di VIOLA RITA
L’INGLESE è indispensabile sia nel lavoro che nei rapporti sociali. Impararlo, però, non sempre è facile, soprattutto se siamo circondati da oggetti, simboli o persone che appartengono al paese di provenienza. Non è uno scherzo: infatti, secondo una ricerca pubblicata su Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, anche se la presenza di questi elementi, a noi familiari, può metterci a nostro agio, essa riduce le nostre perfomance di conversazione, traduzione e scelta lessicale nella lingua che stiamo imparando.
Gli studi attuali. In quattro lavori, i ricercatori della Columbia Business School di New York e della Singapore Management University di Singapore hanno preso in considerazione un gruppo di studenti cinesi residenti da meno di un anno negli Stati Uniti. Nel primo esperimento, i volontari sono stati messi davanti a uno schermo raffigurante un uomo, chiamato “Michael Lee”, con il volto cinese oppure caucasico. Mentre un microfono registrava la loro velocità di conversazione, hanno parlato con il Lee caucasico, che si rivolgeva loro con un accento americano. A quel punto, i ricercatori hanno confrontato la scorrevolezza del discorso dei volontari durante il dialogo con il Lee cinese. Anche se questi hanno riferito di avere avuto un’esperienza migliore parlando con la ‘versione cinese’ di Michael Lee, la loro conversazione era meno fluida, con una quantità di parole inferiore in media dell’11% in un minuto. “È qualcosa che non ci aspettavamo”, ha detto Shu Zhang, docente alla Columbia Business School, intervistata su Science: è una sorpresa, infatti, che più i partecipanti si trovavano bene con l’interlocutore e meno erano disinvolti nel dialogo.
E lo stesso è accaduto negli esperimenti successivi, nei compiti di riconoscimento ed attribuzione di un nome agli oggetti e nel racconto di una storia: in quest’ultima prova, di nuovo, i volontari sono stati meno sciolti quando hanno osservato immagini cinesi, tra cui la Grande Muraglia, con una diminuzione in media del 16% di parole al minuto. Le icone, inoltre, hanno favorito un aumento in media dell’85% dell’uso di vocaboli tradotti letteralmente dal cinese, ha spiegato Zhang, come ad esempio “happy nuts” al posto dell’americano “pistachio” (il nostro pistacchio).
Gli studi precedenti. Non è la prima volta che ciò si verifica: già studi precedenti hanno dimostrato che immagini, luoghi e personaggi noti del nostro paese sono un po’ come delle ‘calamite di significato’, che attivano nella mente una rete di associazioni culturali ed influenzano i nostri giudizi e il nostro comportamento, come illustra Michael Morris della Columbia Business School. In uno studio, ad esempio, Morris ha chiesto ad alcuni volontari Cinesi Americani cosa fosse rappresentato su di una foto che raffigurava un gruppo di pesci, in cui uno di essi nuotava leggermente avanti rispetto al gruppo. Prima di rispondere, però, una parte dei volontari ha osservato dei simboli cinesi, come la Grande Muraglia o il dragone, e un’altra parte di essi immagini americane, come Marylin Monroe o Superman. Il risultato è che i volontari che hanno visualizzato le icone cinesi ritenevano che il pesce in pole position era inseguito dagli altri, secondo un’immagine che appartiene tipicamente alla cultura cinese, mentre quelli che hanno osservato le icone americane riferivano che il pesce stava guidando gli altri, secondo una rappresentazione che fa parte dell’immaginario americano.
L’interpretazione e le conclusioni. “Siamo sintonizzati in maniera acuta al contesto culturale”, dice Mary Helen Immordino-Yang dell’University of Southern California di Los Angeles, intervistata su Science. “Anche piccoli segnali come l’etnia della persona con cui stiamo parlando” possono influenzare lo sviluppo del linguaggio. Insomma, se state andando all’estero per studiare una nuova lingua è meglio che evitiate oggetti che ricordino il nostro paese e che possano creare un’interferenza nel nuovo contesto culturale. Ed è un monito anche per i datori di lavoro: nel caso di un candidato giapponese, portarlo a mangiare il sushi potrebbe non essere la scelta migliore, come sottolinea Morris.