Regia, fotografia e montaggio: Alex Infascelli.
Performer: Caterina Inesi.
Regia, fotografia e montaggio: Alex Infascelli.
Performer: Caterina Inesi.
Pulirò ben sai
un casino ormai
e tu sai
non fai miracoli.
Vola in alto e poi
provaci se vuoi
e tu mai
lo sai un po’ esageri
che forse esageri.
Se ti mancherò
prova a fuggire in noi
mi sentirai identico.
Tornerai per me
provami che sei dentro ormai
provo a muovermi.
Tornerai per noi
ora si che puoi
e tu sai
che è ciò che meriti
che è ciò che meriti.
Se ti mancherò
prova a fuggire in noi
mi sentirai identico.
Stai sulle rocce
ti ferirai
so che vivi a volte
ti ferirai
forse più che puoi
ti ferirai.
Pulirò ben sai
ora si che puoi
tu ci arriverai ed io mai
non fai miracoli
e forse esageri
ma è ciò che meriti.
Stai sulle rocce
ti ferirai
so che vivi a volte
ti ferirai.
Cominciamo dal nome, Endkadenz, perché lo avete scelto?
Io e Roberta avevamo regalato a Luca, per il suo compleanno, un libro sulle percussioni; conteneva immagini che ci piacevano per il disco. Sfogliandolo siamo incappati in un racconto di Mauricio Kagel, compositore di musica classica estrema degli anni ’30. Lo spettacolo di Kagel prevedeva una mega rullata su sei timpani, all’ultimo colpo però il timpano si squarciava e il musicista ci cadeva dentro con tutto il corpo. Questa mossa finale è l’Endkadenz. Penso sia anche una buona metafora dei tempi moderni. Inizialmente giravano anche altri titoli, ma quando è arrivato Endkadenz li ha spazzati via tutti, aveva qualcosa di ritmico.
Com’è nata la copertina?
La copertina l’abbiamo fatta io e Luca insieme al nostro grafico, Paolo de Francesco. Volevamo somigliasse a una locandina cinematografica e fosse in odore di bolero; non ricordo bene quale film avessimo in mente… forse Ultimo Tango A Parigi. La scelta è stata sofferta. Volevamo restituisse un effetto un teatrale. Penso che il risultato richiami anche la Pop Art; certi dipinti di Warol hanno lo stesso tipo di contrasto.
Come avete registrato Endkadenz?
Noi registriamo tutto su nastro, in analogico, spartendo il master. Il nastro però a un certo punto l’abbiamo cambiato, era vecchissimo. Per un anno quindi non abbiamo potuto lavorare. Anche per questo che è uscito un album chilometrico. Inizialmente doveva essere un disco live, e fondamentalmente lo è: praticamente tutte le basi – basso, chitarra e batteria e a volte anche le tastiere suonate dal nostro amico Chaki – sono live. Le sovraincisioni sono state la parte più divertente, è il momento in cui modelli un pezzo e lo fai diventare un’altra cosa . E forse, come al solito, con le sovraincisioni abbiamo esagerato andando a modificare l’idea originaria di un disco puramente live. Suonarlo dal vivo, sarà difficilissimo.
Come ve la caverete, quindi, dal vivo?
Abbiamo preso un quarto elemento, con lui stiamo riarrangiando il tutto in modo che funzioni anche meglio del disco. È un ragazzo di Bergamo, l’abbiamo trovato mettendo un annuncio su internet. Ci siamo presentati come una band qualsiasi che cercava un componente. Sono arrivati anche personaggi abbastanza strani. Alcuni, sinceramente non so come, sapevano che eravamo noi, altri non ne avevano idea. C’è chi si è agitato parecchio.
Con quale logica avete suddiviso i brani tra i due volumi?
I pezzi sono musicalmente molto diversi tra loro. Quelli nati al piano, nel periodo in cui non c’era la macchina per registrare, hanno però un mood particolare. Per un breve periodo pensavamo di far due dischi, uno elettrico e uno acustico. Poi abbiamo abbandonato il progetto e e abbiamo deciso la scaletta in una sola settimana, a novembre quando tutte le traccie erano pronte. Inizialmente Luca ha separato i brani per ritmo, poi abbiamo suddiviso per note e alla fine per atmosfere; a quel punto abbiamo cercato di dividerli in maniera equilibrata. Il secondo però, a livello di atmosfere, è risultato diverso dal primo. Da parte della casa discografica non c’è stato nessun consiglio; magari ce ne fossero stati, ma era una scaletta difficile da attuare. Abbiamo fatta tutto noi, forse potevamo fare di meglio. Per me è quasi più bello il secondo volume, per questo sono un po’ arrabbiato.
Quali consigli per chi si approccia ad Endkadenz per la prima volta?
Sarebbe da ascoltare in cuffia leggendosi i testi – mi dicono che alcune parole non si capiscono e questo mi dispiace. Avendolo registrato nelle nostra saletta che è un buco, consiglio di schiarire un po’ il suono posizionando le alte ad ore 14.
Lo stilema pop prevede che la voce sia preponderante. Mi sembra che da questo punto non vi siate piegati allo standard.
Non è un fatto di piegarsi o meno, semplicemente quando faccio musica non penso a queste cose. Si pensa troppo ai livelli di volume, per me questa regolazione è perfetta. Penso che Endkadenz sia in assoluto il disco in cui la voce viene più fuori. Il timbro scuro e la distorsione della voce mangiano un po’ le parole è vero, ma è una questione di intellegibilità del suono, non di volumi. La voce tende a mischiarsi con la distorsione generale presente nel disco, ma è assolutamente voluto. Volevamo una situazione corale.
Pubblicherete mai un album in inglese – lingua nativa delle tue melodie vocali?
L’idea di fare un disco in inglese non mi fa impazzire, dovrei passare del tempo all’estero per migliorare l’accento. Questa volta però, aiutati da amici madrelingua, abbiamo registrato alcuni brani anche in inglese. Vedremo se utilizzarli. Il fatto è che mi piacerebbe che anche all’estero ci ascoltassero in italiano. Gruppi italiani che cantano in inglese mi suonano finti; Elisa o i Jennifer Gentle no, ma sono casi rari.
Qual era il vostro stato mentre componevate Endkadenz?
Io ho avuto un figlio, il secondo; non è la botta del primo ma è comunque una bella botta. Lo stato in cui abbiamo scritto i pezzi invece… come dire? Un po’ alla Bob Marley. Il rapporto tra noi tre è sempre più bello, siamo migliorati con gli anni; le litigate, anche se più furiose, sono sempre meno e quando non litighiamo comunichiamo bene. Suonare con mio fratello Luca è facilissimo: siam cresciuti insieme e con gli stessi ascolti, quando suoniamo siamo una sola macchina. Anche Roberta, negli ultimi anni, è entrata a far parte di questa macchina. Facciamo delle bellissime jam… un giorno mi piacerebbe fare dei concerti solo d’improvvisazione, vengono fuori cose interessantissime.
È da Requiem che sei tu ad occuparti della produzione. Perché questa scelta?
Abbiamo paura si tocchino le note o l’attitudine, è per questo che facciamo fatica a trovare prsoduttori. Quello che facciamo, per noi, va bene così. Non c’è altro da aggiungere, ogni dinamica è ben studiata. Nell’album ci sono però due tracce, una per volume, prodotte da Marco Faggiolo. Gli abbiamo chiesto di occuparsi più del suono che della produzione in sé. Lui, da bravo produttore, ha capito che non c’era molto da toccare, solo da trovare un bel suono.
Perché due volumi separati e non un doppio, come Wow?
A me l’idea di un altro doppio andava bene, ma la Universal stavolta ha voluto provare un’altra formula. Sotto questo punto di vista non c’è stato niente da fare, han deciso loro. Secondo me non è nemmeno una brutta decisione, visto che ogni volume dura circa sessanta minuti. Centoventi muniti sarebbero stati forse un po’ troppi; funziona meglio così… l’unico problema è che i due volumi escono a troppa distanza l’uno dall’altro.
Il maggior numero di certificazioni dop, igp, stg, la maggioranza di aziende agricole bio, l’agricoltura con minor impatto ambientale. Inoltre l’Italia è al primo posto in Europa nella creazione di valore aggiunto per ettaro e nella sicurezza alimentare. A 100 giorni da Expo i numeri che fanno grande il nostro agroalimentare
“Dal maggior numero di certificazioni alimentari a livello comunitario alla leadership nel numero di imprese che coltivanobiologico, ma anche il primato nella creazione di valore aggiunto per ettaro e quello nella sicurezza alimentare mondiale con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici fuori norma, senza dimenticare il fatto che l’agricoltura italiana è tra le più sostenibilidal punto di vista ambientale per la ridotta emissione di gas ad effetto serra”.
Il bilancio dei primati conquistati dal made in Italy agroalimentare a 100 giorni dall’apertura dell’Expo è tracciato da Coldiretti che si riferisce al modello produttivo dell’agricoltura italiana come campione nella produzione di valore aggiunto per ettaro. Infatti questo – sottolinea la Coldiretti – “è più del doppio della media europea dei 27 Paesi, iltriplo del Regno Unito, il doppio di Spagna e Germania, e il 70% in più dei cugini francesi. Non solo siamo i primi anche in termini di occupazione, con 7,3 addetti ogni cento ettari a fronte di una media Ue di 6,6″.
L’Italia è “al vertice della sicurezza alimentare mondiale con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici (0,2%), quota inferiore di quasi 10 volte rispetto alla media europea (1,9%) e non è quindi un caso il fatto che con 43.852 imprese biologiche (il 17% di quelle europee) siamo i campioni europei del settore. L’agricoltura italiana – sostiene la Coldiretti – è peraltro tra le più sostenibili con 814 tonnellate per ogni milione di euro prodotto dal settore, non solo l’agricoltura italiana emette il 35% di gas serra in meno della media Ue, ma fa decisamente meglio di Spagna (il 12% in meno), Francia (35%), Germania (39%) e Regno Unito (il 58% di gas serra in meno)”.
Infine siamo “il Paese più forte al mondo per prodotti ‘distintivi’ , con 268 prodotti Dop e Igp e 4.813 specialità tradizionali regionali, seguita a distanza da Francia, 207, e Spagna, 162. Nel settore vinoinoltre l’Italia conta su ben 332 Doc, 73 Docg e 118 Igt”.
Gli imprenditori agricoli italiani, “con il loro lavoro hanno costruito unaagricoltura di straordinaria qualità, con caratteri distintivi unici, con una varietà e un’articolazione che non ha uguali al mondo- afferma il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo – questo modello produttivo replicabile in ogni parte del pianeta è il contributo per uno sviluppo sostenibile che l’Italia deve sapere offrire all’Expo”.
Idrata in profondità senza ungere.
Le origini e i nuovi utilizzi dell’estratto delle meraviglie
Per curare le bruciature del conte ungherese László Almásy (l’attore Ralph Fiennes ) i berberi usano l’oro del deserto. L’unguento miracoloso de «Il paziente inglese» (film del 1996 diretto da Anthony Minghella) è l’olio d’argan. L’ingrediente più gettonato dalla cosmetica per le proprietà antiossidanti, idratanti, emollienti e curative, in realtà, non è molto conosciuto. Cos’è e come si usa? Il suo olio è naturale, viene estratto a freddo dai frutti dell’argania spinosa, albero della zona Sud-ovest del Marocco, tra Essaouira, Taroudant e Tiznit, ai confini del Sahara occidentale. Servono più di 100 chili di frutti per ottenere un solo litro di olio d’argan (in media cinque-sei alberi) ecco perché è così prezioso e particolarmente raro e costoso. I mille impieghi ne fanno un prodotto estremamente versatile, un toccasana per la cura della pelle e di alcune patologie del corpo. Deve la sua efficacia all’alta concentrazione di acidi grassi insaturi e di vitamine (A, F ed E) che contribuiscono al benessere dell’organismo e al rinnovamento cellulare. Il colore dell’olio e il suo uso cambiano in base alla tostatura dei noccioli. Quello cosmetico ha una colorazione più chiara, mentre, il più scuro, dal sapore più deciso, è utilizzato anche per uso alimentare e per condire i cibi della tradizione marocchina.
«Una delle qualità più apprezzate dell’argan è quella di idratare profondamente senza ungere — spiega Ciro Vestita, docente in Alimentazione e fitoterapia all’Università di Pisa — . Le popolazioni berbere lo usano da sempre come difesa dal sole. È in prima fila per il suo forte potere emolliente, capace di penetrare in profondità nell’epidermide. Infatti, il miglior rimedio per la pelle secca è aggiungere quattro cucchiai di “oro del deserto” nella vasca da bagno. L’emulsione idraterà con efficacia i tessuti e svolgerà un’attività di ringiovanimento della cute (levigata e priva di impurità)». Gettonatissimo per i capelli «con impacchi contro la secchezza e come rimedio alle troppe tinture — continua Vestita —. E, pare, che usato come pediluvio favorisca il relax: in quattro/cinque litri di acqua tiepida aggiungere cinque o sei cucchiaini di olio. Rimanere in ammollo almeno venti minuti, tempo necessario per permettere alle molecole calmati di agire».
È la soluzione anche alle smagliature post-gravidanza, è un coadiuvante per i massaggi (si assorbe rapidamente e non necessita di un massaggio troppo intensivo sulla pelle) e diventa uno scrub naturale per il corpo (mischiato al sale grosso da cucina) o per le labbra (con lo zucchero di canna) . In campo medicinale ha un alto potere cicatrizzante e disinfettante. Si applica su bruciature e scottature (ideale come doposole), ma anche per curare la psoriasi, di cui riduce il senso di prurito e la conseguente desquamazione cutanea. Per il suo odore deciso, spesso è abbinato ad altre sostanze oleose più aromatiche, come la mandorla dolce o la rosa canina.