Anteprima sull’erede della Enzo: si comprerà solo su “invito”, costerà circa 1,5 milioni di euro e avrà tre motori, due elettrici e un V12 aspirato. Con tante idee riprese pari pari dalla monoposto di Alonso, dal Kers alla monoscocca in carbonio
Il 24 luglio 2008, il velodromo di Roma viene fatto implodere. Ciò che non venne detto ai cittadini è che la struttura era piene di amianto e le bonifiche regolamentari non vennero fatte. L’indagine per disastro colposo è ancora in corso. di M.Marini
L’ultimo episodio qualche giorno fa: un trentenne ucciso per errore da killer dei clan. Salvatore Scherillo, fratello di un ragazzo ammazzato quasi allo stesso modo otto anni fa, ha scritto a Repubblica.it: “Ribelliamoci alla paura e al coprifuoco imposti nei nostri quartieri”
di CLAUDIA MORGOGLIONE
Il luogo dell’omicidio di Pasquale Romano (ansa)
NAPOLI – L’ultima vittima innocente dell’infinita guerra di camorra partenopea si chiama Pasquale Romano: studente trentenne ucciso a Marianella 1– zona Nord della città – alle 22 di lunedì scorso. Bersaglio incolpevole di un errore di persona 2, commesso da killer che solitamente vanno in giro ad ammazzare i rivali, su ordine dei clan, con armi in pugno e tanta cocaina in corpo. Una tragedia, la sua, che non colpisce solo la famiglia, gli amici, i residenti del comune limitrofo di Cardito 3 in cui risiedeva. Perché Pasquale “è solo l’ultimo agnello sacrificale di una lunga serie. Prima di lui, in Campania, altre 160 persone sono morte in maniera analoga: gente perbene freddata per sbaglio, o caduta nel fuoco incrociato di bande che sul territorio agiscono indisturbate. Molti non se ne rendono conto, ma da queste parti, anche se in teoria siamo in tempo di pace, si vive in trincea. Ed è ora di dire basta, di ribellarsi, di uscire dall’assuefazione e dire ‘no'”.
A lanciare – attraverso una lettera a Repubblica.it – questo appello ai suoi concittadini e all’intera società civile del Paese, è Pasquale Scherillo. Ha trentotto anni e vive e lavora a Casavatore, uno dei quartieri ai margini della città investiti, dal 2004 in poi, da quella i giornali definiscono “la guerra di Scampia”. Il conflitto tra cosche camorriste concorrenti, per il controllo del territorio e della zona di spaccio di droga più redditizia d’Europa. Lui, questa mattanza, l’ha vissuta sulla pelle. Visto che suo fratello Dario, ventiseienne, fu la vittima casuale di un regolamento di conti dalla dinamica molto simile a quella di Romano: “Erano circa le 20,30 del 6 dicembre di otto anni fa, stava uscendo dalla scuola guida che gestivamo insieme (e di cui continuo ad occuparmi io). Parlava con un amico, discutevano di quando l’altro avrebbe dovuto sostenere l’esame per la patente. Era accanto al suo motorino, quando si avvicinano due pusher e sicari degli Scissionisti, che gli sparano alle spalle. Secondo gli investigatori il suo scooter era identico, per modello e colore, a quello della vittima designata, che era lì pochi secondi prima. Gli assassini, però, non sono mai stati individuati e catturati”.
Otto anni senza giustizia, per la famiglia Scherillo. E a ogni nuovo agguato simile – ce ne sono stati tanti, a cadenza quasi regolare, concentrati proprio in quella zona di Napoli – il dolore che si riaccende. All’allungarsi di questo lungo elenco di morti ammazzati senza colpa, ciascuno con una sua storia tragica: “Ai tempi di mio fratello, o poco dopo, caddero innocentemente Antonio Landieri, finito in mezzo a una sparatoria; Gelsomina Verde, freddata perché ex ragazza della persona sbagliata; Attilio Romanò, dipendente di un negozio di telefoni il cui titolare era il vero obiettivo”. Tra gli episodi più recenti il caso di Andrea Nollino, ucciso per sbaglio lo scorso giugno a Casoria, mentre apriva il suo bar. Il suo fu uno di quei casi che, almeno per un attimo, provocò un risveglio di coscienze, con una fiaccolata 4 per dire basta alla violenza.
Malgrado la sofferenza risvegliata da ognuno di questi episodi, Pasquale Scherillo è riuscito a non farsi travolgere. A utilizzare la rabbia come molla per non arrendersi: “Ho fondato un’associazione a nome di mio fratello, che fa parte del Coordinamento campano delle vittime innocenti della criminalità, presieduto dal marito di Silvia Ruotolo (la donna uccisa nel 1997 nel quartiere Vomero, ndr). Centosessanta persone, civili caduti in una guerra assurda che nessuno vuole riconoscere come tale. Io da anni vado a dire queste cose nelle scuole, per cercare di educare alla legalità: elementari, medie, superiori. I bambini e i ragazzini ascoltano le mie parole, capiscono quando dico che non bisogna accettare la mentalità camorrista, che nessuno può dirsi al sicuro. I liceali, invece, hanno già troppa malizia, quella che qui a Napoli in gergo si chiama cazzimma: dicono che se uno si fa i fatti propri va tutto bene, che io parlo così solo perché ho avuto un lutto”.
Atteggiamenti che fanno riflettere. Perché, al di là delle istituzioni “che devono garantire la sicurezza per il territorio e soprattutto la certezza della pena per i camorristi”, il problema – a suo giudizio – investe in primo luogo “la tanta brava gente che vive in queste zone della città, e che di fatto è la grande maggioranza. Ma che si adegua troppo allo stato delle cose. Ad esempio, in quartieri come il mio esiste un coprifuoco non dichiarato: non si può uscire la sera tardi, e se lo si fa mai da soli: se un ragazzo va fuori si infila subito in una macchina con almeno altri tre ragazzi. Le persone si sono abituate a vivere così. Le leggi del territorio sono imposte dalla minoranza di delinquenti, che sfruttano la paura”. Da qui il suo appello a non arrendersi, a reagire: “Non tanto scendendo in piazza – conclude Pasquale – quanto dicendo no ogni giorno ai ditkat di quella gente, sfidandoli con le parole e i comportamenti, come Roberto Saviano ci ha insegnato. Denunciandoli, ogni volta che si può. A me non hanno mai chiesto il pizzo, se lo facessero chiuderei subito e andrei dalla polizia. Al di là delle questioni politiche i napoletani hanno votato sindaco un magistrato, il che è un buon segnale: ma adesso bisogna cambiare anche la nostra vita quotidiana”. In altre parole: noi stessi.
Le italiane guardano sempre più spesso oltre confine quando si tratta d’amore. Le differenze con “lui”? Inevitabili ma non insormontabili. Tre ragazze raccontano il fascino di un uomo dal passaporto estero
di Raffaella Borea
Naturale deterrente allo scambio di anelli è la legge voluta nel 2009 dall’allora Ministro dell’interno Roberto Maroni che impone allo straniero in odor di matrimonio in Italia l’obbligo di esibire, oltre al tradizionale nulla osta (o certificato di capacità matrimoniale), anche “un documento attestante la regolarità del soggiorno nel territorio italiano”. Conseguenza: per dare scacco al proliferare delle unioni di comodo, anche quelle votate al sentimento si sono arenate a Milano come a Palermo. In (ovvia) controtendenza rispetto all’America di Obama dove i matrimoni misti proliferano (+15%), le celebrazioni tra donne italiane e uomini stranieri segnano il passo (-23,9%), mentre invece le convivenze si moltiplicano. Dividere il letto con un francese o un senegalese, cucinare per un rumeno o imparare il norvegese non spaventa le italiane che, senza ripensamenti, in uno schiocco hanno chiuso in un cassetto il fascino latino dei conterranei. Buttare la chiave non è stato troppo complicato: le differenze culturali e le difficoltà (iniziali) di adattamento reciproco sono superabili, tanto che l’uomo straniero, quando non stravince, se la gioca ad armi pari con il passaporto italiano.
Le storie di Alberta, Anna Maria e Federica lo confermano. Delle eccezioni? L’addio tra Seal e Heidi a 6 anni dal giorno del matrimonio farebbe pensare di sì. I dati raccolti da Istat anche: negli ultimi 7 anni separazioni e divorzi tra le coppie miste sono aumentati di oltre il 70% con effetti deflagranti quando ci sono figli di mezzo. «Le separazioni giudiziarie nelle coppie composte da partner di nazionalità diverse e con figli sono moltissime» spiega Maria Falchetti, avvocato, «e estremamente complicate soprattutto quando si è in presenza di culture o legislazioni non omogenee con quella italiana». Per credo religioso o per legge, la gestione del rapporto arrivato al capolinea può dunque diventare un inferno con buona pace della prole, vittima designata di querelle senza fine. «Anche se non hanno una valenza efficace in Italia» spiegano dal Centro per la Riforma del diritto di Famiglia, «bisognerebbe stipulare patti prematrimoniali utili per definire come dovrebbero comportarsi i coniugi in caso di separazione». Un suggerimento prezioso – e una dichiarazione scaramantica – anche per le nostre tre ragazze che hanno scelto di declinare ti amo in idiomi diversi da quello domestico.
Maschilismo azzerato, indipendenza e sense of humor: il mio amore sud africano
Alberta Galli, 38 anni, responsabile marketing Italia di un gruppo multinazionale francese operante nel turismo, sposata da 8 anni con Mark, 37 anni, graphic designer di origine sudafricana.
Nel 2002, durante un anno sabbatico nel sud est asiatico, ho trascorso un periodo in Thailandia con un gruppo di volontari internazionali in maggior parte di madre lingua inglese, tra cui un ragazzo sud africano, il cui fratello gemello – Mark – mi ha cambiato la vita. Dopo 2 anni abbiamo deciso di sposarci e da 10 viviamo in Italia. La sua apertura di vedute, la reale assenza di maschilismo e il sense of humor raffinato, che ho trovato davvero solo negli uomini stranieri, mi hanno fatto capitolare. La convivenza mi ha portato a confrontarmi con abitudini spesso diverse dalle mie, ma non inconciliabili: Mark, ad esempio, tiene fede all’uso sudafricano di mangiare seduto sul divano e portarlo a tavola non è semplice. Così come il chiacchierare è un’azione a tempo: per lui ogni giorno ha un limite definito di ore da dedicare alla conversazione, il che fa a pugni con la mia italica propensione alla parola. In compenso ce la giochiamo alla pari in quanto a indipendenza: il suo approccio è “anti mammone” essendo abituato a gestirsi e a risolvere ogni problematica in solitaria. Persino quando ha la febbre preferisce starsene da solo! Ma soprattutto Mark mi ha insegnato un approccio alla coppia realmente “duale”: io per lui sono la “soul mate”, l’anima gemella con cui condividere esperienze e costruire progetti, in modo molto aperto e alla pari. La sindrome italiana di “moglie-mamma-amica” rimane sullo zerbino di casa nostra, uno spazio dove mio marito esprime pienamente se stesso e dove la nostra coppia trascorre tempo qualitativo, anche quando si tratta di stirare. E lui lo fa benissimo….
Divisione dei compiti e facilità di adattamento: Tiako i Madagasikara (ti amo Madagascar)
Anna Maria T., 31 anni, professionista nella comunicazione, convive da 3 anni con Andry, malgascio, 35 anni, tecnico in una ditta metalmeccanica.
La classica serata tra amici mi ha fatto conoscere Andry: ci è bastato guardarci e ballare per far scattare la scintilla. Scoprire poi che il destino ci aveva fatto “sfiorare” molte volte, ma senza mai farci incontrare, ha reso ancora più inevitabile il nostro rapporto. Dopo 3 anni abbiamo deciso di convivere, un passo che mi ha permesso di mettere in discussione molte delle mie convinzioni. A partire dalla casa: ho imparato da lui che il nostro appartamento non deve essere un ambiente perfetto ma pieno di conforto, dove sentirsi accolti e protetti. Ecco perché prendersene cura insieme è importante: aiutarmi è la regola e dividere i compiti una legge. Storicamente il Madagascar era una società matriarcale, supportare un donna nella gestione del quotidiano fa parte del DNA e della cultura del mio compagno. Cultura che, avendo lui vissuto in diverse parti del mondo, è davvero globale: la sua apertura mentale e la facilità di adattamento sono una lezione costante anche per me. Abituarmi a lui non è stato per nulla complicato: prendere le misure reciproche quando si dividono gli spazi e la vita non ha differenza di bandiera, le difficoltà sono le stesse che probabilmente avrei avuto con il vicino di casa italiano. Il rapporto con Andry però mi offre una possibilità in più per crescere e mettermi in discussione, rivedere le mie certezze o per affermarle con più forza. Un confronto con chi è culturalmente diverso ha il pregio di aprire le prospettive e di crearti opportunità per considerare anche altri punti di vista.
Solido, votato alla famiglia e impegnato: j’aime l’homme français (nonostante la sua cucina)
Federica M., 39 anni, impiegata in Google, convive da 11 anni con Fabrice, francese, professore in diverse università, consulente di business innovation, attivista green ma soprattutto papà.
2001, Heineken Jammin Festival: io e Fabrice, impegnati a Imola per lavoro, abbiamo condiviso il dietro le quinte. Il suo italiano stentato e l’accento francese mi hanno divertita, convincendomi ad accettare un appuntamento: gli è bastato prendere il mio calice di rosso tra le mani per portarlo alla giusta temperatura (sarà perché è francese?) per farmi traballare. Da 11 anni queste sue piccole attenzioni ancora mi avvolgono e mi sorreggono. So di potermi fidare completamente di lui, sempre pronto a mettersi in gioco. Spirito libero, estremamente indipendente – aver vissuto e lavorato all’estero sin da giovane aiuta – quando è nata la nostra prima figlia ha lasciato il suo lavoro per dedicarsi alla famiglia, costruendosi un modello di vita flessibile e indipendente per trascorrere più tempo con noi. Molto legato alle pareti domestiche considera la casa un nido: il suo sogno è costruirne una da zero disegnata interamente da lui per la famiglia. Famiglia che è il suo centro, proprio come la cucina. E sono proprio le sue abitudini culinarie che cozzano con la mia cultura: per Fabrice l’insalata si mangia prima del pasto e gli spaghetti si buttano anche se l’acqua non bolle! Mi sono dovuta adeguare anche ai suoi standard estetici, ma non mi è costato fatica: la casa non deve essere perfetta ma mai possono mancare un fiore o una candela che la rendono avvolgente; i pasti vanno preparati con passione, serviti con la cura della domenica e consumati a televisione rigorosamente spenta. Questo forte coinvolgimento nella gestione della vita domestica comporta qualche compromesso, come accettare che le scarpe con la zeppa di corda siano sbattute in lavatrice “perché un po’ sporche” e la lavastoviglie sia caricata con i bicchieri all’insù. Ben poca cosa, se confrontata alla mia esperienza con gli italiani di cui non mi manca proprio nulla: il tempo speso spalmati sul divano guardando il calcio o l’abitudine di farsi servire o dare tutto per scontato non appartengono a Fabrice, per cui io sono la moglie e non la mamma. Vive la France!
io | sono |
tu | sei |
lui/lei | è |
noi | siamo |
voi | siete |
loro | sono |
AVERE
io | ho |
tu | hai |
lui/lei | ha |
noi | abbiamo |
voi | avete |
loro | hanno |
ANDARE, DARE, FARE, STARE, USCIRE
ANDARE | DARE | FARE | STARE | USCIRE | |
io | vado | do | faccio | sto | esco |
tu | vai | dai | fai | stai | esci |
lui/lei | va | dà | fa | sta | esce |
noi | andiamo | diamo | facciamo | stiamo | usciamo |
voi | andate | date | fate | state | uscite |
loro | vanno | danno | fanno | stanno | escono |
DOVERE, POTERE, VOLERE, SAPERE
DOVERE | POTERE | VOLERE | SAPERE | |
io | devo | posso | voglio | so |
tu | devi | puoi | vuoi | sai |
lui/lei | deve | può | vuole | sa |
noi | dobbiamo | possiamo | vogliamo | sappiamo |
voi | dovete | potete | volete | sapete |
loro | devono | possono | vogliono | sanno |
DIRE, BERE, PORRE, TRADURRE
formano il presente aggiungendo le desinenze al tema arcaico del verbo. Anche i loro composti seguono questa coniugazione:
DIRE | BERE | PORRE | TRADURRE | |
io | dico | bevo | pongo | traduco |
tu | dici | bevi | poni | traduci |
lui/lei | dice | beve | pone | traduce |
noi | diciamo | beviamo | poniamo | traduciamo |
voi | dite | bevete | ponete | traducete |
loro | dicono | bevono | pongono | traducono |
RIMANERE e SALIRE, aggiungono una g tra il tema e la desinenza della prima persona singolare e della terza persona plurale:
RIMANERE | SALIRE | |
io | rimango | salgo |
tu | rimani | sali |
lui/lei | rimane | sale |
noi | rimaniamo | saliamo |
voi | rimanete | salite |
loro | rimangono | salgono |
VENIRE e TENERE aggiungono una g tra il tema e la desinenza della prima persona singolare e della terza persona plurale, e una i nella seconda e terza persona singolare:
TENERE | VENIRE | |
io | tengo | vengo |
tu | tieni | vieni |
lui/lei | tiene | viene |
noi | teniamo | veniamo |
voi | tenete | venite |
loro | tengono | vengono |
Verbi che terminano in -gliere, come SCEGLIERE, TOGLIERE, COGLIERE, mutano la gl del tema in lg nella prima persona singolare e nella terza persona plurale:
SCEGLIERE | TOGLIERE | COGLIERE | |
io | scelgo | tolgo | colgo |
tu | scegli | togli | cogli |
lui/lei | sceglie | toglie | coglie |
noi | scegliamo | togliamo | cogliamo |
voi | scegliete | togliete | cogliete |
loro | scelgono | tolgono | colgono |
MORIRE, SEDERE, UDIRE subiscono modificazioni nel tema:
MORIRE | SEDERE | UDIRE | |
io | muoio | siedo | odo |
tu | muori | siedi | odi |
lui/lei | muore | siede | ode |
noi | muoriamo | sediamo | udiamo |
voi | morite | sedete | udite |
loro | muoiono | siedono | odono |
Nell’anno in cui Sergio Endrigo vince Sanremo con Canzone per te, nell’anno degli Azzurri campioni d’Europa, molti ragazzi italiani, come quelli di tutto l’occidente, vogliono creare “un mondo diverso” e buttar giù il cosiddetto “sistema”.
Dalle prime occupazioni degli atenei del 1966, a Trento e a Roma, alle innumerevoli proteste contro la riforma universitaria dell’anno successivo a Pisa, Bari, Napoli, Genova e Venezia.
Poi il 1968, osannato o famigerato. Protestano gli studenti dell’Università Cattolica di Milano, a Roma le manifestazioni degenerano presto ed è il momento degli scontri con la polizia a Valle Giulia e alla Sapienza.
Il mondo giovanile è pervaso da uno “spirito rivoluzionario” che si nutre di nuove motivazioni: la guerra del Vietnam, il terzomondismo, il maoismo, Che Guevara… Nascono nuove parole d’ordine, nuovi slogan, che rimbalzano da Parigi a Città del Messico, da Praga a Los Angeles. Un periodo di eccessi e di utopie e di profondi cambiamenti.
Poi, già dal 1969, il cosiddetto “Movimento” inizia a sfaldarsi, è l’anno dell'”Autunno caldo”, degli scioperi a oltranza, di Piazza Fontana… gli Anni di Piombo sono alle porte.