“Para mí es la octava maravilla”, dice Serafín Ayala Sánchez, propietario de un molino de nixtamal en San Pedro Barrientos, que funciona con energía solar
Juan Manuel Barrera
Foto. Juan Manuel Barrera
TLALNEPANTLA, Méx.— Las tortillerías de “La Gloria” son ecológicas. El agua para hacer el nixtamal es calentada con energía solar, lo que representa ahorro económico y de contaminantes, al reducir el uso de gas LP.
“Para mí es la octava maravilla”, dice Serafín Ayala Sánchez, propietario de un molino de nixtamal en San Pedro Barrientos, que funciona con energía solar.
Asegura que en Tlalnepantla están registradas oficialmente alrededor de 600 tortillerías, pero en realidad hay unas dos mil. De ellas, sólo tres usan calentadores solares para sus procesos.
“Tratamos de apoyar la ecología, que está bien deteriorada, y para reducir costos”, asegura.
Ayala Sánchez, secretario de la Asociación de Tortillerías de Tlalnepantla, adquirió a crédito hace dos años tres calentadores solares industriales en el programa Mi Tortilla, que impulsó el anterior gobierno federal, con costo total de 120 mil pesos a pagar en cuatro años y con capacidad para calentar mil 100 litros de agua.
AHORRO IMPORTANTE
Anteriormente, gastaba a la semana mil 500 pesos en gas LP y ahora invierte entre 700 y 800 pesos para el combustible, lo que representa ahorro de 50%.
Relata que en días calurosos el agua alcanza hasta 85 grados centígrados con los calentadores solares y en días nublados hasta 45 grados. Para hacer el nixtamal requiere que la temperatura del agua sea de 82 grados centígrados.
“Se vacía el agua a la tina de reposo. Cuando está a punto de ebullición, a 82 grados, se echa el maíz y el hidrato de cal. Diariamente producimos 200 kilos de tortilla”, menciona.
Los tres calentadores industriales fueron instalados en la azotea del molino de maíz, ubicado en el número 22 de avenida Benito Juárez, en San Pedro Barrientos. A un lado está la tortillería “La Gloria”, también de su propiedad.
TERCERA GENERACIÓN
Ayala Sánchez dice que su abuelo Miguel Ayala Sánchez y su padre Andrés Ayala Pallares también tuvieron tortillerías, por lo que es la tercera generación que se dedica a esta actividad. De sus nueve hermanos sólo dos continúan el oficio, otros son profesionistas.
“Antes la gente venía por tres, cuatro kilos de tortilla. Ahora compran un kilo, medio kilo. Creo que es un poquito por la economía y otro porque están mal informados de que la tortilla engorda, lo que no es cierto”, asegura.
Agrega: “La tortilla y el frijol son el alimento del mexicano y no hay nada como la masa nixtamalizada para hacer tortillas, 100% de maíz. Otras traen muchos químicos, como conservadores”.
José Sánchez Buitrón, técnico de la empresa Operadora Prava S. A., distribuidora de los calentadores solares industriales, detalla que en el país 900 tortillerías han adquirido el equipo.
Secondo la banca HSBC il nostro Paese è l’ultimo in cui trasferirsi per cambiare vita. Surclassato da Singapore e Germania ma vicino a Egitto e Spagna, dove, come da noi, di lavoro non ce n’è, le tasse sono un macigno, e il costo della vita troppo alto
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La mappa del Washington Post
Vuoi andare a lavorare all’Estero? Lascia perdere Duomo e Colosseo. Dimentica il mito della Bella Italia e parti per Cina, Singapore, Australia, Germania. Il consiglio arriva dalla banca anglocinese HSBC, che ha appena chiuso una ricerca globale sulle prospettive di lavoro e di vita degli espatriati, con oltre settemila interviste effettuate nel 2013 e incrociate coi dati economici dei diversi Stati.
Il risultato è stato riassunto dal Washington Post, ed è in una mappa in cui è chiara la sorte che tocca al nostro Paese: profondo rosso. Ovvero: una nazione da cui stare alla larga. A vincere, nel mappamondo globale che si contende le menti più brillanti per l’economia, sono soprattutto i Paesi crescita dell’Est: i lavoratori stranieri in Thailandia, ad esempio, tendono a guadagnare il 15 per cento in più dei locali, che combinato con il basso costo della vita è una garanzia di buon umore.
L’unica, secondo HSBC, a tenere testa in Europa – un continente in declino, fra tasse alte, servizi costosi e aziende in chiusura, tanto che Francia e Inghilterra risultano in rosso come noi – è la Germania, già meta di migliaia di transfughi dall’Italia, dove il lavoro si trova, la quotidianità non è male, e crescere i figli non è un problema.
Dal barcone naufragato l’11 ottobre erano partite tre telefonate di soccorso alle autorità italiane. Ma la centrale operativa ha perso due ore. E alla fine ha risposto: ‘Chiamate Malta’. Così sono annegati 268 siriani in fuga dalla guerra, tra cui 60 bambini. La video testimonianza di Mohanad Jammo, il medico siriano sopravvissuto, che nella tragedia ha perso due figli
di Fabrizio Gatti
La morte di 268 profughi siriani, annegati l’11 ottobre a largo di Lampedusa, poteva essere evitata. Un’inchiesta de “l’Espresso” ricostruisce l’incredibile comportamento delle autorità italiane e l’effetto dei regolamenti europei. Ci sono state tre chiamate di soccorso via satellite ignorate. Due ore di attesa in mare. Per poi scoprire che l’Italia non aveva mobilitato nessun aereo, nessuna nave della Marina, nessuna vedetta della Guardia costiera. Anzi, dopo due ore, la centrale operativa italiana ha detto ai profughi alla deriva a 100 chilometri da Lampedusa che avrebbero dovuto telefonare loro a Malta, lontana almeno 230 chilometri. Due ore perse: dalle 11 alle 13 di venerdì 11 ottobre. Se gli italiani si fossero mobilitati subito o avessero immediatamente passato l’allarme ai colleghi alla Valletta, la strage non ci sarebbe stata.
Il drammatico racconto di Mohanad Jammo del medico siriano sopravvissuto al naufragio dell’11 ottobre e che nella tragedia ha perso due figli. “Abbiamo chiesto aiuto e per un’ora e mezza non è successo nulla. Solamente dopo ci hanno detto di chiamare la marina maltese. Così abbiamo perso due ore fondamentali”
Il peschereccio aveva a bordo tra i 100 e i 150 bambini, sul totale di almeno 480 siriani in fuga dalla guerra: la notte precedente, le raffiche di mitra sparate da una motovedetta libica avevano forato lo scafo che, alle 17.10, si è rovesciato ed è affondato. Un elicottero ha raggiunto il punto alle 17.30, sei ore e mezzo dopo la prima chiamata di emergenza. La prima nave militare maltese alle 17.51. Quelle due ore perse avrebbero permesso all’elicottero di arrivare alle 15.30, alla nave militare alle 15.51. E ai soccorritori partiti da Lampedusa, su un veloce pattugliatore della Guardia di Finanza, di essere operativi già poco dopo le 13 e non dopo le 18.30. Ci sarebbe stato insomma tutto il tempo per concludere il trasferimento dei passeggeri e metterli in salvo.
“L’Espresso” ha rintracciato l’uomo che con un telefono satellitare ha dato l’allarme alla centrale operativa italiana. È lui a denunciare il ritardo. Si chiama Mohanad Jammo, 40 anni. Ad Aleppo in Siria, una delle città distrutte dalla guerra civile, era il primario dell’Unità di terapia intensiva e anestesia dell’Ibn Roshd Hospital, un ospedale pubblico, direttore del servizio di anestesia e anti rigetto del team per i trapianti di rene, oltre che manager della clinica franco-siriana “Claude Bernard”. Nel naufragio il dottor Jammo è sopravvissuto con la moglie, ex docente universitaria di ingegneria meccanica, e la loro bimba di 5 anni. Ma ha perso i figli Mohamad, 6 anni, e Nahel, 9 mesi, i cui corpi non sono stati ritrovati.
La denuncia è confermata da altri due testimoni. Il primo è Ayman Mustafa, 38 anni, chirurgo di Aleppo. Il dottor Mustafa era partito con la moglie, Fatena Kathib, 27 anni, ingegnere ambientale, e la figlia Joud, 3 anni, scomparse in fondo al mare. L’altro testimone è Mazen Dahhan, 36 anni, neurochirurgo all’ospedale dell’Università di Aleppo. Anche lui è l’unico sopravvissuto della sua famiglia; la moglie Reem Chehade, 30 anni, farmacista e i figli Mohamed, 9, Tarek, 4, e Bisher, 1, sono formalmente dispersi. I tre medici sperano che la magistratura italiana apra un’inchiesta: «Noi», dicono a “l’Espresso”, «anche per questo imperdonabile ritardo, abbiamo perso le nostre famiglie. Non ha senso restare in silenzio e correre il rischio che la tragedia si ripeta».
Il dottor Jammo spiega: «Ho chiamato il numero italiano prima delle 11 del mattino. Ha risposto una donna. Mi ha detto in inglese: dammi esattamente la posizione. Le ho dato le coordinate geografiche. Le ho detto: “Per favore, siamo su una barca in mezzo al mare, siamo tutti siriani, molti di noi sono medici, siamo in pericolo di vita, la barca sta affondando”. Se hanno una registrazione, sentiranno esattamente queste parole: “Stiamo andando verso la morte, abbiamo più di cento bambini con noi. Per favore, per favore, aiutateci, per favore”».
Per un’ora e mezzo non accade nulla: «Richiamo il numero, sono circa le 12.30. Ripeto chi sono. È la stessa donna. Mi risponde: “ok, ok, ok” e chiude. Ma non succede nulla. Nessuno ci richiama. Richiamo io dopo mezz’ora. Ormai è l’una del pomeriggio. La donna mi mette in attesa e dopo un po’ risponde un uomo. Mi dice: “Guardate, siete in un’area sotto la responsabilità delle forze maltesi”. Dovete chiamare la Marina maltese. L’ho supplicato: “Per favore, stiamo per morire”. E lui: “Per favore, potete chiamare le forze maltesi, adesso vi do il numero…”. Dalla mappa vedevamo che Lampedusa era a soli 100, 110 chilometri. Malta ad almeno 230 chilometri. Per questo avevamo chiamato gli italiani».
Il dottor Jammo aggiunge che l’uomo non gli ha detto il nome, il grado o il ruolo: «Ma per colpa della centrale di soccorso italiana abbiamo perso due ore fondamentali. Era rimasto davvero poco tempo per noi. È l’una e comincio a chiamare e richiamare i maltesi. Alle tre del pomeriggio mi assicurano che in 45 minuti sarebbero arrivati. Alle quattro mi dicono: “Ok, siamo sicuri della vostra posizione, ma abbiamo ancora bisogno di un’ora e dieci minuti per raggiungervi”. Dieci minuti dopo le cinque tutti i nostri bambini sono annegati e non è arrivato nessuno».
Le foto e i nomi delle decine di minori siriani morti nel barcone affondato l’11 ottobre a 60 miglia da Lampedusa. La protesta dei familiari. Che lanciano una petizione: “Recuperate i corpi e aprite un’inchiesta”. Ma i capi dei governi Ue hanno deciso di rimandare la discussione a giugno 2014
di Fabrizio Gatti
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Tre fratellini scomparsi in mare nel naufragio dell’11 ottobre
L’Espresso ha raccolto le fotografie e i nomi dei bambini, dei loro genitori e degli altri profughi siriani che l’Europa ha abbandonato in pasto ai pesci. I capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, riuniti a Bruxelles il 24 e il 25 ottobre per i lavori del Consiglio europeo, non hanno dedicato nemmeno una dichiarazione al fatto che, dei 268 morti nel naufragio dell’11 ottobre a 60 miglia a Sud di Lampedusa, soltanto 26 corpi sono stati recuperati durante i soccorsi ai sopravvissuti: le altre 242 salme di padri, madri e bimbi, alcuni di pochi mesi, sono state lasciate in mare con il relitto, nella totale disperazione dei loro familiari, molti dei quali hanno la cittadinanza o la residenza nell’Ue.
Per la maggioranza dei capi di Stato e di governo europei non è urgente nemmeno la circostanza che nei primi undici giorni di ottobre in Europa siano complessivamente annegate 646 persone, tra cui una sessantina di bambini siriani e sedici bimbi eritrei. E non lo è la coincidenza che tutti loro avessero diritto di richiedere asilo in base alle convenzioni internazionali che gli Stati rappresentati a Bruxelles hanno firmato, ma non avessero trovato altro passaggio se non quello offerto dalla mafia degli scafisti. Il Consiglio europeo, chiusi i lavori del 24 e 25 ottobre, ha infatti deciso di prendere tempo. E di rinviare soltanto a giugno 2014 una “riflessione di lungo termine sulle politiche dell’immigrazione”. Cioè tra otto mesi, dopo le elezioni di maggio per il rinnovo del Parlamento europeo. Una vergognosa furbizia politica per non scontentare il proprio elettorato. E sarà soltanto una riflessione di lungo termine. Non una decisione.
Al di là delle parole di rito, l’ultimo vertice europeo è stato l’ennesima dimostrazione di cinismo e indifferenza. Ola Izoli nel naufragio dell’11 ottobre ha perso il fratello di 19 anni, Mohamed Jafar. E nella sua email a l’Espresso inviata da Dubai, Ola descrive la sua disperazione: «La Croce rossa italiana mi ha detto di avere pazienza. Ma fino a quando? Se mio fratello è ancora sott’acqua, come farò a riconoscere il suo corpo dopo tutto questo tempo?». Per assistere i familiari come Ola Izoli i governi europei, l’Italia in testa, non hanno istituito nessuna unità di crisi. Nemmeno un numero telefonico dove cercare informazioni attendibili. Al contrario, le dodici famiglie sopravvissute che le operazioni di soccorso avevano separato sono ancora divise tra l’Italia e Malta. Fra di loro alcuni bambini, dai nove mesi ai tre anni. I ministeri dell’Interno e degli Esteri italiano e maltese stanno seguendo la procedura ordinaria di ricongiungimento che richiede mesi. L’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati sta cercando una soluzione più rapida. Sono famiglie scampate alla guerra civile in Siria. Poi all’inferno del naufragio. Ma dopo tre settimane quei bambini sono ancora in Sicilia. I loro genitori a La Valletta. Una lontananza disumana. E meno male che sia l’Italia, sia Malta fanno parte dell’Unione Europea.
Kenda Awad, 12 anni, la sorella Marwa, 14, e il fratello Aldin, 9 anni
Gli argomenti che i governi europei dovrebbero affrontare urgentemente non mancano. A cominciare dalle ridicole regole dell’assistenza in mare, la cui applicazione nel Mediterraneo è responsabile negli anni di centinaia di morti. Basta il naufragio dell’11 ottobre a denunciarne tutta la loro pericolosità. Il primo intervento è infatti partito da Malta, ad almeno 230 chilometri di distanza. E non da Lampedusa, a 110 chilometri, circa 60 miglia, la metà del tempo necessario. Questo perché il punto in cui il peschereccio stava affondando ricade, secondo gli accordi internazionali, sotto la competenza di ricerca e soccorso di Malta, non dell’Italia. «Le navi militari sono arrivate sul posto dopo quasi due ore dalla prima chiamata di sos», racconta Racha Muhriz. Racha ha perso la sorella Taghrid, 31 anni, e la nipotina Cham, 5 anni, scomparse in mare, ma ha raccolto la testimonianza del cognato, sopravvissuto al naufragio con la figlia gemella e ora trattenuto con la piccola a Malta.
Mayar Lababidi, 6 mesi
Attraverso le carte nautiche del Canale di Sicilia, l’Espresso ha calcolato che il relitto con il suo carico di corpi rinchiusi nella stiva e nelle camere del ponte principale si sarebbe adagiato su un fondale tra gli 80 e i 100 metri. Una profondità accessibile ai sommozzatori: con l’impiego di una campana pressurizzata e, in superficie, di una camera iperbarica per la decompressione, secondo tecniche comunemente usate dai sub specializzati nella manutenzione delle piattaforme petrolifere, ma anche dalla Marina militare.
I familiari dei dispersi con una petizione chiedono il recupero delle salme. E che al più presto sia eseguita l’ispezione dello scafo affondato e la localizzazione dei corpi: operazione, questa, che la Marina potrebbe concludere nel giro di pochi giorni utilizzando le telecamere di “Pluto”, il robot subacqueo teleguidato acquistato dal ministero della Difesa per le attività di sminamento. Un intervento senza alcun rischio per il personale. Sarebbe invece il primo importante passo di un’inchiesta per pirateria e terrorismo: il vecchio peschereccio con almeno 480 profughi a bordo secondo la testimonianza dei sopravvissuti sarebbe colato a picco per i colpi di mitragliatrice sparati da una motovedetta di Tripoli o, sostengono altri superstiti, da una imbarcazione inviata dalle milizie libiche, forse nel tentativo di rapinare i passeggeri. A bordo c’erano molti professionisti siriani, medici, ingegneri, con le loro famiglie, i bambini e qualche scorta di denaro per l’esilio. Oltre a un centinaio di profughi sub sahariani che erano stati chiusi a chiave nella stiva perché non fossero visti dai siriani durante l’imbarco. I trafficanti libici di Al Zuwarah che avevano venduto il viaggio verso Lampedusa, avevano promesso meno passeggeri del solito. Per questo hanno nascosto gli africani nella stiva. Così ai profughi fuggiti dalla Siria hanno potuto chiedere un prezzo più alto: tremila dollari a testa, invece di milleseicento.
Joud Mustafa, 5 anni
Sempre secondo le testimonianze raccolte a Malta, il vecchio peschereccio era stato affidato a quattro scafisti, tre tunisini e un libico. Con loro anche un passatore siriano di Aleppo: l’uomo che aveva contattato le famiglie e che con la sua presenza a bordo aveva garantito sulla sicurezza. Durante la traversata, il livello dell’acqua sempre più alto nello scafo ha invece spento il motore diesel. A quel punto uno dei tre tunisini è andato a controllare ed è rimasto ustionato da un getto di vapore. Subito dopo sul ponte è scoppiata una rissa tra il passatore di Aleppo e gli scafisti. Alcuni testimoni riferiscono di una sparatoria tra di loro, mentre le famiglie ammassate con i bimbi nelle cabine e gli africani chiusi a chiave nella stiva gridavano disperati. Perché, racconta un papà che ha perso in mare la figlia e la moglie, «ormai era evidente a tutti che saremmo affondati».
Il Daily Express lancia una petizione online per “rinviare a tempo indefinito l’ingresso di rumeni e bulgari” nel Paese. Firmano quasi 30mila persone. Intanto però uno studio dell’University College London spiega: “Gli stranieri ricevono meno benefit rispetto a quanto versano in contributi”
“Con una disoccupazione così galoppante, far entrare nel Regno Unito tutti questi nuovi immigrati sarebbe un tradimento nei confronti dei giovani britannici. Firma anche tu per spingere il governo a rinviare a tempo indefinito l’ingresso di rumeni e bulgari in questo Paese”. Questo è l’appello che il Daily Express, noto giornale tabloid con più di cento anni di storia, ha lanciato alcuni giorni fa. Ricevendo il supporto, in cinque giorni, di oltre 15mila persone al giorno, che hanno firmato online oppure hanno addirittura inviato un coupon, ritagliato dal giornale, in redazione.
L’obiettivo della campagna è semplice ma alquanto preoccupante, soprattutto in un Paese in cui non mancano partiti, formazioni e movimenti contrari all’immigrazione: “obbligare” il governo di coalizione fra conservatori e liberaldemocratici, guidato da David Cameron, a rivedere l’apertura, dal primo gennaio del 2014, a Romania e Bulgaria, Paesi dai quali, al momento, l’immigrazione è limitata. “Rischiamo 70mila nuovi ingressi all’anno da ognuno di questi due Paesi – dice ora chi ha pensato la campagna del Daily Express – e questo non è tollerabile”. Così, sul sito Internet, a corredo dell’annuncio, fotografie di rumeni che d’estate dormono e stazionano vicino a Hyde Park, l’enorme parco londinese. La zona di Marble Arch è infatti entrata più volte al centro delle cronache della stampa locale che ha documentato il fenomeno di chi è costretto ad avere come tetto il – spesso – grigio cielo londinese.
Chiaramente, le comunità rumene e bulgare sono già presenti nel Regno Unito e, spesso, sono ben integrate. Nella Capitale, soprattutto quei cittadini di origine rumena arrivati negli anni più recenti trovano occupazione nella ristorazione, nei bar e negli hotel, come tante altre comunità, quella italiana di recente immigrazione inclusa. Ma è già da mesi che la stampa britannica, non solo il Daily Express, lanciano lo “spauracchio” di una paventata “invasione di massa”. La disoccupazione nel Regno Unito è al 7,7% al momento, ma l’appello del Daily Express non punta solo sul lavoro: “Il loro arrivo metterebbe a repentaglio l’edilizia popolare, il welfare, il sistema di aiuti di Stato e persino la coesione sociale”.
Un appello che ora inizia a destare preoccupazione, anche in coloro che hanno spesso deriso la stampa tabloid – che comunque ha pur sempre un grandissimo seguito, con milioni di copie vendute ogni giorno – ma anche a essere supportato da una parte della politica. Come il parlamentare conservatore Douglas Carswell, fortemente euroscettico, che al Daily Express ha espresso il suo supporto: “Penso sia giusto che il giornale stia facendo quello che la classe politica finora non è ruscita a fare, cioè parlare seguendo il senso comune per conto del Paese”. Peccato che il premier David Cameron, alla fine, stia solo rispettando le leggi europee che impongono l’allentamento delle restrizioni dal primo gennaio. Ma spesso, qui nel Regno Unito, l’Ue è vista solamente come un insieme di lacci e lacciuoli.
Intanto, però, un nuovo studio dell’University College London lancia segnali ben diversi. Secondo la ricerca, gli immigrati arrivati nel Regno Unito dal 2000 in poi beneficiano di aiuti di Stato o di edilizia popolare molto meno di quanto faccia chi già vive nel Paese da tempo. Ma c’è di più. Secondo lo studio, sempre dal 2000 a oggi, gli immigrati di recente arrivo hanno contribuito alle entrate fiscali del Paese per almeno 25 miliardi di sterline, quasi 30 miliardi di euro. Così, soprattutto per quanto riguarda chi è arrivato dai Paesi dell’Unione europea, gli stranieri hanno pagato in tasse il 34% in più rispetto a quanto abbiano ricevuto in welfare, benefit (così sono chiamati gli aiuti di Stato come il sussidio di disoccupazione e di integrazione al reddito), ed edilizia sociale. Immigrati che, fra l’altro, sono molto più attivi nel mercato del lavoro rispetto a quanto lo fossero negli anni Novanta, studiano molto di più all’università – raggiungendo lo stesso tasso di iscrizione dei britannici – e contribuiscono sempre di più al fisco del Regno Unito. “Chi accusa gli immigrati di praticare il ‘turismo dei benefit’ è assolutamente disconnesso dalla realtà”, hanno commentato gli estensori dello studio. La campagna del Daily Express andrà comunque avanti per settimane.
Mentre il dibattito sul taglio del cuneo fiscale nella legge di stabilità continua a tenere banco il giudizio degli italiani sull’operato del governo in materia di lavoro è impietoso. Lo evidenza un sondaggio svolto da Ixé per Agorà e secondo cui il 96% dei cittadini ritiene che l’esecutivo stia facendo poco o nulla in materie (Poco pe ril 50%, nulla per il 46%). Solo un 4% ritiene che si stia facendo molto o abbastanza.
Cala di 4 punti in una settimana la fiducia nel governo Letta, passata dal 28% di sette giorni fa al 24% di oggi. Guardando invece la fiducia nei leader, il gradimento per il premier Letta è nettamente superiore, attestandosi al 42%. “Agli italiani – ha spiegato Roberto Weber, fondatore di Ixè – piace l’abilità di Letta di fare politica. Inoltre esiste un partito della stabilità, trasversale tra gli elettori, che Letta incarna”. In testa da settimane, “come la Roma” ha aggiunto Weber, c’è Matteo Renzi al 51%.
Lo stesso sondaggio mostra poi il giudizio complessivo degli italiani sul caso che ha coinvolto Anna Maria Cancellieri. Per il 62% degli intervistati il ministro avrebbe dovuto dimettersi per il caso di Giulia Ligresti. Lo dice un sondaggio Ixè per Agorà (Rai3). Il 34%, invece, ha risposto che il ministro della Giustizia ha fatto bene a non dimettersi.
Realizzato dal giovane regista di Modena Gabriele Veronesi, sarà presentato in anteprima nazionale venerdì 8 novembre al Via Emilia Doc Fest. E’ la storia di una terra in cui convivono a fatica pugni chiusi e braccia tese
C’è una regione, in Italia, in cui Lenin e Mussolini distano poco più di 150 chilometri uno dall’altro. Ossia la strada che separa Cavriago, 10 mila anime cresciute all’ombra del busto del padre dei bolscevichi, da Predappio, comune ai piedi dell’appenino forlivese, noto per i pellegrinaggi alla tomba del duce. È la terra in cui convivono, a fatica, pugni chiusi e braccia tese , in cui si incontrano e si scontrano Casapound e centrisociali, Fiamma tricolore e antagonisti proletari. È la patria dell’antifascismo che si guarda allo specchio e si scopre nostalgica. E che oggi diventa protagonista di un documentario “Emilia rossa, cuore nero”, realizzato dal giovane regista modenese, Gabriele Veronesi, e presentato in anteprima nazionale venerdì 8 novembre al Via Emilia Doc Fest.
“L’idea di raccontare questo tema nasce all’indomani degli scontri, avvenuti a Modena nel 2011, in occasione di un convegno organizzato da Fiamma tricolore” racconta il regista. Giornalista e videomaker, nonostante i ventotto anni ancora da compiere, Veronesi ha all’attivo diversi progetti, tra cui “Modenaalcubo”, inchiesta sull’urbanistica modenese, che ha fatto infuriare l’amministrazione Pd. “La mie intenzione era dare vita a un lavoro che non fosse un semplice documentario contro il fascismo, ma un progetto che ascoltasse le ragioni di entrambi. Andando a toccare questioni come la libertà d’espressione, l’apologia di fascismo e lo scioglimento delle realtà politiche che si ispirano al Ventennio. Il tutto con uno sguardo il più imparziale possibile”.
Realizzato con un budget limitato, in tutto circa 1500 euro, e completamente autoprodotto, il documentario è un viaggio nel paradosso emiliano: la regione rossa per eccellenza, costretta a confrontarsi con i camerati del nuovo millennio. “Una contrapposizione raffigurata in modo emblematico in una fotografia, che è stata di grande ispirazione per tutto il documentario e che raffigura il busto di Lenin a Cavriago, totem del comunismo emiliano, colpito da una goliardata, rivendicata dai ragazzi di Casapound. Un colpo al cuore, quasi un atto simbolico che dimostra come non ci siano più zone inibite a questi movimenti e partiti”.
L’obiettivo è andare oltre la semplice antitesi, rossi contro neri, creando un punto di partenza per un confronto, e per una riflessione più ampia. “Sono convinto che il puro conflitto sia sempre negativo. E che l’antifascismo migliore non sia quello che spacca le vetrine, ma quello che si fa a scuola, quello che produce ricerca e documentazione. Ma allo stesso tempo penso che in Italia, nonostante l’assenza della politica, siano rimasti gli anticorpi contro gli estremismi e il fascismo”. Nel video si alternano immagini delle manifestazioni antifasciste organizzate dai centri sociali a Bologna, Modena e Reggio Emilia, a quelle dei pellegrinaggi dei nostalgici che ogni anno, a luglio e a ottobre, invadono Predappio al grido di “lunga vita al duce”. E poi interviste, tra gli altri, al sindaco di Sassuolo, Luca Caselli, avvocato ex missino oggi alla guida del comune modenese, al sindaco di Predappio, Giorgio Frassineti, e a Saverio Ferrari, esperto di neofascismo.
Il video inedito dell’azione del 19 settembre – da Greenpeace
Un video inedito di Greenpeace sull’assalto del 19 settembre scorso delle forze speciali russe sulla nave Arctic Sunrise e l’arresto dei 28 attivisti (tra cui l’italiano Cristian D’Alesandro) e due giornalisti free lance dopo la loro azione dimostrativa su una piattaforma di ricerca di idrocarburi della Gazprom nell’Artico. Come si nota gli attivisti sono disarmati e la nave batte bandiera olandese
Samuele Briatore, presidente dell’Accademia Italiana Galateo, ci racconta quali sono gli errori e gli scivoloni più frequenti e come evitarli
Irma D’Aria
Se un adagio recitava “a tavola e al tavolino si riconosce il signore e il signorino”, l’Accademia Italiana Galateo ha voluto verificare quanto si conosce del galateo della tavola in Italia. Il risultato: bon ton, questo sconosciuto. Dal sondaggio effettuato su più di 500 persone, emerge un disastro. La maggioranza delle persone non conosce le regole di base della buona educazione. Abbiamo chiesto a Samuele Briatore, Presidente dell’Accademia Italiana Galateo, di illustrarci gli errori più frequenti e spiegarci come ci si dovrebbe comportare secondo le regole del galateo. (Guarda anche il nostro decalogo del bon ton)
1) Buon appetito! L’errore: l’87% degli intervistati crede che dire “buon appetito” sia un atto di cortesia, ma in realtà è sbagliato iniziare il pasto così. Cosa dice il galateo: per gli aristocratici, infatti, la tavola era un’occasione per conversare, creare alleanze e sinergie. Il cibo era solo un contorno piacevole alla conversazione. La nobiltà non arrivava mai affamata ad una tavola formale. Ecco perché augurare buon appetito è scorretto. L’inizio del pasto avviene in silenzio e con disinvoltura, seguendo il padrone o la padrona di casa.
2) Cin Cin. L’errore: il 74% crede sia giusto che al brindisi venga detto “cin cin” ma anche in questo caso, si tratta di un’abitudine sbagliata. Cosa dice il galateo: “Cin cin” è frutto della moda orientale diffusa nello scorso secolo nei salotti borghesi, un augurio che non si addice alle situazioni formali, ma è ben peggiore il milanese “bollicine”. Il galateo vuole che i calici vengano alzati con un piccolo e discreto cenno. Se qualcuno vuole fare un augurio che sia almeno sincero e motivato.
3) Mai chiedere il sale. L’errore: il 95% non sa che per il galateo, nel caso un piatto sia sciapo, il sale non deve mai essere chiesto alla padrona di casa. Cosa dice il galateo: il sale era la moneta dell’antichità. Ancora oggi sulla tavola dovrebbe essere sempre presente, in piccole ciotoline e mai nelle saliere. Chiedere il sale, se non presente sulla tavola, è un gesto scorretto: la richiesta è un’affermazione velata che non apprezziamo il cibo offerto. Inoltre, essendo indice di ricchezza, avrebbe potuto mettere a disagio la padrona di casa nel caso lo avesse finito.
4) Formaggio e uova L’errore: l’82% non sa che formaggio e uova non devono mai essere tagliate con il coltello. Cosa dice il galateo: il coltello deve essere utilizzato solo per tagliare e le uova e il formaggio morbido possono essere tagliati con la forchetta, quindi non serve il coltello. Ancora peggiore sarebbe utilizzare il coltello per aiutarsi a raccogliere formaggio, uova o altro sulla forchetta, in questo caso meglio se vi aiutate con un pezzetto di pane.
5) Come spezzare il pane. L’errore: il 76% non sa che il pane va spezzato con le mani. Cosa dice il galateo: per lo stesso motivo del formaggio e delle uova, il pane non va mai tagliato a tavola con il coltello, bensì spezzato con le mani (influisce anche la religione su questo avvertimento del galateo). Il pane va spezzato in piccoli pezzi sul piattino da pane posto alla destra del piatto, senza riempire di briciole la tavola.
6) Mangiare il brodo. L’errore: il 93% crede che per raccogliere gli ultimi cucchiai del brodo o del consommé il piatto o la tazza debba essere rivolta verso se stessi, invece che verso l’interno del piatto. Ma è sbagliato. Cosa dice il galateo: inclinando verso di sé il piatto si ha meno padronanza del gesto ed è possibile rovesciare il tutto. Inclinandolo verso l’esterno si riesce a gestire meglio il gesto senza assumere posizioni a tavola scorrette.
7) Posate. L’errore: il 79% crede erroneamente che sia giusto che nelle interruzioni del pasto le posate vadano appoggiate con i lembi al piatto e le basi sulla tovaglia. In realtà, non esiste indizio più evidente di “sgalateo” che le posate appoggiate con i lembi al piatto: sughi o oli possono colare sulla tovaglia e sporcare i manici delle posate. Cosa dice il galateo: durante le pause le posate vanno messe nel piatto con i lembi rivolti verso il basso, la posizione esatta è raffigurata dalle 20.20 dell’orologio. Finito il pasto le posate sono con i lembi verso l’alto, parallele alle ore 6.30.
8) Tovagliolo. L’errore: il 56% pensa che il tovagliolo sulle gambe non possa essere utilizzato per la bocca. Ma il tovagliolo è sulla tavola per essere usato e non per decorazione. Cosa dice il galateo: deve essere utilizzato sopratutto ogni volta che si decide di bere un sorso di acqua o di vino. Sgradevole in una tavola formale vedere i calici degli invitati unti e con l’impronta della labbra.
9) Caffè. L’errore: il 68% crede sia corretto mettere in bocca il cucchiaino del caffè dopo aver mescolato. Cosa dice il galateo: in realtà, il cucchiaino va utilizzato solo per mescolare e viene portato alla bocca solo quando deve portare qualcosa, mai per pulirlo. Il caffè deve essere mescolato con delicatezza meglio se dal basso verso l’alto, il movimento circolare e veloce è molto scorretto. Il cucchiaino, dopo aver mescolato il caffè, va poggiato sul lato del piattino.
10) Posizione di piatti e bicchieri. L’errore: apparecchiare una tavola sembra essere una vera sfida per la maggioranza delle persone, soprattutto per via di modelli di riferimento sbagliati. Infatti l’85% non conosce la giusta posizione di piatti, bicchieri e posate. Cosa dice il galateo: le posate sono ai lati del piatto, e fin qui nessun problema, alla destra vanno i coltelli con la lama rivolta verso interno e per ultimo all’esterno il cucchiaio. Alla sinistra le forchette in ordine di utilizzo, dall’esterno all’interno. I bicchieri vanno posizionati sulla metà a sinistra del piatto alto. Il bicchiere del vino deve stare sopra la punta del coltello e verso il centro il bicchiere dell’acqua. Vicino ai bicchieri va posizionato il piattino per il pane.