialistiche. Senza ticket l’appuntamento è fissato entro 10 giorni
di ALESSANDRA CORICA
Nella sanità modello di Formigoni capita di aspettare dai tre ai nove mesi per un ecocardiogramma. E almeno un mese per un elettrocardiogramma. Le visite specialistiche sono quasi tutte rimandate tra gennaio e febbraio, e per le radiografie l’attesa minima è di una ventina di giorni. Liste d’attesa sempre più lunghe in Lombardia: da metà novembre, quando la maggior parte delle strutture convenzionate ha raggiunto i tetti di spesa per il 2012, i tempi per visite ed esami con il ticket si sono allungati. Perché? Al momento, la maggior parte delle strutture accreditate sta lavorando ‘gratis’, senza certezza che le prestazioni in più saranno rimborsate. Di conseguenza, le richieste non urgenti vengono spostate al 2013, e molti pazienti decidono di rivolgersi agli ospedali pubblici. I cui centralini, così, sono più bollenti che mai.
«Quando i tetti di spesa vengono raggiunti — spiega Alberto Villa, segretario regionale della Fp Cigl — le strutture ‘congelano’ le agende e rimandano gli esami al prossimo anno: se in questi giorni si richiede una visita oculistica alla Multimedica, per esempio, si ottiene un appuntamento per fine febbraio». Così, al San Giuseppe se si prova a prenotare con il ticket un elettrocardiogramma si ottiene un appuntamento per il 24 gennaio, e per un ecocardiogramma bisogna aspettare il 19 giugno. Alla Multimedica di Sesto San Giovanni l’elettrocardiogramma può essere fatto il 10 gennaio, l’ecocardiogramma tra maggio e giugno. Al
Cup del cardiologico Monzino l’appuntamento per l’elettrocardiogramma viene fissato entro un mese dalla richiesta, quello per l’ecocardiogramma a settembre 2013.
In tutte le strutture, se si sceglie la prestazione a pagamento, la richiesta viene smaltita nel giro di sette-dieci giorni. Un problema che non riguarda solo Milano: a Bergamo, all’Istituto Palazzolo, i ricoveri sono bloccati e saranno riaperti il 7 gennaio. «Anche in una struttura pubblica come il Carlo Poma di Mantova — aggiunge Villa — non vengono accettate prenotazioni per le sedute di riabilitazione fino al 2013». Ogni anno la Direzione generale della Sanità studia i dati epidemiologici e li rapporta alla popolazione: viene fatta una stima della richiesta di prestazioni e assegnato un budget alle strutture, pubbliche e private. I tetti di spesa, appunto. Se superati, vengono coperti dalla Regione solo in base alla disponibilità. Non solo: per la spending review i ricoveri nelle strutture accreditate saranno sforbiciati dell’1,5 per cento.
Buttiglione: «Un dovere difendere la Legge 40» Ma la Bongiorno: «Gravissimo, schiaffo alle donne»
(Ansa/Fusco)
Il governo italiano ha depositato il ricorso contro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, lo scorso fine agosto, ha bocciato il divieto italiano di diagnosi preimpianto sugli embrioni stabilito dalla legge 40 del 2004.
LA MOTIVAZIONE – In una nota, Palazzo Chigi spiega che il rinvio alla Grand Chambre della Corte europea «si fonda sulla necessità di salvaguardare l’integrità e la validità del sistema giudiziario nazionale e non riguarda il merito delle scelte normative adottate dal Parlamento né eventuali nuovi interventi legislativi».
Secondo il governo italiano «la Corte ha deciso di non rispettare la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni, ritenendo che il sistema giudiziario italiano non offrisse sufficienti garanzie».
LE REAZIONI – «Gravissimo errore ed ennesimo schiaffo alle donne la scelta di ricorrere alla Grand Chambre per salvare la legge 40» attacca su Twitter il portavoce di Fli, Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera. «La notizia che il governo italiano ha presentato ricorso su eccezioni giuridiche già rigettate dalla Corte Europea per il diritti dell’Uomo il 28 agosto 2012, è un fatto gravissimo» commenta anche il senatore del Pd Ignazio Marino.
«Il governo è tenuto a difendere in sede europea gli atti della Repubblica italiana» dichiara invece in una nota il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione.
LA SENTENZA – Il 28 agosto 2012, la Corte europea aveva accolto il ricorso di Rosetta Costa e Walter Pavan, genitori di una bambina affetta da fibrosi cistica.
Nel 2010, durante una nuova gravidanza, la coppia aveva saputo dai test prenatali che anche il secondo bambino sarebbe nato malato e hanno scelto di abortire. I genitori si erano rivolti alla Corte europea non ritenendo giusto che a loro fosse preclusa la fecondazione assistita, riservata alle coppie sterili, e la diagnosi preimpianto.
Dal 1992, anno d’inizio della fine della Prima Repubblica, Antonio Di Pietro è un protagonista della vita pubblica italiana, prima come magistrato e poi come leader in politica dove, con la sua Italia dei Valori, è stato il principale oppositore di Silvio Berlusconi. Oggi, nel 2012, con il tramonto del berlusconismo e la crisi avanzata della Seconda Repubblica e dei partiti e movimenti che l’hanno caratterizzata, la parabola politica di Di Pietro è anch’essa al tramonto o saprà rigenerarsi per una nuova Terza Repubblica? Ed il nuovo Di Pietro starà con Beppe Grillo, con il centrosinistra o — ancora una volta — da solo?
Ospiti in studio Antonio Di Pietro, presidente dell’Italia dei Valori, Enrico Mentana, direttore del Tg La7, Vittorio Feltri de Il Giornale e, da New York, Federico Rampini di Repubblica.