L’Anello di Accumulazione realizzato dai Laboratori dell’INFN compie cinquant’anni. Rivoluzionò la ricerca basata sull’uso di acceleratori, ricreando per la prima volta un mini Big Bang. Intervista a Carlo Bernardini, uno dei giovani “maghi” che ne scrissero la storia
di GIULIA BELARDELLI
AdA, l’Anello di Accumulazione nel quale per la prima volta gli esseri umani riuscirono a ricreare in piccolo ciò che potrebbe essere avvenuto durante il Big Bang, compie cinquant’anni. A costruire la macchina che cambiò per sempre la storia della fisica delle particelle fu un gruppo di fisici dei Laboratori Nazionali di Frascati 1, fiore all’occhiello dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. La vita di AdA fu breve e intensa: le bastarono tre anni per dimostrare agli occhi increduli del mondo che sì, facendo scontrare fasci opposti di particelle era possibile osservare il comportamento della materia in condizioni altrimenti impensabili. Il primo dicembre Frascati si appresta a festeggiare l’Anello con una cerimonia a cui parteciperà anche la città di Orsay, legata con un “patto di scienza” ai laboratori dell’INFN. Tra gli ospiti d’onore ci sarà anche Carlo Bernardini, uno dei protagonisti di quella straordinaria avventura. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la “sua” AdA e di svelarci i segreti della fisica di quegli anni. Quando la responsabilità della scoperta era affidata a un manipolo di ventenni che passavano le notti a creare come maghi fasci di particelle.
Quali intuizioni hanno portato alla nascita di AdA?
“L’idea di indagare le collisioni tra particelle in un sistema centro di massa, così da sfruttare a pieno l’energia derivante dall’accelerazione, era stata discussa da Bruno Touschek e dall’inventore norvegese Rolf Wideröe durante la guerra. Bruno, che nel 1952 era stato assunto da Edoardo Amaldi (allora presidente dell’INFN), voleva ottenere eventi di annichilazione (ossia di scomparsa) di due particelle depositando per un attimo un’enorme densità di energia elettromagnetica in un punto dello spazio. Oggi diremmo un mini Big Bang. Bruno, invece, usava un’altra espressione: “Vediamo come reagisce il vuoto a un’iniezione di energia”. Presentò la sua idea a Frascati, in un seminario del 7 marzo 1960. Alcuni lo presero per pazzo, noi ne fummo affascinati”.
È così che, nel 1961, avete deciso di costruire AdA, la prima macchina al mondo capace di far scontrare frontalmente un fascio di elettroni e uno di positroni. Giusto?
“Esattamente. Giorgio Ghigo fu il primo a proporre di realizzare un prototipo di dimensioni ridotte e dai costi contenuti. Giorgio Salvini (allora direttore dei Laboratori Nazionali di Frascati) accettò e al progetto si dedicò un piccolo gruppo composto da me, Ghigo, Touschek e Gianfranco Corazza. Eravamo incredibilmente entusiasti perché si trattava di un esperimento in terra incognita: sapevamo che se fossimo riusciti a far funzionare il prototipo sarebbe cambiato per sempre il panorama di questo tipo di attività, così come poi è stato”.
Ci parli della scelta del nome e delle misure di AdA. So che qualcuno vi prendeva in giro sostenendo che vi divertivate con un giocattolo…
“Decidemmo di chiamare il nostro collisore AdA (da Anello di Accumulazione) perché credevamo che l’accumulazione dei fasci rappresentasse il problema maggiore. Bruno mi raccontò che aveva una zia di nome Ada dalla quale era stato ospite durante la sua prima visita a Roma, nel 1938. Il giorno in cui ottenemmo la prima accumulazione di elettroni e positroni – il 27 febbraio del 1961 – era l’anniversario della sua morte. Bruno raccontò a tutti di questa coincidenza. È vero, AdA poteva sembrare una macchinetta: l’anello magnetico aveva una circonferenza di 4 metri e il magnete pesava “solo” 8 tonnellate. Si poteva smontare semplicemente aprendo dei grossi bulloni. Qualche amico ci prendeva in giro dicendoci che “AdA era un bel giocattolo”. Oggi dico: sarà stata pure un giocattolo, ma ha saputo insegnarci un’infinità di cose… Ce ne fossero di giocattoli così! AdA e il Large Hadron Collider di Ginevra appartengono alla stessa famiglia, solo che la prima è un microbo, il secondo è come un essere umano”.
Quali sono state le sfide più grandi che avete dovuto affrontare?
“Ci tengo a dire una cosa: le nostre difficoltà furono completamente diverse da quelle che incontreremmo oggi, che sarebbero burocratiche, economiche e concettuali nel far capire a qualcuno del Ministero il senso del nostro progetto. Avevamo dei protettori di una lungimiranza straordinaria: Edoardo Amaldi (presidente dell’INFN), Felice Ippolito (che a quell’epoca presiedeva il Comitato Nazionale di Energia Nucleare) e Giorgio Salvini (direttore dei Laboratori Nazionali di Frascati). Quanto agli scogli tecnici, li superammo innanzitutto con la produzione di vuoti prodigiosi. A questo ci pensò Gianfranco Corazza, uno specialista straordinario che riuscì a fare dei vuoti che nessun altro al mondo aveva, cioè di un decimiliardesimo di millimetro di mercurio, il tutto con pompe costruite da lui in laboratorio”.
Quando ha iniziato AdA a darvi le prime soddisfazioni?
“Il 27 febbraio del 1961 il fototubo registrò delle pulsazioni. Con grande sorpresa ci accorgemmo che un singolo elettrone era visibile anche a occhio nudo attraverso un oblò. Facemmo dei calcoli e scoprimmo che la luminosità di quel puntino bianco-blu era più o meno equivalente a quella di una stella come il Sole distante cinque anni luce da noi. Così montammo una specie di circo equestre per i visitatori: se erano buoni, gli facevamo vedere un singolo elettrone. Al di là di questo, ci è servito molto per fare la calibrazione dell’intensità. Il nostro sogno, però, lo abbiamo realizzato in Francia, quando iniziò il gemellaggio Frascati-Orsay”.
Come mai siete andati in Francia?
“Presto ci accorgemmo che il nostro sincrotrone (la sorgente delle particelle) aveva un fascio troppo disperso. Allora ci siamo messi d’accordo con i francesi di Orsay che avevano un acceleratore lineare, cioè una macchina senza campo magnetico che faceva dei pacchetti di elettroni molto compatti, densi e rapidi. Lì, effettivamente, siamo riusciti a realizzare le accumulazioni che ci servivano, un processo che durava intere notti”.
C’è un momento, in particolare, che ha segnato la svolta del vostro esperimento. Cosa ricorda di quella notte del marzo 1963?
“Mentre stavamo accumulando, ci rendemmo conto che la corrente non cresceva più. Bruno, preso dallo sconforto, andò a bere al bar della stazione. Tornò poco dopo con sventolando una formula: aveva capito! Fu così che nacque l’effetto Touschek: quando l’intensità era troppo alta, succedeva che due elettroni dello stesso fascio urtavano tra di loro e tutti e due andavano persi. Consultandoci, scoprimmo che andando su con l’energia il danno provocato dall’effetto Touschek diminuiva: l’anello di collisione ADONE, che era già stato messo in cantiere, non ne avrebbe sofferto. Per noi è stato un momento drammatico e cruciale”.
Fino a quando è stata utilizzata AdA?
“L’abbiamo usata fino a quasi tutto il ’63 perché in quell’anno abbiamo provato a misurare quanti mini Big Bang avvenivano al secondo. Abbiamo dimostrato che effettivamente si verificavano questi processi di scomparsa di una coppia di elettrone e positrone che si scontravano dentro la macchina. Quando siamo riusciti a misurare la “luminosità” (come la chiamava Bruno) dell’anello, abbiamo capito che AdA aveva fatto il suo dovere: ci aveva mostrato che era possibile fare macchine di quel tipo. Dopo il suo successo, i francesi misero in cantiere una macchina tutta loro, che si chiamava ACO (Anneau de Collision d’Orsay); la stessa cosa fecero i russi siberiani di Novosibirsk, che costruirono un’AdA moltiplicata per tre”.
Cosa vi ha spinto a non arrendervi fino all’ultimo istante?
“Sono stati anni dominati da un’eccitazione incredibile: eravamo lì, soli e abbandonati in Francia per notti di seguito. Continuavamo a scoprire qualcosa di nuovo ogni volta che ci ritrovavamo per caricare i fasci. Abbiamo fatto su e giù tra Frascati e Orsay per quasi tre anni: partivamo il venerdì mattina e tornavamo il lunedì o il martedì della settimana successiva. In quel periodo ho dormito molto poco. Eravamo tutti con famiglia, i bambini crescevano e noi ce ne stavamo lì, ad accumulare particelle. C’era anche molta cocciutaggine, una delle doti più importanti per un ricercatore. Da tutte le parti era pieno di uccelli del malaugurio: ci dicevano che era impossibile, che non ce l’avremmo mai fatta. La nostra ostinazione aumentava proprio grazie a questi gufi”.
Gli anni Cinquanta e Sessanta sono stati un periodo d’oro per la fisica italiana. Qual era il vostro segreto?
“Il segreto è molto semplice. Quando partirono i Laboratori di Frascati, il direttore, Giorgio Salvini, era in cattedra e aveva 33 anni. Tutti noi avevamo 22-23 anni, eravamo laureati di fresco, sia i fisici che gli ingegneri. Fare le cose a quell’età significa giocarsi il futuro con le proprie mani, non farselo giocare da qualcun altro. È una differenza enorme. Avevamo piena responsabilità. Era un punto su cui insistevano molto, sia Salvini che Ippolito che Amaldi: aver fiducia nei giovani se gli si dà responsabilità. Questo oggi manca. Si inizia ad avere responsabilità non prima dei 40-45 anni: è troppo tardi. Oggi i giovani sono imbolsiti, sono meno pronti, hanno più cautele e nel frattempo hanno conosciuto il peggio del mondo”.
Come vede il futuro della fisica in Italia? Cosa bisognerebbe fare per avere un’altra epoca così?
“Il futuro della fisica potrebbe essere ottimo. Con la fuga dei cervelli regaliamo umanità costosissima, che sono i giovani ben formati nei dipartimenti di Fisica italiani, ai Paesi che si possono permettere di usarli per la ricerca di base. Il punto più dolente su cui lavorare, secondo me, riguarda la capacità del sistema industriale di utilizzare l’innovazione tecnologica avanzata. C’è un problema di cultura dell’innovazione tecnologica nella struttura industriale. La vera innovazione ha i suoi tempi: bisogna essere capaci di leggere la letteratura scientifica, studiare, farsi venire delle idee, progettare un prototipo e così via. Questo l’impresa non lo sa fare. Va detto che una nuova mentalità può nascere solo se la scuola – soprattutto quella secondaria – si comporta in maniera efficiente nell’indirizzare verso una cultura scientifica, cosa che oggi sembra stia andando a rotoli. Non andiamo a caccia di geni, ma di persone molto competenti e che abbiano un approccio di tipo creativo”.
Chiudiamo con un ricordo a cui è particolarmente legato. Chissà, magari è di buon auspicio…
“Il mio ricordo più caro di quel periodo è per i grandi maestri. La nostra capacità di collaborare da giovani derivava anche dal fatto che c’erano persone che sapevano formulare particolarmente bene i problemi. Bruno Touschek era uno di loro. Io ho avuto un maestro che era un compagno di scuola di Enrico Fermi: si chiamava Enrico Persico ed era il più grande docente di Fisica dei miei tempi. Poi c’era Edoardo Amaldi, un’altra persona capace di affascinare gli studenti con le sue lezioni. Sul loro esempio ho sempre cercato di fare tutto il possibile per essere sicuro che i miei studenti capissero, e non imparassero soltanto. La differenza sta tutta qui: è più importante capire che imparare. Ci sono persone che soffrono nel dover insegnare, ed è uno sbaglio grandissimo. Bisogna avere desiderio di insegnare perché si riesce a entrare nello spirito delle scienze – di qualunque tipo di scienza – solo quando si prova a trasmettere ciò che si sa agli altri, a menti che ancora non hanno l’allenamento che abbiamo noi. Cos’è, d’altronde, la scienza, se non una staffetta in cui siamo tutti chiamati a passarci il testimone?”.