Entre 1943 Y 1945, los partisanos (la resistencia italiana) lucharon contra las tropas fascistas italianas y contra los invasores nazis. En abril de 1945, los partisanos triunfaron. “Bella ciao” es una canción popular cantada por los simpatizantes del movimiento partisano.
Cuando se gesta una irrupción popular, diversos actores civiles, políticos y religiosos deciden optar por no participar en favor o en contra de uno u otro bando, sin embargo algunos deciden sumarse al pueblo y apoyar desde sus trincheras a las poblaciones afectadas por la represión y el olvido, en tres esas personas, existió un sacerdote de nombre Andrea Gallo, presbítero italiano, quien fundó la comunidad de San Benedetto al Porto, de Génova.
Esta hermoso momento religioso fue captado y filmado por Sergio Gibellini, y reeditado por Rompeviento TV. En honor a estos personajes, y desde la afinidad que tenemos con ellos como medio de comunicación, festejamos con ellos y con todos ustedes nuestro tercer aniversario. Gracias todas. Rompeviento Televisión por Internet
ROMA – Sono da poco passate le 16 del 31 gennaio scorso. Sotto il cielo grigio di Roma un corteo di automobili di Stato si appresta ad entrare nel mausoleo che celebra i martiri della Fosse Ardeatine. Da una delle vetture scende Sergio Mattarella, eletto da poche ore dodicesimo presidente della Repubblica Italiana. Inizia il suo settennato così: ricordando chi è stato trucidato a sangue freddo dal nazismo e dal fascismo. Negli stessi istanti, sul web, va in scena una sfilata virtuale di insulti rivolti al nuovo Capo dello Stato, reo di iniziare il suo mandato dalla Resistenza: “E’ un partigiano, ho detto tutto”, “ecco un altro mafioso ebreo”. E gran parte di quelle offese provengono da una pagina Facebook, quella dei Giovani Fascisti Italiani.
Sono in 134mila e si auto definiscono “Gruppo Fascista per la rinascita d’Italia”. La loro linea politica è sintetizzata da una citazione di Benito Mussolini, le parole d’ordine sono le solite: duce, rigore, potenza e così via, sin dove il vocabolario pseudo-nazionalista può spingersi. Sono nati nel 2010 e da queste parti, malgrado l’omaggio al Ventennio, non c’è nessuna forma di nostalgia. Anche gli scivolosi territori storiografici del revisionismo sono superati: si guarda al futuro, in un messianismo deformato e allucinato non si aspetta altro che “un nuovo capo”, un “uomo forte”, colui che sappia “restituirci l’onore”: “Dux Mea Lux, quando tornerai?”.
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E non sono i soli. La tana nera della rete è profonda. I social network ne sono solo l’ingresso, la punta visibile, quella più pervasiva. Per farsi un’idea basta cercare anche solo tra le “pagine amiche” che i Giovani Fascisti Italiani suggeriscono. Si va dai Camerati Italiani ai Fascisti del Terzo Millennio, dalla Falange Nera al Socialismo Mussoliniano. Poi il Movimento Fascismo e Libertà e il gruppo Dio, Patria, Famiglia. Ancora: Fiamma Nera, Orgoglio Fascista, Noi Fedelissimi dell’Italia e del Duce. Serbatoi di odio e rancore.
Perché Facebook consente la pubblicazione di questi contenuti che potrebbero prefigurare l’apologia di fascismo? “Siamo impegnati a mantenere il giusto equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei diritti delle persone. Non consentiamo, infatti, la pubblicazione di contenuti violenti, che incitano all’odio o comunque contrari agli standard della nostra community”, commenta un portavoce di Facebook Italia. Come se fosse possibile ascrivere alla categoria “gentilezze digitali” frasi del tipo: “gli zingari devono essere integrati nel cemento” o “i comunisti sono il cancro dell’umanità”.
Ma quanto è estesa questa Rete Nera? Gli ultimi censimenti – come quello contenuto in “Web Nero“, ricerca di Manuela Caiani e Linda Parenti edita da Il Mulino nel 2013 – quantificano in circa cento i principali siti attivi in Italia. E qui si passa al concreto: perché si tratta di associazioni, riviste, piccole case editrici, nuclei di skinheads che declinano la loro ideologia in quei territori dove il disagio sociale è assoluto. Se ci si sposta sul terreno dei blog, dei forum, dei negozi online nei quali è possibile acquistare ogni tipo di feticcio fascista, il numero diventa vago ma sale in maniera esponenziale. Tutto liquido, naturalmente, con pagine e contenuti che appaiono e scompaiono. La Federazione delle Associazioni dei Partigiani d’Italia ne ha contati circa un migliaio. Ma era il 2002. Oggi un numero certo non c’è.
C’è di sicuro un enorme spazio virtuale in cui i simboli della storia del fascismo e del nazionalsocialismo vengono utilizzati come carte d’identità: immagini attraverso cui si da una precisa raffigurazione politica di se stessi, forme e colori intorno a cui ci si riconosce. La Croce Celtica, le teste rasate, il doppio 8 che simboleggia le due H dell’Hail Hitler. La tigre di Evola, le parole di Pound e innumerevoli rivoli del fiume sotterraneo dell’antisemitismo.
In definitiva la questione diventa se la libertà d’espressione possa essere invocata per tutelare l’incitamento all’odio e alla discriminazione. Una questione essenziale per la giurisprudenza al tempo di internet. Ci si muove su un terreno scivoloso “quando ci si trova al confine tra il libero pensiero e parole che possono diventare armi rischiose”, dice Carlo Blengino, avvocato, esperto proprio della connessione tra diritto e internet. Il punto è il grado di pericolosità delle parole e delle immagini che vengono diffuse: quel confine appare spesso ampiamente superato e quei comportamenti prefigurano l’apologia di fascismo, un reato previsto dal nostro ordinamento. E se è sotto gli occhi di tutti, visto il carattere della rete, che “possiamo trovare siti di frustrati che inneggiano al fascismo”, continua Blengino, e che non vanno oltre il loro status di attivisti da tastiera, è altrettanto innegabile che simili comportamenti “un domani possono tornare a essere realmente pericolosi”.Le frasi shock che nessuno cancella
Su Greta e Vanessa. Daniela S.: “Vi abbiamo pagato il riscatto luride t*** Vergognatevi, spero di non incontrarvi mai. Altrimenti non so cosa sarei in grado di farvi”.
Sull’elezione di Mattarella. M. N.: “Auguri per il tuo nuovo stipendio. Mi raccomando, ingrassa come un p***. Per il resto ci siamo noi!”.
Su Mussolini: Simone P.: “Dux Mea Lux”.
Sulla xenofobia: Giorgio G.: “Hanno queste smocciose che chiedono elemosina e mai nessuno dice nulla loro, ma attenzione, sono zingari, dobbiamo integrarli… io li integrerei nel cemento”.
Sull’Islam: “Perché il fascismo deve essere bandito perché provoca pericolo e l’Islam no?”
Sulla globalizzazione: Mario P.: “Gli americani ci porteranno ben presto alla terza e definitiva guerra mondiale”.
La difesa di Facebook: “Opinioni da rispettare”
di CARMINE SAVIANO ROMA – Quali sono i criteri di valutazione? Perché non si interviene in automatico per cancellare quei contenuti che possono prefigurare l’apologia di fascismo? Quali sono i limiti della libertà d’espressione? Abbiamo chiesto a Facebook Italia di chiarire la propria posizione in merito. “Offriamo alle persone di tutto il mondo la possibilità di pubblicare contenuti personali, vedere il mondo attraverso gli occhi di altre persone, connettersi e condividere contenuti ovunque. Le conversazioni che si svolgono su Facebook e le opinioni espresse sulla piattaforma rispecchiano la diversità degli utenti”, dice un portavoce dell’azienda.
In questo contesto, il lavoro principale che viene svolto è quello di “mantenere il giusto equilibrio tra libertà di espressione e tutela della sicurezza e dei diritti delle persone”. Qui le prime indicazioni sulla policy: “Non consentiamo, infatti, la pubblicazione di contenuti violenti, che incitano all’odio o comunque contrari agli standard della nostra community. Se da un lato infatti incoraggiamo gli utenti a mettere in discussione idee, eventi e linee di condotta, non consentiamo la discriminazione di persone in base a razza, etnia, nazionalità, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia”. Discriminazioni che però non mancano sulle pagine legate alla diffusione dell’ideologia di estrema destra.
Ancora: “Siamo consapevoli del fatto che a volte le persone condividono contenuti e opinioni controverse su Facebook, così come fanno nelle proprie conversazioni quotidiane. Le nostre regole sono state create proprio per aiutare a mantenere un equilibrio tra la libertà di esprimersi, anche se alcune persone potrebbero considerarlo offensivo, e la salvaguardia di un ambiente rispettoso e sicuro”. E il portavoce dell’azienda conclude così: “Facciamo forte affidamento sulle persone appartenenti alla community affinché ci dicano quando vedono qualcosa che non dovrebbe essere su Facebook”.
“Fenomeno rilevante e non solo virtuale”di CARMINE SAVIANO ROMA – Un progetto di ricerca durato cinque anni. E che ha fornito quella che ancora oggi è l’indagine più accurata dell’intreccio tra rete ed estrema destra. Manuela Caiani, che lavora presso l’Institute for Advanced Studies di Vienna, insieme alla ricercatrice Linda Parenti, ha pubblicato “Web Nero” per le edizioni Il Mulino nel 2013. Dati, raffronti, il tentativo di comprendere come i militanti di destra utilizzano internet. E per capire quanto è profonda la tana nera dell’estrema destra italiana.
Professoressa Caiani, oltre centotrentamila iscrizioni alla pagina Facebook dei Giovani Fascisti Italiani. La impressiona questo numero?
“No. I social media sono la nuova frontiera di questi gruppi. Li utilizzano molto bene e sempre di più. I tentativi di mappare gli aderenti a pagine come quella indicata sono in corso, in ambito accademico, sin dal 2011. La volontà è quella di capire chi sono questi simpatizzanti. Di sicuro non si tratta solo di attivisti da poltrona: molti di loro passano anche all’offline, si impegnano in prima persona sui territori. Il punto è capire quanti, invece, non siano potenziali attivisti. Penso che almeno la metà degli aderenti non abbia una motivazione ideologica”.
Come bisogna leggere questo fenomeno? Derubricarlo a “politicamente insignificante” oppure è necessario chiedersi se la diffusione di questi contenuti è pericolosa per il tessuto democratico? “Non sono fenomeni politicamente irrilevanti. Basta guardare all’avanzata dei partiti di estrema destra in tutta Europa. Oramai si tratta di un trend elettorale chiaro a tutti. E di sicuro questi strumenti mediatici aiutano questi contenuti a diffondersi. La domanda è quanto il comportamento online influenzi i comportamenti offline. C’è da dire che molti attivisti ritengono che questi forum siano una seconda casa: li frequentano spesso, stabiliscono contatti, ma poi finisce lì”.
Quanto è profonda la rete dell’estrema destra italiana?
“Il punto è che questi siti vengono chiusi di continuo, è difficile avere una mappa costantemente aggiornata. In altri paesi alcune leggi sono state trasferite subito all’online e l’apologia di fascismo è un reato applicato immediatamente anche in rete. Penso alla Germania e alla Spagna. In Italia la legge Mancino pone dei paletti precisi. E penso che il numero sia quello: un centinaio di associazioni attive in rete”.
Il gruppo che più l’ha colpita?
“Casapound: hanno una strategia di acquisizione di temi di sinistra, vanno sul sociale, anche se il loro è un welfare sciovinista. Hanno la capacità di attrarre i cittadini con un discorso non nostalgico: del duce o del fascismo sembra che non gli importi nulla. E sono anche molto bravi dal punto di vista iconografico: a volte utilizzano anche simboli di sinistra”.
La rete italiana è collegata con quelle di altri paesi?
“In media un terzo delle associazioni è legato ad altre sigle internazionali”.
Ci potrebbe fornire l’identikit del militante di estrema destra?
“Negli studi elettorali c’è tutto un filone che guarda all’elettore di estrema destra. L’immagine di un cittadino scarsamente educato, abitante in periferia, con un basso salario, è un’immagine fasulla. Non si va a destra solo quando c’è la percezione di insicurezza o quando si subisce la crisi. Il votante di estrema destra è sempre più trasversale: intellettuali, classe media, operai. Basta guardare al Fronte Nazionale di Marine Le Pen”.
Dal punto di vista normativo quali ritiene debbano essere i passi da compiere?
“E’ necessario un adeguamento delle leggi all’online. Il problema è bilanciare principi fondanti di uno stato democratico. C’è da tutelare la libertà d’espressione. Penso agli Stati Uniti in cui questo principio è gerarchicamente quasi superiore a tutti gli altri. Per questo i nostri gruppi si muovono su server americani, perché lì è più difficile chiuderli”.
Da FN al Fronte Veneto, la mappa delle sigle
di CARMINE SAVIANO
ROMA – Se la valenza politica di internet è oramai accertata e accettata, il maggior interesse – e la questione ancora aperta – è comprendere come avviene il passaggio dalla partecipazione online all’impegno offline. In questo contesto i movimenti di estrema destra non fanno eccezione: la rete è soprattutto un modello organizzativo. Diffusione di materiali, proselitismo, l’incarnazione di una funzione di agenda collettiva per ampliare la partecipazione alle iniziative che vengono proposte. Ovviamente ci si riferisce a quei gruppi che hanno già una struttura interna: la capacità di mobilitazione dei gestori di una singola pagina Facebook è sempre imprevedibile.
Ecco alcuni casi italiani: Forza Nuova. Proselitismo allo stato puro. Con tanto di vademecum in otto punti: dall’abrogazione delle “leggi abortiste” al blocco dell’immigrazione. Poi la messa al bando della massoneria e il ripristino del Concordato tra Stato e Chiesa del 1929. E le campagne per l’abrogazione della Legge Scelba, la normativa che ha instituito il reato di apologia del fascismo, e quella per eliminare “l’ideologia gender” dalle scuole. Presente anche una web radio. 130mila i like alla pagina Facebook.
CasaPound. I report sulle inaugurazioni di nuove sedi, i materiali per la giornata di commemorazione delle Foibe. La lotta per il mutuo sociale e quella per uscire dall’euro. Il nucleo originario, quello romano, oramai si è diffuso su tutto il territorio nazionale. Le sedi in Italia sono oltre cento. 112mila i like su Facebook.
Fronte Nazionale. Dal “decalogo” del movimento ai manifesti per la sovranità monetaria e territoriale. Il Fronte italiano fa della diffusione in rete dell’anti-europeismo una delle proprie ragion d’essere. Commenti su tutti (o quasi) i temi d’attualità. Sergio Mattarella definito come l’ennesimo “presidente atlantico”. La presenza sui social è costante. Su Facebook quasi 8mila like.
Fascismo e Libertà. Vendita di articoli di propaganda, download dei materiali, elenco e contatti delle sede regionali. Il portale del movimento ospita anche articoli su Istria e le Foibe ed estratti ispirati al negazionismo in relazione alla Shoah.
Fuan. Azione universitaria. Insieme al Blocco Studentesco – rivolo di CasaPound – rappresenta l’estrema destra nel mondo degli studenti. Diffuse nelle maggiori città universitarie forniscono in rete un costante controcanto alle posizioni delle associazioni studentesche di sinistra.
Veneto Fronte Skinheads. Qui l’uso della rete è abbastanza didascalico: le opere e le gesta degli skinheads del Veneto dalla loro apparizione, negli anni ’80, a oggi. Poi la diffusione dei loro comunicati. Tra gli altri quello intitolato Una, cento, mille Tor Sapienza.
E nel mondo? L’attività di monitoraggio compiuta dagli studiosi è costante. Ancora in “Web Nero” vengono forniti alcuni numeri che riguardano oltre 500 organizzazioni. Cifre che possono illuminare il meccanismo del passaggio dall’online all’offline. Il 23,7% delle organizzazioni offre in rete un calendario dei propri eventi. E il 10,8% suggerisce anche iniziative di movimenti che ritiene affini o amici. La pubblicizzazione delle proprie campagne politiche è compiuta nel 23,1% dei casi. Il 25,4% dei gruppi ha un archivio con i volantini e documenti relativi alle attività svolte. Il 4,7% organizza azioni di protesta in rete, come il mailbombing o il netstrike. E il 38,6% utilizza la rete per vendere merci.
A Venezia il documentario dell’Istituto Luce sul Ventennio e la rivoluzione linguistica anti-esotismi, quando Courmayeur divenne Cormaiore e il “voi” prese il posto del “lei”
C’ERA una volta un’Italia in cui si andava non a Courmayeur ma a “Cormaiore”, i vestiti con le paillettes si chiamavano “allucciolati” e per aperitivo al posto del cocktail si beveva l'”arlecchino”. Nelle riviste teatrali cantavano “Vanda Osiri” e “Renato Rascelle”. E in platea applaudiva la “clacche”, sicuramente più energica della vezzosa claque. Era il paese di Mussolini, artefice di un folle progetto di autarchia linguistica. Via le parole straniere da insegne e pubblicità, al bando gli esotismi a scuola e nei dizionari. Vietati anche i dialetti e le parlate delle minoranze. Ammesso in pubblico soltanto un italiano virile, meglio se muscolare, il vigoroso “voi” invece del più effeminato “lei”, insomma lo stile del Me ne frego, come recita una celebre canzonetta dell’epoca, “non so se ben mi spiego, me ne frego, con quel che
Documentario di Vanni Gandolfo da un’idea di Valeria Della Valle: un viaggio attraverso la “bonifica” della lingua italiana tentata dal regime fascista
Me ne frego! è anche il titolo del bel documentario dell’Istituto Luce a cura della linguista Valeria Della Valle e del regista Vanni Gandolfo, che sarà presentato questa mattina alla Mostra del Cinema di Venezia. Un efficace viaggio nel tempo, il recupero di un’Italia dimenticata, ridicola nel suo purismo nazionalistico e anche drammatica per la violenza dei divieti, grottesca nelle sue liste di proscrizione e insieme terribile, lunarmente lontana nelle maestose coreografie littorie eppure paradossalmente vicina, perché c’è ancora chi invoca provvedimenti legislativi a tutela dell’italiano.
Durò vent’anni, quell’esperimento. Dall’anno in cui Mussolini prese il potere a quando fu costretto a lasciarlo, nel luglio del 1943. E furono molti gli intellettuali italiani che misero il proprio estro al suo servizio, studiosi della lingua e giornalisti, scrittori e poeti, romanzieri e accademici di Italia. Da Marinetti a Savinio, da Monelli alla Sarfatti, fino a Pavolini e Federzoni. Tutti prodighi di suggerimenti stilistici, perché “non c’è più posto per i cianciugliatori alla balcanica di parolette forestiere”, come scrisse nel 1933 Paolo Monelli nel suo Barbaro dominio, un libro che raccoglieva cinquecento esotismi da bandire.
Tra i giornali era partita la gara per i lettori più inventivi. Cominciò la Scena Illustrata inaugurando la rubrica “Difendiamo la lingua italiana”. Poi intervenne la Tribuna e infine la Gazzetta del Popolo con “Una parola al giorno”. L’Accademia d’Italia, organo ufficiale della cultura di regime, fu incaricata di redigere l’elenco delle parole straniere con la sostituzione italiana. Trionfava lo “slancio” al posto dello swing, il “consumato” subentrava al consommé, e non si poteva più dire shock, ma “urto” di nervi. C’era anche chi non censurava, come Alfredo Panzini, che accolse imparzialmente nel suo Dizionario termini italiani e stranieri. E all’illuminato Bruno Migliorini si devono due parole poi entrate nell’uso comune: regista al posto di regisseur e autista invece di chauffeur. A proposito di Migliorini, fu il primo a ricoprire la cattedra di Storia della lingua, istituita nel 1939 da Giovanni Gentile: l’unica cosa buona nel delirio di una bonifica totalitaria.
E sono le imponenti scenografie ducesche a trasportarci in quel delirio imperiale che abbiamo ormai rimosso, immense scolaresche mineralizzate in maestose “M” o in forma di “DUX”, oppure fatte sciamare in piazza Bernini a Torino tra gli allestimenti della “Mostra anti-Lei”, le cui immagini scovate al Luce rappresentano una vera rarità: caricature, vignette, disegni satirici che riducono il pronome allocutivo a un bubbone da estirpare, severamente bandito dalla lingua perché considerato “femmineo” e “straniero”. In realtà “era una forma italianissima in uso fin dal Cinquecento”, corregge Valeria Della Valle, docente di Linguistica italiana alla Sapienza e direttrice scientifica dell’ultima edizione del Vocabolario Treccani. L’impazzimento era tale che il settimanale di Rizzoli Lei dovette rinunciare al suo nome. Invano tentarono di spiegare a Mussolini che in quel caso era sinonimo di ella o essa, insomma di donna. Achille Starace, infiammato artefice dei “fogli di disposizioni”, ne impose la correzione in Annabella: sempre meglio di Voi, devono aver pensato al giornale.
Anche il cinema dovette conformarsi al nuovo costume, ma qualche volta gli attori inciampavano nel “lei” interdetto, prontamente corretto nella più maschia allocuzione. A teatro per fortuna c’era Totò che ironizzava sfigurando Galileo Galilei in Galileo Galivoi. Una volta incappò in un gerarca seduto in prima fila, che mostrando un humour squisito decise di denunciarlo. Ma il procedimento fu bloccato da Mussolini. “Fesserie!”, liquidò. E non se ne parlò più.
In realtà gli italiani nel privato continuarono a usare il “lei” e molti, pur di non darsi il “voi”, si buttarono sul confidenziale “tu”. E mentre il duce e i suoi gerarchi inseguivano il purismo nazionalistico, il novanta per cento della popolazione parlava ancora dialetto. I materiali del Luce mostrano questo “italiano nascosto”, il parlato vero della presa diretta, che proprio perché non in linea con le direttive ufficiali venne occultato dietro voci narranti ufficiali, asettiche e impostate. Inutile aggiungere che la bonifica mussoliniana non aiutò affatto l’alfabetizzazione degli italiani, che rimase tragicamente arretrata nel dopoguerra. “E in un certo senso”, aggiunge Della Valle, “scontiamo ancora quei vent’anni persi dietro inutili miti nazionalistici”.
Di quell’esperimento linguistico oggi è rimasto poco, quasi nulla. “Le parole straniere non sono state debellate da decreti legge”, dice la studiosa. “Le minoranze linguistiche hanno reagito con insofferenza ai provvedimenti del regime, mettendo anche in atto tentativi di separatismo. I dialetti continuano a essere usati come lingua degli affetti e delle origini famigliari: nei film, nelle canzoni e nella poesia. E il pronome “lei” ha ripreso il suo posto, mentre il “voi” è usato solo nell’italiano regionale del Mezzogiorno”. Resta come ricordo il Vocabolario della Reale Accademia d’Italia, rimasto interrotto per sempre alla lettera C: quanto basta per leggere sotto alcuni lemmi il nome di Mussolini accostato ad Ariosto, Machiavelli e Petrarca. E restano pochissime formule care al duce come “colli fatali”, “bagnasciuga” e “colpo di spugna”, tra tutte la più fortunata.
Un’Italia troppo lontana nel tempo? Non del tutto. E fa bene la Mostra del Cinema a rilanciarla per più ampie platee. Già indagata dai libri di Sergio Raffaelli ed Enzo Golino, grazie al documentario del Luce quella pagina di storia dovrebbe circolare nelle scuole e all’università. Anche perché la volontà di bonifica linguistica si potrebbe presentare in nuove forme, seppur più morbide rispetto all’antica xenofobia. Di fronte alla crisi dell’italiano – che ha perso il suo status di lingua di cultura internazionale, scivolando al ventiduesimo posto per l’ampiezza del bacino di parlanti – perfino tra gli studiosi c’è chi rimpiange una robusta politica in sua difesa. “Sì, è vero”, risponde Della Valle, “ci sono dei nostalgici che invocano provvedimenti legislativi. Di tanto in tanto viene riproposto qualche consiglio superiore della lingua italiana che dovrebbe difenderla dal barbaro dominio delle parole straniere. Ma per fortuna a occuparsi della nostra lingua ci sono istituzione solide come l’Accademia della Crusca, l’Enciclopedia Italiana e la Dante Alighieri, del tutto estranee a queste nostalgie”. La lingua è uno strumento in continua evoluzione, nessuna politica dovrebbe mai pensare di imbrigliarla. Me ne frego! serve a ricordarcelo.
Il progetto di alcuni licei romani di dedicare un ciclo di approfondimenti alla ricorrenza dei 70 anni dalla lotta partigiana e il suo legame con la Costituzione
di ALDO CAZZULLO
Esiste un luogo comune secondo cui Roma sarebbe una capitale in cui la Resistenza non ha diritto di cittadinanza. In effetti a un primo sguardo i muri sono pieni di scritte che inneggiano non solo al fascismo ma anche a Salò. E in questi anni ci sono state diverse aggressioni tecnicamente fasciste davanti alle scuole romane.
A maggior ragione è significativo che un gruppo di licei – Avogadro, Azzarita, Giulio Cesare, Righi e Tasso – abbia dedicato un ciclo di approfondimenti al progetto «70 anni fa la Resistenza», concluso nei giorni scorsi con un incontro al Righi dedicato alla Costituzione, con l’intervento di Valerio Onida introdotto dalla preside e la lettura di biografie di studenti e docenti romani martiri della lotta antifascista.
È importante che i ragazzi conoscano il legame tra la Resistenza e la Costituzione, cui lavorarono le diverse culture politiche – cattolica, liberale, marxista, azionista – che al di là delle profonde differenze ideologiche avevano collaborato nel Comitato di liberazione nazionale.
Ed è altrettanto importante che la Resistenza sia sentita come un patrimonio della nazione, non di una fazione. C’è stata la Resistenza dei partigiani delle montagne e dei Gap in città. E c’è stata la Resistenza dei civili, delle donne, degli ebrei. Dei militari che non si arresero ai tedeschi a Cefalonia e furono fucilati a migliaia. Degli internati in Germania che preferirono restare nei lager a morire di fame piuttosto che andare a Salò a combattere altri italiani. E dei romani che a Porta San Paolo imbracciarono le armi per un tentativo impossibile ma nobile di opporsi ai tedeschi, dopo la fuga del re e l’abbandono della capitale.
L’8 settembre – e il 16 ottobre, il mattino nero della razzia del ghetto -, via Rasella e le fosse Ardeatine, lo sbarco di Anzio e gli ultimi giorni della Resistenza a Roma, prima della liberazione avvenuta appunto settant’anni fa: gli studenti dei licei hanno avuto modo di approfondire tutti questi temi, a volte assenti o trascurati nei programmi di storia: perché considerati scontati, mentre non lo sono; o divisivi, come talora diventano.
È impossibile dimenticare che molti giovani, spesso convinti in buona fede di servire la patria, combatterono dall’altra parte, con i nazisti. Ma il rispetto che è dovuto a tutti i caduti nascerà proprio dallo studio e dalla conoscenza di quanto accadde in quei terribili mesi. La Resistenza romana è piena di figure coraggiose e poco conosciute. Sentire il loro coraggio e il loro dolore come nostro ha migliorato i nostri ragazzi. La scuola serve anche a questo.
La guerra continuò anche il 26, il 27 e nei giorni seguenti, ma abbiamo scelto quella data lì per festeggiarne la fine
25 aprile 2014
Il 25 aprile è una delle festività civili della Repubblica italiana, scelta per ricordare la fine dell’occupazione tedesca in Italia, del regime fascista e della Seconda guerra mondiale, simbolicamente indicata al 25 aprile 1945. La data del 25 aprile venne stabilita ufficialmente nel 1949, e fu scelta convenzionalmente perché fu il giorno della liberazione da parte dei partigiani delle città di Milano e Torino, ma la guerra continuò per qualche giorno ancora, fino ai primi giorni di maggio.
La fine della guerra
Nei primi mesi del 1945 i partigiani che combattevano contro l’occupazione tedesca e la repubblica di Salò nell’Italia settentrionale erano diverse decine di migliaia di persone, abbastanza bene organizzate dal punto di vista militare. Molti soldati occupanti, nel marzo del 1945, si trovavano a sud della pianura padana per cercare di resistere all’offensiva finale degli americani e degli inglesi, che iniziò il 9 aprile (in una zona a est di Bologna) lungo un fronte più o meno parallelo alla via Emilia. L’offensiva fu subito un successo, sia per la superiorità di uomini e mezzi degli attaccanti che per il generale sentimento di sfiducia e inevitabilità della sconfitta che si era diffuso tra i soldati tedeschi e i repubblichini, nonostante la volontà delle massime autorità tedesche e fasciste di continuare la guerra fino all’ultimo.
Il 10 aprile il Partito Comunista fece arrivare a tutte le organizzazioni locali con cui era in contatto e che dipendevano da esso la “Direttiva n. 16″, in cui si diceva che era giunta l’ora di «scatenare l’attacco definitivo»; il 16 aprile il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di cui facevano parte tutti i movimenti antifascisti e di resistenza italiani, dai comunisti ai socialisti ai democristiani e agli azionisti) emanò simili istruzioni di insurrezione generale. I partigiani iniziarono quindi una serie di attacchi verso i centri urbani. Bologna, ad esempio, venne attaccata dai partigiani il 19 aprile e definitivamente liberata con l’aiuto degli alleati il 21.
Il 24 aprile gli alleati superarono il Po, e il 25 aprile 1945 i soldati tedeschi e della repubblica di Salò cominciarono a ritirarsi da Milano e da Torino, dove la popolazione si era ribellata e iniziarono ad arrivare i partigiani, con un coordinamento pianificato. A Milano era stato proclamato, a partire dalla mattina del giorno precedente, uno sciopero generale, annunciato alla radio “Milano Libera” da Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, allora partigiano e membro del Comitato di Liberazione Nazionale. Le fabbriche vennero occupate e presidiate e la tipografia del Corriere della Sera fu usata per stampare i primi fogli che annunciavano la vittoria. La sera del 25 aprile Benito Mussolini abbandonò Milano per dirigersi verso Como (verrà catturato dai partigiani due giorni dopo e ucciso il 28 aprile). I partigiani continuarono ad arrivare a Milano nei giorni tra il 25 e il 28, sconfiggendo le residue e limitate resistenze. Una grande manifestazione di celebrazione della liberazione si tenne a Milano il 28 aprile. Gli americani arrivarono nella città il 1° maggio.
La guerra continuò anche dopo il 25 aprile 1945: la liberazione di Genova avvenne il 26 aprile, il 29 aprile venne liberata Piacenza e fu firmato l’atto ufficiale di resa dell’esercito tedesco in Italia. Alcuni reparti continuarono i combattimenti ancora per qualche giorno, fino all’inizio di maggio.
La festa
A guerra conclusa, un decreto legislativo del governo italiano provvisorio, datato 22 aprile 1946, dichiarò “festa nazionale” il 25 aprile, limitatamente all’anno 1946. Fu allora che, per la prima volta, si decise convenzionalmente di fissare la data della Liberazione al 25 aprile, giorno della liberazione di Milano e Torino. La scelta venne fissata in modo definitivo con la legge n. 260 del maggio 1949, presentata da Alcide De Gasperi in Senato nel settembre 1948, che stabilì che il 25 aprile sarebbe stato un giorno festivo, come le domeniche, il primo maggio o il giorno di Natale, in quanto “anniversario della liberazione”.
Il 25 aprile non è la festa della Repubblica italiana, che si celebra invece il 2 giugno (per alcuni anni, dal 1977 al 2001, fu trasformata in una festa mobile, la prima domenica di giugno): con riferimento al 2 giugno 1946, giorno in cui gli italiani votarono al referendum per scegliere tra forma di governo monarchica e repubblicana nel nuovo stato.
Anche altri paesi europei ricordano la fine dall’occupazione straniera durante la Seconda guerra mondiale: Olanda e Danimarca la festeggiano il 5 maggio, la Norvegia l’8 maggio, la Romania il 23 agosto. Anche l’Etiopia festeggia il 5 maggio la festa della Liberazione, anche se in quel caso si tratta della fine dell’occupazione italiana (avvenuta nel 1941).
Un film di Domenico Scarpino, Fulvia Alidori, Giulia Maraviglia e Saverio Tommasi.
Diodi è una parola. I diodi sono componenti elettronici che impediscono al flusso di corrente di tornare indietro. Hanno a che fare con la direzione. La giusta direzione, quella che fa funzionare le cose.
Resistenza è una parola. La resistenza, in un circuito elettronico, permette il flusso dell’energia senza interromperla. La resistenza è una caratteristica fisica: la forza unita alla durata.
La resistenza è la storia dell’Italia durante la seconda guerra mondiale e della lotta al nazifascismo, una Storia che si intreccia con mille storie, voci e suoni. Ha a che fare con le speranze, la forza e la tenacia delle persone. La direzione, l’energia e la tenacia sono le caratteristiche delle quattro vite da cui nasce questo racconto.
Due donne e due uomini. Quattro storie e una Storia. Quattro partigiani che sono e sono stati diodi. Laila, Pillo, Aldo e Didala sono i loro nomi. Nel 1945 Laila, Pillo, Aldo e Didala lottarono per un altro mondo e ce la fecero, anche se l’altro mondo non era questo. Alle loro vite siamo approdati attraverso il racconto. Un dono che non vogliamo perdere. Per questo abbiamo scelto di far viaggiare le loro parole, le loro espressioni e i loro sguardi raccontando la loro scelta, la scelta della resistenza. La scelta di stare dalla parte giusta, una scelta al tempo stesso intima e rivoluzionaria, un’esperienza tanto individuale quanto collettiva. Una strada che, percorsa da molti, ha portato al cambiamento. Diodi come la giusta direzione.
Resistenza come corrente continua.
Quattro come i punti cardinali, per non perdere l’orientamento. Diodi è un film dedicato ai partigiani Laila, Pillo, Aldo e Didala.
La sparata sui suoi figli trattati “come gli ebrei” durante il nazismo è solo l’ultima dichiarazione di una lunga serie di ambiguità su nazismo, fascismo e Mussolini. Ecco una breve raccolta per quelli che parlano di una semplice “gaffe”
di Wil Nonleggerlo
L’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha appena confidato a Bruno Vespa per l’immancabile libro di fine anno che lui è un perseguitato, e che i suoi figli si sentono “come le famiglie ebree durante la dittatura di Hitler“. Proprio così, ha accostato umori e destini della prole – intenta a gestire patrimoni miliardari, rincorrere Dudù e litigare con Galliani sugli insuccessi della squadra di famiglia – con quelli di chi è dovuto passare per persecuzioni su vasta scala e campi di concentramento. Parole agghiaccianti, che stanno generando la dovuta ondata di sdegno.
E c’è pure chi lo difende. “Silvio non è antisemita, mamma Rosa salvò una ragazza ebrea”, ha dichiarato l’ex parlamentare Pdl Fiamma Nirenstein. Sarà sicuramente così, sta di fatto che in questi 20 anni le gaffe berlusconiane riguardanti la tragedia del nazifascismo non sono mai venute meno. “Gaffe”, per usare un eufemismo, che abbiamo raccolto per voi.
Berlusconi, nel nuovo libro di Bruno Vespa (6 novembre 2013):
“I miei figli dicono di sentirsi come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler. Abbiamo davvero tutti addosso”.
A Milano, proprio durante il Giorno della Memoria (27 gennaio 2013):
“Il fatto delle leggi razziali è stata la peggiore colpa di un leader, Mussolini, che per tanti altri versi invece aveva fatto bene”.
Durante la presentazione di un libro di Bruno Vespa (14 dicembre 2011):
“Sto leggendo in questi giorni le lettere di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Aveva ragione quando diceva che non è difficile governare gli italiani, ma è inutile… La sua una dittatura? Beh, diciamo che era una democrazia minore”.
Ad Atreju, davanti alla platea dei giovani del Pdl, pensa bene di raccontare questa simpatica barzelletta… (12 settembre 2010):
“Mi hanno raccontato una barzelletta su Hitler, ve la racconto anche se sarò criticatissimo: vengono a sapere che Hitler è ancora vivo, lo cercano, lo trovano in un paese sconosciuto nelle Ande: ‘Fuhrer, devi tornare! La democrazia ha fallito! Ti aspettano tutti!’, insistono per giorni ma lui dice sempre di no. Alla fine si convince e fa: ‘Ok, torno, ma ad una sola condizione: la prossima volta, cattivi eh!'”.
Vertice Ocse a Parigi (27 maggio 2010):
“Oso citarvi una frase di colui che era considerato come un grande dittatore, Benito Mussolini: ‘dicono che ho potere, ma io non ho nessun potere, forse ce l’hanno i gerarchi, ma non io. Io posso solo decidere se far andare il mio cavallo a destra o a sinistra, ma nient’altro’… Lo stesso succede a me”.
Barzelletta raccontata durante la campagna elettorale del 2008, incontrando l’associazione “Amici ebrei in Libia”:
“Un ebreo va dal suo rabbino e gli dice: ‘Devo confessarti che durante la guerra ho nascosto una persona’… ‘Bravo’, è la risposta del rabbino. ‘Sì’, lo interrompe l’ebreo, ‘ma gli ho fatto pagare mille dollari al giorno’. ‘Così tanto? Vabbè, comunque ti assolvo’. ‘Grazie, ma secondo te’, aggiunge l’ebreo, ‘ora gli devo dire che la guerra è finita?'”.
Discorso per il Giorno della Liberazione, ad Onna, luogo simbolo del terremoto (25 aprile 2009):
“Il 25 aprile diventi la Festa della Libertà”.
Barzelletta durante un comizio (17 gennaio 2009):
“Un kapò all’interno di un campo di concentramento dice ai prigionieri che ha una notizia buona e un’altra meno buona. Quello dice: ‘metà’ di voi sarà trasferita in un altro campo. E tutti contenti ad applaudire… La notizia meno buona è che la parte di voi che sarà trasferita è quella che va da qui in giù…” (segue gesto con la mano per indicare la parte che dal bacino va ai piedi…).
Ai giovani di An, sul noto gerarca fascista (12 settembre 2008):
“C’è stato un periodo in cui il colonizzatore Italo Balbo fece cose egregie, cose buone”.
All’Assemblea Confesercenti, a Roma (28 maggio 2006):
“Mussolini aveva i nuclei delle camicie nere: io, secondo i giornali che sono i sottotappeti della sinistra nostra all’estero, avrei i nuclei delle veline. Grazie a Dio, un po’ meglio… Mi sembra un po’ meglio…”.
Pm peggio del fascismo (26 gennaio 2004):
“Il fascismo è stato meno odioso dell’odierna burocrazia dei magistrati che usano la violenza in nome della giustizia”.
Intervista al settimanale inglese “The Spectator” e “La voce di Rimini” (11 settembre 2003):
“Mussolini non ha mai ammazzato nessuno, Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino”.
Al Parlamento Europeo risponde alle critiche del capogruppo socialista Martin Schulz (2 luglio 2003):
“Signor Schulz, so che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La proporrò per il ruolo di Kapò. Lei è perfetto”.
Sul set di “Porta a Porta”, duetto con Bertinotti (7 ottobre 2000):
Bertinotti: “I fratelli Cervi furono uccisi dai fascisti”. Berlusconi: “Sarò felicissimo di andare a trovare papà Cervi, nobilissima figura che ha tanto sofferto”. Bertinotti: “Presidente, papà Cervi è morto da tanto tempo e i fratelli Cervi furono uccisi nel ’43”.
Su Fabio Mussi, allora presidente deputati Pds (16 ottobre 1997):
“A me Mussi è davvero simpatico, ha una faccia che è metà quella di Hitler e metà quella di un salumiere gioviale”.
A “Fatti e Misfatti”, Italia1, Mussolini molto meglio di Prodi (16 novembre 1996):
“Mussolini è stato un protagonista di vent’anni di storia nel bene e soprattutto nel male. Prodi è casomai un protagonista, una comparsa, delle cronache di questi ultimi mesi, quindi non si può nemmeno lontanamente immaginare un paragone tra i due uomini”.
Al “Washington Post” (28 maggio 1994):
“In una certa fase Mussolini fece cose buone, un fatto confermato dalla storia”.