La tragedia del Vajont. Il 9 Ottobre del 1963 una frana staccatasi dal monte Toc cade nell’invaso della diga e provoca un’onda che travolge e distrugge il territorio di Longarone, le frazioni di Erto e Casso e provoca quasi duemila morti. 50 anni dopo Rainews24 è tornata sui luoghi della tragedia. Il racconto dello scrittore Mauro Corona.
Il monologo Vajont, un’orazione civile, è un’opera trasmessa in occasione del trentaquattresimo anniversario (ossia il 9 ottobre 1997) del disastro del Vajont in diretta su Rai 2.
Il soggetto teatrale è la storia della Diga del Vajont e delle circostanze che hanno condotto al disastro, raccontate in circa due ore e mezza. La ricostruzione è il frutto di accurate ricerche e collazioni di documenti ufficiali e fa risalire l’origine dell’intricata vicenda alla fine del XIX secolo. Per l’occasione fu allestito un teatro proprio presso la Diga del Vajont, precisamente nel lato della diga riempito dalla frana e un tempo sede del bacino.
Paolini narra la vicenda che ha portato al disastro della diga con estrema fedeltà ai fatti e alle persone, inserendo di tanto in tanto aneddoti divertenti che alleggeriscono la drammaticità del racconto.
Una catastrofe inimmaginabile, cadaveri dappertutto, ma molti non avranno mai sepoltura. Il disastro è avvenuto in pochi minuti
LONGARONE 10 Ottobre (notte ) – Una catastrofe inimmaginabile.
I più spaventosi disastri capitati nella storia delle dighe impallidiscono di fronte all’atroce misura di quanto è successo ieri notte nella valle del Piave. Vi sono da due a tremila vittime, tra morti e dispersi. Si deve dire da due a tremila perché sotto i duemila non è possibile che si sia e perché si spera di non salire oltre i tremila.
Dal terremoto di Messina e di Avezzano in poi, tolti i fatti di guerra, non si era più avuto in Italia un eccidio tanto grande. A tutta stasera erano state recuperate circa quattrocento salme. Un numero orrendamente alto, come si vede, ma assai lontano da quello totale delle vittime. Di cadaveri ne vengono fuori dappertutto, ma la maggior parte non avrà mai sepoltura. Ve ne sono a centinaia sotto coltri di roccia e fango spesso fino a dieci metri. Ve ne sono centinaia e centinaia disseminati e nascosti nelle sabbie del Piave. Ne sono stati trovati due, tre, cinque, dieci chilometri più a valle scendendo il corso del fiume, fino a Feltre ed oltre.
Una dozzina di elicotteri vola su e giù lungo, il corso del Piave, lentamente e a pochi metri di altezza, alla ricerca di cadaveri. Così ne sono stati avvistati e Immediatamente recuperati parecchi. Alcuni, molto a valle, erano rimasti impigliati tra i rami di alberi contro i quali li aveva scagliati l’ondata liquida precipitata dalla diga del Vaiont. La catastrofe, davvero di proporzioni bibliche, si è svolta nel giro di pochi minuti a partire dalle 22.45 di ieri. Dalla diga del Vaiont è scesa d’improvviso, a velocità fulminea, una valanga d’acqua il cui volume viene stimato da un minimo di venti milioni ad un massimo di cento milioni di metri cubi.
Ma più che la massa dell’acqua conta l’altezza del salto, dai settecentoventi metri del bordo della diga del Vaiont ai quattrocentocinquanta metri della piazza principale di Longarone. Va detto subito che la diga del Vaiont non è crollata né è saltata, né ha comunque ceduto. La diga è ancora là, almeno apparentemente intatta, lungo tutti i suoi duecentosessantacinque metri d’altezza. La diga ha anzi, se così si può dire, ampiamente dimostrato di essere una incrollabile diga.
L’evento che ha dato luogo al disastro si è verificato per il fatto che un intero costone di montagna, una enorme fetta del monte Tocc, che sovrastava il bacino verso il suo lato meridionale, è franato ed è caduto nel bacino espellendo di colpo una considerevole parte del liquido che vi era contenuto. E’ in tal modo avvenuto, in proporzioni mostruose da sconvolgimento geologico, lo stesso fenomeno che avverrebbe a vibrare un pugno in una scodella d’acqua. Decine di milioni di metri cubi d’acqua e fango si sono sollevati, hanno tracimato lungo il bordo superiore della diga, sono caduti a valle in una unica ciclopica onda a cascata, quasi verticale.
(…) Distrutto tutto sul suo passaggio, l’onda ha toccato il greto del Piave, ha attraversato il fiume, si è abbattuta a catapulta contro la riva opposta, quella di destra. In questa riva si trovavano fino a ieri sera paesi come Longarone, come Pirago, come Rivalta, come Villanova, come Faè. Questi ultimi quattro paesi, tutti quanti frazioni del comune di Longarone, oggi non esistono più. Non esistono più in senso assolutamente letterale. Longarone non esiste più per quattro quinti, il quinto più a settentrione — a partire dalla casa municipale in poi — si è salvato per via della sua posizione molto alta sul greto del fiume.
Questa circostanza non deve far credere che l’onda scesa dalla diga del Vaiont abbia perduto di forza nel traversare il Piave — qui largo ora cinquecento i i metri contro i cento di ieri — e che abbia quindi distrutto le case più esposte, quelle più basse in quota. Tutt’altro. E’ andato completamente distrutto, proprio sulla sponda destra, tutto ciò che esisteva fino ad una quota di circa settanta od ottanta metri superiore a quella del letto del Piave.
Nulla ha resistito alla diabolica catapulta liquida. Per tre chilometri, la pur alta linea ferroviaria Treviso-Calalzo non esiste più. Non esiste più vuol dire che non vi è più traccia non dico di rotaie o traversine o di massicciata, ma che non vi è più traccia di niente, non si capisce più dove la linea passasse fino a ieri. Due chilometri a valle di Longarone si ricomincia infine a vedere la massicciata, le traversine e i binari; ma i binari sono stati letteralmente arrotolati dall’urto dell’acqua, sembrano molle da orologi di due o tre metri di diametro.
Alla forza dell’acqua precipitata dalla diga non ha resistito alcuna casa, né quelle vecchie di mattoni e pietra, né quelle nuove di cemento armato. Non hanno resistito nemmeno i tralicci d’acciaio dell’energia elettrica, sono stati strappati con i loro zoccoli di calcestruzzo e giacciono a terra incredibilmente contorti, sventrati, confusi come fascine. Gli uomini e le donne, i vecchi e i bimbi dentro alle case a dormire o a guardare la televisione, o a giocare a carte nei caffè, non hanno potuto fare nulla per difendersi. Si può dire che sono morti tutti o quasi tutti. Si può dire che nelle zone colpite dall’ondata simile a quella di un gigantesco maremoto, nessuno si è salvato. O quasi nessuno. Sono scampati alla morte coloro che si trovavano altrove. I superstiti sono pochi. Alle autorità, questo disastro di Longarone pone problemi gravissimi di ogni genere; ma non in maniera difficile il problema di dare ricovero e nutrimento a dei sinistrati, a gente rimasta senza casa. Non ci sono più né case né gente, né chiese, né strade, né ponti.
(…) Il territorio di cinque dei venti centri abitati che formano il comune di Longarone è da stanotte un solo immenso ghiaieto. In un certo punto, alla periferia di Longarone, c’era una segheria, in mezzo a un praticello. Al posto del prato e della segheria c’è oggi un lago lungo un centinaio di metri e largo una cinquantina. Salita a distruggere Longarone e Faè, e Pirago, e Villanova, e Rivalta, l’ondata precipitata dalla diga del Vaiont non si è arrestata. E’ tornata indietro, verso il basso, trascinando con sè cose e corpi, alberi e automobili, strade e case; ha rivalicato il Piave, ha colpito basso e duro le case più esposte di Codissago, sulla sponda sinistra del fiume, le ha sgretolate, trascinate via con una trentina di persone dentro. Altrettanto ha fatto, poco più a valle dal punto di sbocco della val del Vaiont, con l’abitato di Vaiont, con la differenza che le case di Vaiont, salvo alcune poste sopra un colle, sono scomparse tutte con la gente che vi dormiva dentro. Per sfortuna somma, la valanga d’acqua precipitata dalla diga del Vaiont ha dovuto, al momento di entrare nel Piave passare in un canalone stretto di roccia. Questo canalone ha ancora aumentato la velocità già altissima della valanga liquida, ha svolto la funzione accelerante che nelle manichette dei pompieri viene svolta dai manicotti metallici terminali fabbricati a lancia.
TOMBE SCOPERCHIATE – Si diceva sopra che alla periferia di Longarone si è formato un piccolo lago. Dalla parte opposta del Piave, invece, interi costoni erbosi di montagna sono spariti, come se fossero stati raschiati via da una gigantesca ruspa. E’ anche scomparsa una zona pianeggiante larga un quattrocento metri, tra il corso delle acque del Piave e l’attacco delle montagne. In questa zona ora divenuta ghiaieto, sorgevano alcuni stabilimenti industriali della zona. A guardare da Longarone verso la valle del Vaiont, la diga si vede ancora. Ma sopra, invece di scorgervi l’azzurro del cielo, vi si vede una immensa montagna di terra, quel pezzo di monte Tocc che v’è precipitato dentro stanotte.
La diga che prima appariva come un cono vuoto di gelato, a guardare dal basso, ora sembra un cono colmo di terra. Il panorama della zona, insomma, è radicalmente cambiato. Dimenticavo di dire che prima di scendere a distruggere in basso, la valanga d’acqua ha distrutto anche in alto, non appena partita. In un punto imprecisato, non molto sotto alla diga, si trovavano alcune baracche occupate da oltre un centinaio di operai, parte dei quali della S.A.D.E. — la società alla quale, prima del passaggio all’E-N.E.L., apparteneva la diga del Vaiont — e parte di una impresa di lavori. Sembra, ma è purtroppo quasi sicuro, che tali baracche siano andate distrutte. Pare anche che manchino notizie di vari, operai che risiedevano in tali baracche. Gli abitanti di Faè, di Villanova, di Vaiont e altri, dicevo, sono stati spazzati via. Spazzati via vuole dire che la gente che qui accorre alla ricerca dei parenti non è assolutamente in grado di riconoscere il luogo dove le case sorgevano fino a ieri. «Forse qui», dicono. Poi si spostano di dieci metri o di venti o di cinque e dicono: «Forse era qui».
(…) Andando e venendo due o tre volte, l’ondata ha strappato, divelto, scavato, segato, polverizzato, spostato, impastato; ha nascosto cose’e corpi sotto cinque o dieci metri di ghiaia o terra. Altrove invece, l’ondata, pur distruggendo, ha lasciato soltanto due o tre palmi di fango viscido. E’ il caso del cimitero di Longarone. Del cimitero di Longarone, situato presso la frazione Pirago e volto a valle, resta in piedi soltanto l’ala dei loculi. Il muro di cinta non esiste più, molte tombe sono scoperchiate, piene d’acqua e di fango e nafta calata da qualche serbatoio schiacciato. L’ala dei loculi è stata investita con violenza, ma non troppa. Di una cinquantina di lapidi poste a chiusura dei loculi, soltanto una dozzina sono state sfondate. Attraverso i vani vuoti si vedono casse da morto sconnesse, le più sono casse minuscole, da bambini. Della chiesa del cimitero, detta popolarmente «chiesa del diavolo» è rimasto in piedi soltanto il campanile. Più avanti, in una zona tra Pirago e Longarone, delle molte case che vi sorgevano ne sono rimaste in piedi due sopra un cocuzzolo. Ma benché altissime, le acque le hanno raggiunte e devastate. Di tutte le altre — decine e decine — non rimane più nulla. O meglio: rimangono i pavimenti netti e lavati dal cataclisma della notte; ma soltanto i pavimenti, nemmeno un pezzo di muro alto due dita, intorno. Più oltre ancora, c’è un vastissimo ghiaione.
OFFICINE VOLATILIZZATE – Oggi, su questo ghiaione vi sono squadre di alpini che lavorano di piccone alla ricerca di cadaveri, e bulldozers che tentano di riaprire il solco delle strade, ed elicotteri che atterrano e decollano. Ma ancora ieri sera vi sorgeva la parrocchiale, c’erano le filiali della Banca Commerciale, della Cassa di Risparmio, della Banca Cattolica del Veneto. «Questa pietra — dice uno — potrebbe essere una pietra dei portici che c’erano o una pietra della piazza dei Martiri. Conoscevo Longarone sasso per sasso, ma non mi ci raccapezzo più» Un gruppo di sacerdoti segue il lavoro di scavo di una squadra di alpini. Dal fango viene fuori un messale, poi un bracciolo di poltrona antica. «La canonica dovrebbe essere più sotto — osserva uno dei sacerdoti —, ma l’ondata potrebbe avere portato via il cadavere». Il corpo che si cerca e che non sì trova è quello del parroco monsignor Bortolo Larese. Il sindaco di Castellavamo, Riho Zoldan, indica verso il Piave con la mano: «Là c’era un ponte finito tre mesi fa, là c’era un altro ponte, là un altro ancora». Nessuna traccia dei ponti. Nessuna traccia nemmeno dei sei o sette stabilimenti che formavano uno dei nuclei industriali della provincia di Belluno. Scomparsi, come volatilizzati, gli stabilimenti della «Marmi», dell’occhialeria «Ilom» delle «Condutture elettriche Procond», delle «Segherie Protti», della filanda «Malcom», della «Cartiera di Verona». Al momento della catastrofe, Ieri sera, nello stabilimento della Cartiera di Verona si trovavano novanta operai: sono scomparsi tutti nel cataclisma, nessuno dei novanta s’è fatto finora vivo.
«NON SI CAPISCE NIENTE» – Secondo me — dice il signor Mario Laveder, segretario comunale di Longarone — il numero delle vittime dovrebbe essere tra duemila e tremila. Nel territorio comunale vivevamo in quattromilasettecentosessanta, ed almeno duemila di questi risultano mancanti a un primo frettoloso sommario appello. Manca il sindaco, mancano cinque consiglieri, mancano le quattro suore dell’asilo, manca il farmacista, manca il maresciallo dei carabinieri Vito Papa, con la moglie, la figlia e la suocera; manca. il vicebrigadiere dei carabinieri Miglietta, manca il carabiniere Mayer, manca ‘il brigadiere della forestale Enrico Migotti, mancano ben sedici cugini e zii di primo grado della giovane Sandra Tormen. Sandra Tormen è l’unica persona che ho visto piangere in tutta la giornata trascorsa sul luogo dove sorgeva Longarone. Manca all’appello il maestro elementare Paolino De Bona con la moglie e le sue sei figlie, manca il maestro Guglielmo Pan cera con la moglie, due figlie, la madre e la suocera, manca il maestro Elio De Bona, fratello di Paolino, con la moglie e il figlio, manca la maestra Maria Antonietta Debiasio con suo marito e suo fratello, manca la maestra Maria Vascellari. Della famiglia Tovanella, una dozzina di persone, è rimasto un solo superstite, l’avvocato Tovanella.
(…) Taluni si sono salvati per essersi allontanati per qualche ora dalle loro dimore. E’ il caso del giovane Luigi Sacchet. Era andato a trovare la fidanzata, Wanda De Zolt, nel vicino paese, di Perarolo. Al ritorno, verso mezzanotte, credette di impazzire, Luigi Sacchet è ora qui, con la fidanzata stretta sotto braccio, e cerca di capire dove suo padre Pietro e sua madre Elvira possono trovarsi sepolti. Sacchet non piange, anche lui; nessuno piange, qui a Longarone. A pochi metri da Sacchet c’è un uomo con una camicia rossa che lavora rabbiosamente di piccone aiutato da alcuni alpini. L’uomo dalla camicia rossa è il cartolaio tipografo Demetz: sono sei ore che lavora di piccone senza riuscire, a trovare i cadaveri della moglie e del figlio.
Alla zona del ghiaione segue una zona in cui le case, pure infrante e schiacciate, sono rimaste a galla, sul piano di macerie. Ecco, in pochi metri, uria scala a pioli, un trapano da dentista, una borsa con dentro un chilo e più di biglietti da cento marchi e catene d’oro e gioielli, una palla di gomma rossa, un biberon colmo di latte, una scarpa, un paio di brandelli di automobile, una ruota di autocarro, un laghetto di nafta, una mano di donna con una perla a un dito, sporgente dal fango, un pallottoliere, una bandiera tricolore avvoltolata nella sua custodia, un tratto di siepe di mortella, con le mortelle tutte scorticate. Nel greto del Piave, le carcasse di automobili sono centinaia e centinaia, molte brillano al sole. L’unico punto di riferimento in questa zona, anch’essa rasa al suolo, è l’altare maggiore della parrocchiale, i tre gradini anzi dell’altare maggiore della parrocchiale. Un vecchio solo s’aggira sulle macerie come inebetito. «Non si capisce più niente», dice. Ha qui sotto tre sorelle, ieri vive e oggi morte: Maria, Caterina e Virginia Salvador, tutte e tre sposate e con figli.
Il dottor Gianfranco Trevisan, medico condotto di Longarone, era, al momento del disastro, davanti al televisore a guardare la partita del Real Madrid. Per buona sorte, la casa del dottor Trevisan si trova alla periferia nord di Longarone, molto in alto. «.l portone — racconta il medico — si spalancò improvvisamente. Chiamai moglie e figli e gridai loro di salire sul monte. Pensai che fosse saltata la diga. Ce l’aspettavamo» «Ve l’aspettavate?» « Si, dal monte Tocc era caduta qualche grossa frana nel bacino. Ogni tanto la terra, qui a Longarone, tremava; anche quindici giorni fa la terra ha tremato».
LA PAURA DEL TOCC – La signorina Maria Rosa Mannarin, domestica del dottor Trevisan, ha una casa sulle pendici del monte Tocc. «Qualche giorno fa — dichiara il medico — alla Mannarin fu detto di sgomberare la casa e di lasciare la montagna. Tutti coloro che hanno case sul monte Tocc hanno avuto questo ordine». Vista mettersi in salvo la famiglia e munitosi di una lampada, il medico Trevisan formò una squadra di soccorso col vice-sindaco Arduini, con l’impiegato comunale Giorgio Pioggia ed altri. Prima di tutto, questa squadra trovò un bambino quasi del tutto sepolto nel fango, lo estrasse, lo mandò all’ospedale; poi, tre o quattro feriti; e poi tre o quattro morti. Tutti nudi o in pigiama, l’ora era tarda e molta gente di Longarone s’era già coricata. L’operaio Luigi Mannarin, abitante nel vicino paese di Casso, quando udì il boato delle 22,45 di ieri sera, gridò subito: «Qui viene giù il Tocc». Per la verità, a Longarone e altrove, molti pensarono al Tocc, alle 22.45 di ieri sera, nell’udire il boato e il tuono che dava il via al disastro. Si può anzi dire che vi pensarono tutti.
Smottamenti e crepe nelle pendici del Tocc avevano cominciato a manifestarsi due anni orsono, non appena terminata la costruzione della diga del Vajont. Furono anzi queste crepe a consigliare di non riempire d’acqua il bacino appena costruito. Ma un anno fa, ottenuta la debita autorizzazione, cominciò lentissimo l’invasamento del bacino, che misura sette chilometri di lunghezza e trecento metri di larghezza. Ieri sera il livello dell’acqua era a una ventina di metri sotto il livello massimo. E’ evidente che gli esperti avevano ritenuto che il monte Tocc si fosse abbastanza consolidato. La paura del monte Tocc, comunque, esisteva ed era diffusa tra la popolazione di questa plaga cadorina. O, se non la paura, almeno la preoccupazione. Si spiega perciò come questa gente non esiti ad esprimere pubblicamente e accoratamente il desiderio che venga al più presto compiuta una rigorosissima inchiesta ad alto livello per appurare se esistano responsabilità e perché queste siano eventualmente colpite con estremo ed esemplare rigore. L’opera di soccorso si è iniziata pochi minuti dopo la catastrofe ed è proseguita attivissima e ordinata, durante tutta la giornata con la partecipazione di vigili del fuoco, carabinieri, polizia e reparti alpini della Brigata Cadore. La direzione dell’opera di soccorso è stata affidata al generale Carlo Ciglieri, comandante il IV Corpo d’armata.
(dal Corriere della Sera di venerdì 11 ottobre 1963)
Dopo mezzo secolo il disastro che uccise quasi duemila persone, il presidente della Repubblica sottolinea che la tragedia poteva essere evitata e proclama la Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali dovuti all’incuria dell’uomo. Epifani:”Non dimentichiamo” e Grasso va a Longarone
ROMA – Sono passati cinquant’anni da quando un’enorme frana scivolò dal monte Toc sopra Longarone e piombò con il fragore di un’esplosione nell’invaso artificiale della diga del Vajont. La diga tenne l’urto, ma l’ondata d’acqua che fuoriuscì si riversò nella valle spazzando via case, chiese e circa duemila vite umane. Dopo mezzo secolo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il presidente del Senato Pietro Grasso e il leader Pd Epifani ricordano il disasto naturale che colpì il Veneto e il Friuli.
In un messaggio Napolitano ribadisce che il cedimento della diga non fu una fatalità, ma unerrore umano. “La memoria – scrive Napolitano – del disastro che il 9 ottobre 1963 sconvolse l’area del Vajont suscita sempre una profonda emozione per l’immane tragedia che segnò le popolazioni con inconsolabili lutti e dure sofferenze. Il ricordo delle quasi duemila vittime e della devastazione di un territorio stravolto nel suo assetto naturale e sociale induce, a cinquant’anni di distanza, a ribadire che quell’evento non fu una tragica, inevitabile fatalità, ma drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le responsabilità”.
“È con questo spirito – riprende il presidente della Repubblica – che il Parlamento italiano ha scelto la data del 9 ottobre quale ‘Giornata nazionale in memoria delle vittime dei disastri ambientali e industriali causati dall’incuria dell’uomo, riaffermando così che è dovere fondamentale delle istituzioni pubbliche operare, con l’attivo coinvolgimento della comunità scientifica e degli operatori privati, per la tutela, la cura e la valorizzazione del territorio, cui va affiancata una costante e puntuale azione di vigilanza e di controllo”.
“Nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario del disastro, desidero rendere omaggio alla memoria di quanti hanno perso la vita, alla tenacia di coloro che ne hanno mantenuto fermo il ricordo e che si sono impegnati nella ricostruzione delle comunità così terribilmente ferite e rinnovare, a nome dell’intera nazione, sentimenti di partecipe vicinanza a chi ancora soffre”, scrive ancora il capo dello Stato. “Desidero, inoltre, esprimere – conclude – profonda riconoscenza a quanti, in condizioni di grave rischio personale, si sono prodigati, con abnegazione, nell’assicurare tempestivi soccorsi ed assistenza, valido esempio per coloro che, nelle circostanze più dolorose, rappresentano tuttora un’insostituibile risorsa di solidarietà per il paese”.
Il presidente del Senato Pietro Grasso a Longarone, al cimitero delle vittime del Vajont, prima della cerimonia pubblica che celebrerà il ricordo. Grasso ha deposto una corona d’alloro in memoria, accanto a lui il presidente della Regione Veneto Luca Zaia. “Ricordare quanto accaduto – afferma Grasso – significa essere consapevoli che nessun interesse, nessuna convenienza, nessuna scorciatoia può concedersi di incidere ‘sulla pelle viva’ di una popolazione”. E continua:”Dove 50 anni fa tutto era fango e ghiaia, oggi c’è la più grande zona industriale della provincia di Belluno e il quarto polo fieristico del Veneto. È enorme la mia ammirazione verso le popolazioni di questa valle per la forza e la determinazione che hanno dimostrato, per la pazienza e la perseveranza con le quali hanno saputo rinascere dal fango”.
“Il Vajont – e conclude – è anche la storia di uno straordinario esempio di solidarietà e virtù civiche, da molti considerato alla base della nascita del sistema della protezione civile. E’ la storia di tutti quelli che accorsero con tempestività: Alpini, Vigili del Fuoco, Forze dell’ordine, volontari da tutta l’Italia. Persone che, con abnegazione, generosità e impegno hanno offerto la propria opera nel momento del dolore e dell’orrore. Persone che, in qualche modo ancora oggi portano il segno di quell’esperienza”.
“Molte – ha detto il presidente del Pd Gugluielmo Epifani – e pesanti furono le responsabilità per una tragedia che si poteva evitare se la ricerca del profitto non fosse stata messa davanti alla tutela della sicurezza e della vita di migliaia di persone innocenti. Anche la giustizia non ha fatto il suo corso e, forse, è il risarcimento negato che più pesa sulle popolazioni colpite. Insieme ad un’attenzione che per troppi anni è mancata, come se una tragedia così grande potesse conoscere l’oblio”. “La memoria – conclude Epifani – infine è la ricerca incessante di chi rimane, è qualcosa che resta nella mente di chi partecipò ai soccorsi, e un Paese perde il senso di sé, della sua storia, se non ha la capacità di fermarsi a condividere il ricordo”.
Il film ricorda il disastro del Vajont, che nel 1963 costò la vita a circa duemila persone. La vicenda, reale, viene raccontata intrecciandola con la storia d’amore di Olmo Montaner, che nel film è uno dei pochi sopravvissuti alla tragedia, ma che è, in realtà, un personaggio del tutto inventato.
La storia inizia nella primavera del 1959. La Diga del Vajont, situata nell’omonima valle fra il Friuli e il Veneto, è ormai quasi completata. La SADE (Società Adriatica Di Elettricità) conta di fare del bacino del Vajont il più grande del mondo, costruendo un pezzo dell’Italia di domani. Gli ingegneri ideatori del progetto sono Carlo Semenza, Alberico Biadene e Mario Pancini. Alla diga lavora anche il geometra Olmo Montaner, originario di Erto, uno dei paesi che dominano la vallata; Olmo è convinto che la costruzione della diga, e il lago che ne seguirà, porterà tanti soldi nella valle, ma nel paese non mancano le voci di protesta, alimentate dalla giornalista per l’UnitàTina Merlin, che da anni scrive contro la SADE, denunciandone i soprusi e le malefatte e definendola uno Stato nello Stato. Quando i lavori sono ormai quasi ultimati, cominciano i contrattempi. nell’aprile 1959, alla vicina Diga di Pontesei, 3 milioni di metri cubi di montagna si staccano dal costone, provocando un’onda di venti metri che travolge e uccide Tiziani, un operaio che faceva da guardiano. Alla SADE viene indetta una riunione straordinaria, in cui si decide di affidare la perizia geologica sulla Valle del Vajont a Edoardo Semenza, figlio dell’ingegner Semenza e discepolo di Giorgio Dal Piaz, considerato il massimo esperto al mondo delle Alpi Dolomitiche.
Nel frattempo, la vita trascorre nella valle del Vajont anche se con qualche difficoltà e timori. Durante la festa del Venerdì Santo a Erto, Olmo conosce e si innamora di Ancilla Teza, una ragazza di Longarone, il paese situato proprio sotto lo sbarramento creato dalla diga.
Poco tempo dopo, anche nella valle cominciano ad apparire dei segnali d’allarme proprio come a Pontesei. Sul monte Toc, proprio sopra la diga artificiale appena costruita, si apre improvvisamente una grossa spaccatura nel terreno. Dal Piaz sostiene che si tratta di materiale franoso di superficie, niente di allarmante insomma, e i dubbi sollevati dall’ingegner Pancini vengono subito messi a tacere da Biadene.
Verso la fine di quell’anno, Edoardo Semenza consegna la sua relazione, ma i suoi allarmismi riguardo alla pericolosità del costruire la diga rimangono inascoltate. Edoardo Semenza rivela l’esistenza, sul Monte Toc, di una grossa paleofrana stimata sui 200 milioni di metri cubi di roccia, che rischia di franare nel lago se i processi d’invaso andassero a bagnarle i piedi. Ancora una volta, però, la sua relazione resta inascoltata e al Ministero viene fatta pervenire la relazione di Dal Piaz, assai più ottimistica. quando la diga entra ufficialmente in funzione la zona bassa di Erto viene sommersa dal bacino artificiale. Fra coloro che sono costretti a lasciare le proprie case c’è anche Olmo, che nel frattempo ha consolidato la sua relazione con Ancilla.
Assieme all’acqua, però, arrivano anche gli imprevisti. Il 4 novembre dello stesso anno, una grossa frana stimata di 1 milione di metri cubi di roccia si stacca dal Monte Toc e frana nel lago, suscitando paure e timori fra gli abitanti. Edoardo Semenza tenta ancora una volta di convincere suo padre e gli altri ingegneri ad abbandonare il progetto, inutilmente. Viene anche organizzata alla centrale di nove a Vittorio Veneto una simulazione di frana di 50 milioni di metri cubi, utilizzando un modello in scala 1:200, da cui si evince che con il bacino alla massima portata il lago potrebbe tracimare, con conseguenze catastrofiche anche per Longarone. La quota considerata di sicurezza viene stimata sui 700 metri sul livello del mare,dal professor Ghetti.
Intanto, Tina Merlin, sotto processo a Milano, viene assolta da tutti i capi d’accusa, grazie anche alla testimonianza dei contadini del Vajont. nella primavera del 1961,Olmo e Ancilla si sposano, andando a vivere a Longarone, e poco tempo dopo Carlo Semenza muore di morte naturale. La guida delle operazioni viene assunta da Alberico Biadene, che non esita a mandare al diavolo le perizie geologiche e a portare il bacino artificiale a quota 715 metri per poter effettuare il collaudo e vendere la diga allo Stato.
il 2 settembre 1963, un terremoto di inaudita violenza scuote l’intera valle, mentre i paletti di sorveglianza installati sul Toc rivelano che la frana si muove sempre più velocemente. In preda al panico, Biadene ordina di togliere quanta più acqua possibile per arrivare a quota 700, ma così facendo provoca solamente l’acceleramento della velocità di caduta. Si decide quindi di evacuare quante più persone possibile dalla zona, ma le operazioni sono rese difficili dalle frane che hanno distrutto la strada di collegamento fra i due versanti della valle.
Il 9 ottobre1963 Olmo Montaner viene chiamato sulla diga e gli viene ordinato di rimanere per tutta la notte per controllare la situazione sul Toc. Il giorno dopo, secondo le sue previsioni, lui e sua moglie, nel frattempo in attesa di un figlio, lasceranno Longarone per trasferirsi dalla zia di Ancilla a Belluno.
Quella sera, a Longarone, molte persone del paese si radunano nei bar e in altri luoghi di ritrovo per assistere alla partita di Coppa campioni fra Real Madrid e Rangers Glasgow.nello stesso momento Filippin,nota che il Toc si muove e Olmo telefona a Biadene per manifestare il proprio allarmismo, ma dato che ormai la quota lago è di 700 metri Biadene crede che il peggio sia passato.
Alle ore 22:39, però, la natura si scatena. 260 milioni di metri cubi di roccia si staccano dal Monte Toc e precipitano nel lago, sollevando una massa d’acqua di 200 metri di altezza e di 50 milioni di metri cubi; 25 milioni di metri cubi d’acqua si abbattono sui paesi di Erto, Casso, sulle frazioni di San Martino, Pineda, Spesse, Patata, il Cristo, Frasein: 160 morti. L’altra metà scavalca la diga (sfasciando il coronamento) e precipitano verso la piana del Piave. Vengono spazzate via dalla faccia della terra: Longarone, le frazioni di Pirago, Villanova, Faè, il paese di Castellavazzo con la frazione di Codissago e la borgata di Vajont: 2.000 morti. Olmo Montaner torna anche da anziano sulla tomba di Ancilla e In, che sarebbe stato suo figlio: sa che sotto non c’è niente, ma parla lo stesso con loro. Nonostante fosse convinto che la diga del Vajont portasse soldi nella valle, non potrà mai perdonare gli uomini che hanno consentito il disastro.