di Stefania Scateni

Tre giorni di corsa per Emanuele Crialese, unico italiano nel palmarès «grande» di Venezia (l’unico altro italiano, Guido Lombardi, ha vinto per l’opera prima): era a Lampedusa quando è stato richiamato sabato al Lido, ieri a casa e pronto per partire oggi verso Toronto col suoTerraferma, dedicato al tema dell’immigrazione. Il film ha avuto critiche non esaltanti, ma non è questo che lo ha amareggiato. «La prima cosa che mi hanno detto a Venezia è stato riferirmi il sospetto che abbia avuto il Gran Premio speciale della giuria per fare un favore all’Italia e propiziare una conferma del direttore della Mostra, Marco Müller».
E lei cosa risponde?
«Lo trovo ridicolo. Quando il cinema italiano non vince c’è polemica perché non vince, quando vince allora “chissà perché abbiamo vinto”. Il complottismo non porta da nessuna parte. Il premio a Terraferma è anche una nostra festa, è un riconoscimento che va a me ma anche al cinema italiano. La critica fa il suo mestiere, commenta e dice la sua, ma se si chiede quali remoti perché, quali poteri oscuri abbiano deciso la vittoria di un film italiano, mi appare un po’ masochista. Inoltre non si tiene conto del prestigio della giuria – professionisti di prestigio come André Téchiné, Todd Haynes, il presidente Darren Aronofsky.. – e trovo offensivo dubitare della loro onestà intellettuale. Come fanno nei festival seri hanno tenuto segreto fino all’ultimo il verdetto, è per questo che sono stato richiamato tardi al Lido»
La stampa estera ha molto apprezzato il suo film: il «New York Times», l’«Observer», «Le Monde»… alla mostra, in fin dei conti, l’Italia del cinema è stata salvata dagli immigrati…
«Sarebbe un bel sogno che l’Italia venisse salvata dagli immigrati. Quello dei migranti è un tema che mi sta particolarmente a cuore, perché la natura dell’uomo è quella di muoversi, di cercare, andare avanti. È fonte di ispirazione per una narrazione, anche perché io per primo sono un migrante: probabilmente la carriera che ho intrapreso nel cinema è stata possibile grazie al fatto che sono partito, che sono andato negli Stati Uniti. So quanto è importante conoscere l’altro, vivere in una cultura diversa e far conoscere la propria. Mi tormenta quindi vedere che una parte dell’umanità, quella povera, non possa essere libera di muoversi nel mondo, come invece lo è la parte più ricca. Credo che non sia ancora possibile storicizzare il «fenomeno immigrazione» di oggi, stiamo assistendo a una specie di sterminio sommerso, non posso associare questa immigrazione a quella degli inizi del secolo, che ha coinvolto noi italiani. L’immigrazione di oggi andrebbe affrontata in un modo più umano, bisogna dare volto e nome a questa gente che attraversa il mare e rischia la vita. Non possiamo essere così insensibili da non vedere. C’è un’urgenza. È necessario per noi riflettere su questo, in Europa siamo il paese meno aperto alla ricezione e all’integrazione. Ecco perché ho deciso di dedicare la mia quarta opera a un tema politico, ma non volevo farlo col pugno teso, perché credo che il modo migliore per raggiungere le persone sia parlare di umanità».
È forse per «troppa umanità» che a detta di alcuni critici, ha rappresentato gli immigrati in maniera oleografica?
«Non riesco a fare un’analisi oggettiva. Forse ci si aspettava da me un film diverso, di denuncia aperta… ma io non riesco a pormi di fronte al mio lavoro come un denunciante. Sollevo delle questioni: il mio ruolo è quello di evocare, domandare, comunicare con un pubblico eterogeneo. Cerco di trovare un linguaggio che parli all’uomo, e alla denuncia preferisco l’allegoria, la metafora, un linguaggio che trovo più giusto per me, è il mio modo di esprimersi. Film documentaristici, ad esempio, non riesco a farne, preferisco parlare di archetipi piuttosto che di attualità. Il mio modo di vedere la vita e la realtà attraverso un’immagine dell’uomo più essenziale, esistenziale».