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Tutti gli articoli per il giorno 17 settembre 2012
«Come il sesso, il vino è stato avvolto fin troppo spesso in un’aurea di mistero, imprigionato nel tabù, offuscato da ciance tecniche e aggredito dai puritani anche se il suo godimento è, o dovrebbe essere, semplice, accessibile e divertente». Chi lo dice? Jay McInerney, l’edonista autore delle «Mille luci di New York» nel suo ultimo libro, «I piaceri della cantina» (Bompiani). Deve averlo letto anche Oscar Farinetti. E anche se non l’ha fatto è comunque in completa sintonia con questa idea del vino senza orpelli.
L’inventore di Eataly, che con il suo mega negozio ha cambiato il modo di fare la spesa di migliaia di torinesi, romani, newyorchesi (e presto anche milanesi), ha fondato un movimento con un solo comandamento: vendere vino onesto lontano dalle mode. L’iniziativa si chiama «Vino libero» e verrà presentata lunedì nel nuovo store all’Ostiense. Undici cantine («che presto diventeranno 50», prevede Farinetti) in sette Regioni. Si parte da un milione di bottiglie con l’obiettivo di triplicare. L’idea è «creare una rete tra produttori, fornitori e consumatori basata su 400 enoteche e 600 ristoranti».
«Vino libero» sembra uno slogan riemerso da atmosfere post sessantottine, un frutto di quella parte non violenta della protesta di 35 anni fa, quasi «l’elaborazione dell’eredità libertaria e antisistema», dell’epoca in cui si pensava al «corpo come diritto e soddisfazione» (Lucia Annunziata, 1997, Einaudi). Ma l’approccio di Farinetti è post-ideologico.
«Abbiamo scelto questo nome perché è facile da capire, è italiano, e indica bene quello che vogliamo: liberare il vino dalla burocrazia, dalle pastoie fisiche e metafisiche. In Italia abbiamo dieci enti che si occupano dei controlli sul vino, in Francia due, è tutto più complicato da noi, dalle visite della Forestale a quelle dei Nas».
E da cos’altro vuole liberare il vino?
«Dal rito degli abbinamenti, perché ognuno deve bere quello che gli piace mangiando quello che gli va. E poi dall’altro rito, quello delle analisi sensoriali che non fanno capire niente».
L’idea è di un gamma di qualche decina di vini soprattutto da vitigni autoctoni, dal Piemonte alla Sicilia, con una fascia di prezzo dai 5 ai 35 euro, «perché quelli più cari mi sembrano esagerati». L’associazione-movimento si è data solo tre regole: niente concimi chimici, niente diserbanti, riduzione di almeno il 40 per cento della dose di solfiti consentita dalla legge. Vino biologico quindi?
«No, la parola biologico non ci piace, sa di medicina — precisa Farinetti —, noi vogliamo avvicinare la gente a un concetto di vino pulito e buono, continueremo con altre regole, per esempio per l’eliminazione dei lieviti non naturali. È un progetto che andrà avanti per decine di anni, si evolverà».
Per ora partecipano a «Vino libero» le cantine Fontanafredda (quella di Farinetti), Mirafiore, Borgogno, Brandini, San Romano, Monterossa, Serafini & Vidotto, Le Vigne di Zamò, Fulvia Tombolini, Agricola del Sole, Calatrasi & Miccichè: 180 ettari di vigne, 350 addetti. Ci sarà un portale per le vendite online, enologi, agronomi e negozianti potranno scambiarsi informazioni.
«Porteremo le bottiglie anche fuori dai luoghi tradizionali — annuncia Farinetti — per esempio nelle librerie». Entro marzo la rete sarà completata.
«Quando i tempi sono duri conviene unirsi intorno a un progetto condiviso», è lo slogan scelto per l’iniziativa. L’auspicio: «Vorremmo più semplicità, più rispetto della storia e delle tradizioni». Sembra la trasposizione imprenditoriale del pensiero del filosofo francese Serge Latouche, per il quale la chiave della felicità è «l’abbondanza frugale», perché bisogna uscire dal «circolo infernale della creazione di bisogni e prodotti». All’idea del vino smitizzato, fatto scendere dal trono e riportato alle origini, Farinetti aggiunge la visione pratica di chi deve far tornare i conti «com’è inevitabile con la responsabilità che abbiamo verso i 2.300 collaboratori delle nostre aziende». E il cuore da «figlio di comandante partigiano» che si sta dando un gran da fare per riuscire ad inaugurare il prossimo store Eataly a Milano «nella data simbolica che più mi sta cara, il 25 aprile».
Terra matta è il titolo assegnato dalla casa editrice Einaudi all’autobiografia scritta, in un italiano inventato, da Vincenzo Rabito, un ex bracciante siciliano, semianalfabeta, nato a Chiaramonte Gulfi (Rg) nel 1899.
Il libro è stato edito nel 2007.
L’autobiografia di Rabito ha vinto il «Premio Pieve – Banca Toscana» nel 2000 ed è conservato presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.
da http://www.progettoterramatta.it/
Costanza Quatriglio a Venezia 2012
Della Valle attacca Marchionne: “Lui e gli azionisti sono il vero problema della Fiat” (da Il Fatto)
Il patron di Tod’s in una nota attacca le scelte dell’ad del Lingotto e del presidente Elkann definendo entrambi dei “furbetti cosmopoliti”. La risposta è di Montezemolo che definisce le sue parole “inaccettabili”. Infine arriva la presa di posizione dell’ex ad di Fiat, Cesare Romiti: “Quando non c’è progettazione l’azienda è destinata a morire”
Diego Della Valle va contro la Fiat e il suo ad Marchionne definito “furbettocosmopolita”. Parole dure, che anche l’amico di sempre, Luca Cordero di Montezemolo definisce “inaccettabili”. In una nota Della Valle afferma che “il vero problema della Fiat non sono i lavoratori, l’Italia o la crisi che sicuramente esiste: ma i suoi azionisti di riferimento e il suo amministratore delegato. Sono loro che stanno facendo le scelte sbagliate”. L’attacco avviene dopo il dietro front su ‘Fabbrica Italia’ di Sergio Marchionne e del presidente di Fiat, John Elkann. Il patron di tod’s coglie l’occasione per togliersi qualche sassolino della scarpa, dopo lo scontro che lo aveva visto contrapposto, la scorsa primavera, al presidente di Fiat, nel rinnovo dei vertici di Rcs, il gruppo che controlla il Corriere della Sera. E a sorpresa nel botta e risposta entra anche l’ex ad di Fiat, Cesare Romiti, che si schiera apertamente contro la linea Marchionne.
DELLA VALLE E I FURBETTI COSMOPOLITI – In riferimento all’annuncio fatto da Fiat, in cui l’azienda comunicava un dietro front rispetto agli impegni presi con il piano Fabbrica Italia, il patron di Tod’s non esita a dire la sua: “Continua questo ridicolo e purtroppo tragico teatrino degli annunci ad effetto da parte della Fiat, del suo inadeguato amministratore delegato e in subordine del presidente. Assistiamo infatti da alcuni anni a frequentissime conferenze stampa nelle quali, da parte di questi Signori, viene detto tutto e poi il contrario di tutto, purché sia garantito l’effetto mediatico che sembra essere la cosa più importante da ottenere, al di là della qualità e della coerenza delle cose che si dicono”, afferma Della Valle nella nota. ”E’ bene che questi ‘furbetticosmopoliti’ – conclude il patron di Tod’s – sappiano che gli imprenditori italiani seri, che vivono veramente di concorrenza e competitività, che rispettano i propri lavoratori e sono orgogliosi di essere italiani, non vogliono in nessun modo essere accomunati a persone come loro”.
MONTEZEMOLO: “PAROLE INACCETTABILI” – La risposta a Della Valle arriva proprio dal suo compagno d’avventura in Ntv, Luca Cordero di Montezemolo: “Espressioni come quelle usate da Diego sono assolutamente inaccettabili e non dovrebbero mai far parte di una dialettica tra imprenditori. Di tutto abbiamo bisogno in questo momento – spiega Montezemolo – ma non di polemiche che non appartengono alla cultura imprenditoriale e che fanno male al Paese. Tanto più – aggiunge – che coinvolgono imprenditori che in settori diversi affrontano una difficile competizione su mercati mondiali. Fiat, da una situazione di gravissima crisi, ha compiuto con successo un percorso difficile che l’ha portata a rafforzare la sua presenza internazionale, fondamentale per la sua sopravvivenza. Mi auguro – conclude Montezemolo – che questa assurda situazione possa ritrovare immediata ricomposizione, trattandosi di persone di qualità verso le quali nutro stima e amicizia”.
ROMITI SALVA LA FIOM E DICE: “AZIENDA DESTINATA A MORIRE” – “Quando un’azienda automobilistica interrompe la progettazione vuol dire che è destinata a morire”. Cesare Romiti, ex presidente e Ad di Fiat, commenta così all’Adnkronos, la decisione del Lingotto di ‘congelare’ il piano Fabbrica Italia e il duro attacco di Della Valle a Marchionne e agli azionisti della casa torinese. “Uno dei principali colpevoli è il sindacato assente che, tranne la Fiom, non hanno fatto nulla” per contrastare le scelte del management, aggiunge Romiti.
PASSERA: “CHIEDEREMO CHIARIMENTI” – Il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, rispetto alle tensioni emerse dopo l’annuncio di Fiat di rivedere i suoi piani di produzione in Italia, tenta di riportare tranquillità: “Su ‘Fabbrica Italia’ chiederemo tutti i chiarimenti”. Più esplicito nell’esecutivo è il commento del sottosegretario all’economia, Gianfranco Polillo: “E’ stato un fulmine a ciel sereno. La cosa che mi sento di dire è che, se quando è iniziata tutta la querelle si fosse operato con maggiore tempestività da parte da parte di tutti i soggetti imprenditoriali e sindacali, saremmo in una situazione migliore”.
Roberto Roversi, poeta dolce e indomabile, severo e risorgimentale, è morto. Ieri, a 89 anni. Il 2012 ha falcidiato Bologna: Dalla, Stefano Tassinari, Roversi. Nel suo ultimo libro, deliberatamente clandestino come gli altri, parla di una “Italia sepolta sotto la neve”. La parte conclusiva si intitola Trenta miserie d’Italia. “Appartengo alla schiera, non folta, convinta non solo che si possa, ma che si debba morire per la così detta “patria” (..) Dunque questo testo è un canzoniere d’amore incattivito da una rabbia rabbiosa per un tradimento che è in atto ma che deve passare”. Partigiano, poeta, paroliere. E soprattutto libraio. Dal 1948 al 2006, in Via de’ Poeti. Libreria Palmaverde, senza vetrina. “È legata a una scelta precisa. Non quella dell’alto antiquariato, ma del libro esaurito, un po’ raro e di cultura”. Trecentomila volumi passati di lì. Roversi se li ricordava tutti. “Vendere i libri è la parte più dolorosa del mestiere di libraio. Quante volte mi sono messo subito a cercarne uno identico per riempire il vuoto”. Così raccontava a Michele Smargiassi, uno dei suoi cantori migliori, nel 2010 per Repubblica: “Dai libri che partivano per l’estero, che dovevano affrontare un viaggio lungo e periglioso, mi congedavo con un rito speciale: scrivevo una piccola poesia per loro e la infilavo fra le pagine. I libri sono individui, parlano, cantano, profumano, si muovono secondo il vento e le stagioni. Quel che rimpiango di più è non aver abbastanza forza nelle gambe per andare in una libreria, aspirarne l’odore come quando si entra in un bosco, scaffali come alberi e libri come foglie, perché i libri non sono corpi morti”. Sei anni fa li mise all’asta, i proventi ai senzatetto. Roversi ha vissuto inseguendo una luce che, se proprio doveva, lo illuminasse di sghimbescio. “Che sorte avranno i miei libri? Forse la pattumiera della storia. La carta è riciclabile”.
Dalla metà dei Sessanta pubblicava solo per case editrici piccolissime. Più spesso, fogli fotocopiati. “Ho sempre scritto su giornali di sinistra: più erano di sinistra, più ci scrivevo. Ho diretto Lotta continua, dopo Pasolini e Pannella: l’ho fatto perché pensavo che la libertà di stampa fosse in pericolo. Adesso non scrivo – si potrebbe dire – perché nessuno me lo chiede”. Amava il giornalismo più di quanto questo meritasse. “Sono immerso nella carta stampata da quando sono nato. Amo i giornali: mi piace leggerli, dissentire, arrabbiarmi. È solo che i giornali italiani sono per lo più scritti male. Il giornalista che scrive bene invece mi commuove, mi fa andare in brodo di giuggiole. Lo vado a cercare, lo inseguo”. Nelle interviste, ad esempio ad Angela Manganaro, citava “il grandissimo Marx” e Jovanotti. Antiberlusconiano sui generis (“L’accanimento contro di lui è stato impostato in un modo talmente viscerale, scorretto, e accanito da coprire la mancanza di argomenti alternativi ed efficaci da parte nostra”). Impietoso anzitutto con la sua parte: “La sinistra è debilitata, anchilosata, monca: gira con una gamba di legno appoggiata a un bastone, come i reduci di guerra. A volte fa tenerezza nella sua mancanza assoluta di potere comunicativo. Non corre più: dovesse correre dietro a qualcuno ruzzolerebbe per terra con la sua gamba di legno”.
Aveva occhi buoni e barba, pure quella risorgimentale, a due punte. La moglie Elena, la casa al quarto piano di un palazzone bolognese. Curioso, anche musicalmente . Ha composto per gli Stadio, pensando a Maradona (Doma il mare, il mare doma) e chiedendosi chi fossero i Beatles. E poi Lucio Dalla. Tre dischi, dal 1973 al 1976: Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa, Automobili. Quest’ultimo lo firmò con uno pseudonimo: Norisso.
Roversi voleva che nell’album confluissero tutti i brani dello spettacolo Il futuro dell’automobile e altre storie. Dalla – e casa discografica – scelsero solo quelli meno politici, tra cui Nuvolari. Roversi portò Dalla nei territori della sperimentazione. Dei media cannibali (Carmen Colon), del mercato (La Borsa valori), della delinquenza minorile (Mela di scarto). Delle gemme (Tu parlavi una lingua meravigliosa).
L’anno successivo, Dalla incise Come è profondo il mare. Da solo. Roversi rimase in libreria. Quella dove era nata Officina, rivista fondata con Pasolini e Francesco Leonetti. Quella che frequentava Sciascia. Quella in cui si resisteva. E Dalla? “Un uomo colto. Diceva che avrebbe musicato anche l’elenco del telefono, se lo avessi scritto io. Poi giustamente s’accorse che le cose che scriveva da solo vendevano cento volte più delle nostre”.
I giudici hanno inflitto il carcere a vita – al termine di un processo segnato da scarsa trasparenza secondo gruppi di tutela dei diritti umani – a due dei presunti esecutori materiali (altri due erano stati uccisi all’epoca dei fatti, durante un tentativo di cattura): Mahmud al-Salfiti e Tamer al-Hassasna, poco più che ventenni

E’ arrivata oggi la sentenza per l’omicidio del cooperante italiano Vittorio Arrigoni, ucciso nell’aprile del 2011 nella Striscia di Gaza, enclave palestinese controllata dagli islamici di Hamas. Il processo si è svolto dinanzi a un tribunale militare controllato da Hamas: quattro le condanne di cui due ergastoli per Mahmud al-Salfiti e Tamer al-Hassasna, poco più che ventenni, riconosciuti colpevoli del rapimento e dell’omicidio dell’attivista italiano. Oltre al carcere, i condannati dovranno scontare un periodo di lavori forzati, ma non la pena di morte, grazie all’opposizione manifestata dalla famiglia di Arrigoni. La Corte militare di Gaza avrebbe infatti potuto comminare la pena capitale ai due imputati principali, ma si sarebbe astenuta dal farlo tenendo conto della decisione che i familiari avevano espresso fin dall’ inizio del processo, in omaggio alle convinzioni dello stesso Vittorio. Secondo la tradizione islamica, i congiunti possono avere voce in capitolo sulla sorte degli assassini d’un parente.
A 10 anni è stato condannato invece Khader Jiram, vicino di casa di Arrigoni, accusato di aver fornito informazioni decisive ai killer, e un anno Amer Abu Hula, che aveva messo a disposizione la sua abitazione al commando. Dopo il rapimento Arrigoni era apparso ferito in un filmato in cui lo si additava come nemico dei costumi islamici e in cui si chiedeva a Hamas la liberazione di un capo salafita iper-integralista arrestato nella Striscia nei mesi precedenti.
Ma prima della scadenza dell’ultimatum l’attivista era già stato assassinato. Il giorno dopo la polizia di Hamas aveva trovato il suo corpo senza vita nell’appartamento dove era stato nascosto. Secondo un perizia, sarebbe stato strangolato con filo di ferro. Positivi, dopo le critiche rivolte alla procedura e all’iter delle indagini, appaiono intanto i primi commenti sulla sentenza delle organizzazioni locali per i diritti civili, che hanno seguito da vicino le varie udienze per mesi.

A Taranto si registra un aumento della mortalità del 10 per cento nel periodo 2003-2008. È quanto emerge dai nuovi dati dello studio ‘Sentierì dell’Istituto Superiore di Sanità, che verrà presentata domani al ministero dal ministro della Salute Renato Balduzzi. Il trend conferma le precedenti analisi, relative al periodo 1995-2002, che parlavano di un aumento di mortalità generale e per tumori che oscillatra il 10 e il 15 per cento, e del 30% in particolare per il tumore al polmone sia in uomini che per donne, oltre a un +50 per cento di decessi per malattie respiratorie acute.
«Il ministero dell’Ambiente si costituirà parte civile nel processo mirato a individuare responsabilità per l’inquinamento di Taranto». Lo afferma il ministro dell’Ambiente Corrado Clini su twitter.
Presentati i dati di una prima mappatura di quello prodotto nel nostro Paese, rilevati dal ministero della Salute. 12 siti di interesse nazionale e 34mila considerati pericolosi. A rischio anche molti stabilimenti industriali
di CORRADO ZUNINO
C’è una prima mappa dell’amianto in Italia, presentata a Casale Monferrato dal ministro del Lavoro Elsa Fornero, dal ministro della Salute Renato Balduzzi, il cui dicastero ha elaborato un’edizione dei Quaderni della salute dedicata alla questione amianto, e dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini.
La quindicesima edizione dei Quaderni illustra la definizione (prima e parziale) dei siti “con significativo rischio di patologie asbesto-correlate”, un lavoro reso obbligatorio da un decreto del 2009. I risultati definitivi saranno resi noti, probabilmente, nel corso della Conferenza di Venezia (tre giorni a partire dal 22 novembre), mancano infatti i contributi delle Regioni.
Per ora, attraverso i dati rilevati direttamente dal ministero della Salute attraverso i suoi osservatori epidemiologici, sappiamo che ad oggi sono 12 i siti di “interesse nazionale” per la presenza di amianto e 34 mila i luoghi censiti come pericolosi (373 inseriti nella classe I di pericolosità). Al 2009 erano state bonificate 379 mila tonnellate di amianto-cemento (quasi tutte all’estero, soprattutto in Germania), ma si calcola che ancora debbano essere smaltite 32 milioni di tonnellate, il 99 per cento del totale prodotto in Italia.
Dal dopoguerra fino al 1992, anno di messa al bando nel nostro territorio dell’estrazione e della produzione, dell’importazione, dell’esportazione e della commercializzazione sia dell’amianto che dei prodotti che lo contengono, c’è stato un consumo di 3,5 milioni di tonnellate di amianto grezzo. Le previsioni sulle malattie e i decessi correlati dicono che la fase d’apice arriverà tra il 2015 e il 2020, visto che la contaminazione può avere un periodo di latenza di 30-40 anni. Il ministro Balduzzi ha definito quella dell’amianto “un’emergenza nazionale”. Solo per tumori al polmone si registrano 1.000 casi l’anno. Il 10% delle patologie è legato al luogo di residenza, il 90% al posto di lavoro (in particolare nell’attività cantieristica navale, nell’edilizia e nell’industria del cemento-amianto).
La novità del nuovo studio del ministero della Salute è che individua come aree a rischio non soltanto i luoghi di produzione o le cave minerarie (Casale Monferrato sede dell’Eternit, Broni, Biancavilla e gli altri nove siti di interesse nazionale). Presenze consistenti del prodotto nocivo sono state avvistate nei cantieri navali di Genova, nei poli calzaturieri di Bologna, al chimico di Priolo, nel Siracusano: l’utilizzo dell’amianto e dei suoi simili si è affiancato per decenni a gran parte delle attività industriali pesanti. Degli 8094 comuni italiani, in 263 si è registrata una mortalità per mesotelioma pleurico (l’altra grande patologia dell’amianto) superiore alla media. Le regioni interessate più intensamente sono del Centro-Nord: Piemonte, Lombardia, Liguria, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna. Il Piemonte, con la sede dello stabilimento Eternit a Casale Monferrato, resta al centro dello studio epidemiologico. A Casale Monferrato sono stati fin qui segnalati 459 casi di mesotelioma, nei vicini San Giorgio, Rosignano e Villanova Monferrato altri 14 casi per ogni località. Per la bonifica del Casalese la Regione Piemonte ha trovato 28 milioni di euro, di cui sei già erogati.